Torna a Fascismo

Carlo Borsani e la RSI

 

Non è facile parlare di Carlo Borsani, a parte tutte le considerazioni di carattere politico ed ideologico che sicuramente pesano ogni volta che si parla di lui, soprattutto a Legnano. Mi riferisco soprattutto alla difficoltà di contestualizzare il suo pensiero perché l’unica fonte per ricostruire il suo ruolo nella Rsi è il bel libro che il figlio, Carlo Borsani jr., ha dedicato al padre. Tra parentesi è un testo quasi introvabile: nell’intero consorzio interbibliotecario…

Altra difficoltà: Carlo Borsani è citato non poche volte nei libri maggiori, per esempio nella monumentale opera di De Felice dedicata a Mussolini. Ma le tante piccole citazioni di Borsani, non poche volte nelle note a piè pagina, rendono non facile decodificare il suo ruolo nella Rsi.

Possiamo dire per iniziare che Borsani fu figura di secondo piano nella Rsi, rispetto ai più famosi Gentile, Farinacci, Pavolini, Graziani e naturalmente Mussolini; figura secondaria però in uno stato che occupava buona parte dell’Italia dopo l’8 settembre del ’43 e che durò venti mesi. Quindi affrontare l’opera e l’azione di Borsani vuol dire anche avere l’opportunità di studiare un organismo statale che in genere la sinistra, talvolta anche la storiografia di sinistra, ha sempre a torto disprezzato e demonizzato poche volte studiato.

Un’ultima precisazione. Questo incontro non è una commemorazione della figura di Borsani né tantomeno una sorta di processo alle sue idee e alla sua azione politica. Non si tratta neppure di procedere a riabilitazioni o pacificazioni storiche sommarie. L’obiettivo invece è capire la sua personalità e il suo ruolo storico nella Rsi. Quindi questa sera parleremo solo di storia.

Ci conforta una citazione di Roberto Battaglia, partigiano prima azionista e poi comunista, autore nel 1953 di una “Storia della Resistenza” che a lungo fu il testo base della sinistra. Ebbene Battaglia scrive che studiando la Repubblica sociale di Salò è necessario riconoscere coloro che erano in “buona fede” e “meritano rispetto”. E’ con questo spirito che io e Renata vogliamo affrontare la figura di Borsani.

Carlo Borsani nasce nell’agosto del ’17, anno tragico nella Grande guerra. Il padre è operaio alla Franco Tosi e segretario della sezione legnanese del Psi.

Nel 1930, Carlo ha 13 anni, il padre Raffaele muore stritolato da una puleggia. La madre rimane con 4 figli. Per poter studiare Carlo viene iscritto al seminario di Lodi (l’unico modo allora di studiare per i giovani di famiglie povere) e poi finito il liceo si iscrive a giurisprudenza alla Statale di Milano (1937). Nel ’37 è chiamato alle armi e frequenta il corso per ufficiali di complemento a Salerno con il massimo dei voti. Nel ’39 prende servizio in un reggimento di fanteria a Milano.

Nel giugno del ’40 il suo reparto viene inviato a combattere in Francia ma le operazioni militari durano pochi giorni e quindi non è impegnato in alcun combattimento.

In Grecia

Il 28 ottobre ’40 Mussolini dichiara guerra alla Grecia e nel dicembre con il suo reparto si imbarca a Brindisi.

A fine dicembre c’è il battesimo del fuoco in Grecia con alcuni morti nel suo reparto e Borsani viene ferito. Pochi giorni di convalescenza e Borsani è di nuovo sulla linea del fuoco. In questa occasione il suo colonnello proporrà Borsani per la medaglia d’argento al valore ma la pratica si perderà nei meandri della burocrazia.

9 marzo 1941

Finchè poi si arrivò alla tragica giornata del 9 marzo ‘41. L’esercito è al confine tra l’Albania e la Grecia. Come se il tempo fosse rimasto alla Grande guerra Borsani con i suoi uomini scatta su un terreno in salita e sotto il fuoco nemico per la conquista della cima davanti a lui. Viene prima ferito e portato via a poche decine di metri. Lì cade una bomba da mortaio che uccide e ferisce molti soldati tra cui Borsani.

“Borsani ha il tronco, la testa, le braccia, le gambe dilaniate da ventisei ferite. La granata gli ha aperto la scatola cranica e numerose schegge sono penetrate nel cervello”. Sembra morto ma miracolosamente è ancora vivo.

Nonostante cure lunghe e dolorose Borsani si iscrive alla Facoltà di Lettere e inizia un’attività di conferenziere che gli consente di essere conosciuto in tutta Italia tramite anche alcuni discorsi alla radio.

Si sposa nell’ottobre del ’42 con una ragazza di 16 anni che si era innamorata di lui ascoltandolo alla radio. Durante il viaggio di nozze a Roma Borsani conosce Mussolini e sono ricevuti da Pio XII.

Possiamo immaginare l’emozione dei due coniugi in Vaticano fino alla doccia fredda. Di fronte alla giovane coppia il Papa si rivolse alla moglie con queste parole: “Ma lei, così giovane, come ha potuto sposare quest’uomo, un cieco?!”. Senza aspettare la risposta li aveva benedetti e se n’era andato. Fu un momento di dolore e avvilimento per lui.

Nel febbraio del ’43 Borsani è nominato consigliere (il più giovane in Italia) del PNF e deve spesso recarsi a Roma.

Intanto arrivò il 25 luglio il quale dovette lasciare un segno indelebile nella coscienza politica di Borsani e di tanti altri giovani della sua età.

25 luglio ‘43

Come è noto Mussolini venne sfiduciato da 19 membri contro 7 del Gran Consiglio del Fascismo. La mozione Grandi proponeva al re di“assumere, con l’effettivo comando delle Forze Armate, secondo l’articolo V dello Statuto, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono”. In sostanza Grandi voleva non solo esautorare Mussolini dal comando dell’esercito ma anche far uscire l’Italia dalla guerra ridando al re ruoli politici-militari fino a quel momento nelle mani di Mussolini.

Finita la votazione Mussolini non pareva granchè preoccupato di quanto accaduto nonostante avesse detto: “Voi avete fatto cadere il regime”. Probabilmente era convinto di appianare con il re quanto era accaduto (rimpasto del governo) rimanendo al governo. Invece il re stava aspettando una simile occasione per far fuori Mussolini e traghettare l’Italia dalla parte degli Alleati.

Da notare che la svolta del 25 luglio non deriva dall’antifascismo ma da una faida interna alla classe dirigente per salvare se stessa. Lo sbarco in Sicilia (10 luglio), il bombardamento di Roma (19 luglio) e l’incapacità di Mussolini di affrontare con Hitler il ruolo subalterno dell’Italia nel conflitto, spinsero alcuni settori del fascismo e la monarchia a neutralizzare Mussolini per poter intavolare trattative con gli Alleati.

La mancata reazione fascista fu dovuta alla rapidità degli avvenimenti e dal proclama del re: “Ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede, di combattimento…” e di Badoglio: “La guerra continua. L’Italia… mantiene la parola data”. Per qualche giorno il fascismo sembrò letteralmente scomparso in Italia.

Borsani venne a sapere quanto era accaduto ed escamò: “No, non è possibile!”. Per lui era chiaro che il re e i congiurati del Gran Consiglio avevano tramato contro Mussolini e quindi erano traditori.

Furono momenti terribili per tanti giovani come lui: “Ma che cosa era valso il sacrificio dei suoi occhi e quello di tanti giovani come lui, caduti sui tanti campi di battaglia?”, scrisse un generale dell’esercito che l’aveva conosciuto.

8 settembre

E poi venne l’8 settembre. Alle 19.45 alla radio si ascoltò il proclama di Badoglio nonostante alle 15 dello stesso giorno il re ricevendo Rudolf Rahn (ambasciatore tedesco) lo tranquillizzasse dicendogli che niente sarebbe accaduto.

Borsani ascolta alla radio Badoglio ed è ancora più sconvolto rispetto al 25 luglio: tradimento del re e di Badoglio, tradimento nei confronti dell’alleato tedesco, tradimento del popolo italiano abbandonato al proprio destino così come l’esercito da uomini indegni di governare il paese.

Se l’8 settembre è la data dalla quale nacque la Resistenza non dobbiamo per questo sottovalutare il terribile impatto della stessa data nel fronte opposto. Lo spettacolo delle divise militari buttate nei fossi, delle mostrine strappate, dell’esercito in dissoluzione, di un paese nel caos con l’ingloriosa fuga del re e del governo spinse molti giovani a rinserrarsi nelle file del neonato fascismo repubblicano.

“Italia mia che nel cimento stai, fatta segno all’oltraggio ed al dolore…”, scrisse Borsani in una poesia in quelle settimane.

Per cogliere lo spirito dei giovani che scelsero Salò possiamo ascoltare quanto scrisse Renato Galliverti, nato nel 1929 a Legnano:“Aderii immediatamente alla Rsi per dignità, onore e coerenza. Per me non poteva essere né concepibile né comprensibile tradire i nostri alleati e il fascismo solo perché le fortune belliche ci avevano messo in ginocchio. Un uomo può accettare la resa, l’armistizio, la spada di Brenno ma non certamente di diventare un giuda né sputare sugli ideali e sulle tombe dei commilitoni nazionali o alleati”.

Potremmo citare anche i sarcastici versi di Curzio Malaparte nel romanzo “La pelle”: “Un magnifico giorno (l’8 settembre). Tutti noi ufficiali e soldati facevamo a gara a chi buttava più eroicamente le armi e le bandiere nel fango… Finita la festa, ci ordinammo in colonna e così senz’armi, senza bandiere, ci avviammo verso i nuovi campi di battaglia, per andare a vincere con gli Alleati questa guerra che avevamo già persa con i tedeschi… E’ certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra sono tutti buoni, non tutti sono capaci di perderla”.

L’8 settembre, quindi, giorno dell’infamia per una parte della popolazione italiana. Una testimonianza non sospetta. Giorgio Amendola:“Ma vi era, certamente ristretta ma più impegnata, anche l’adesione di gruppi di giovani, che avevano assistito con disgusto al crollo delle loro speranze, alla caduta di un regime avvenuta senza alcuna difesa e luce di sacrificio, e che avevano subito come un oltraggio il cinico doppio gioco praticato dalla monarchia e da Badoglio, e quello che appariva il tradimento degli impegni ancora rinnovati con l’alleato tedesco… Al di là delle furbizie, del doppio gioco, che erano certamente i motivi prevalenti, era tuttavia percepibile tra alcuni settori seppure ristretti di giovani, fin dai primi giorni, una motivazione di carattere ideale, la volontà di riscattare le viltà e i tradimenti”. Da questa analisi Amendola ne ricavava l’importanza di una maggiore presenza politica dei comunisti tra i giovani del “fascio repubblichino”.

Possiamo citare anche in tempi relativamente recenti Violante (maggio 1996, quando era presidente della Camera): “Dobbiamo sforzarci di capire, senza revisionismi, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto le ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà”.

Un invito a capire che molto probabilmente è rimasto sulla carta.

Borsani presidente dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra

Quando Borsani ascoltò la voce di Mussolini dalla Germania (18 settembre) non ebbe dubbi e partì per Milano con l’intenzione di aderire al fascismo repubblicano. La Repubblica Sociale Italiana nacque dopo il congresso del PNR a Verona a metà del novembre ’43 ma il governo era già operativo dalla fine di settembre.

In una delle prime riunioni del suo governo, Mussolini nomina Borsani presidente dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra.

Il 10 novembre alla radio Borsani rivolge un appello ai giovani:“Se oggi tutto sembra perduto, dite al mondo, e soprattutto al nemico, che oggi in Italia esiste ancora una generazione di uomini pronti a tutto osare pur senza nulla sperare”. Emergono temi che accompagneranno Borsani fino alla morte quali l’etica del sacrificio per la Patria di cui la gioventù italiana deve farsi carico.

Le “anime” della Rsi

In ottobre sono già 250mila le persone che si iscrivono al rinnovato fascismo al cui interno si agitano diverse “anime”, ossia tendenze con obiettivi diversi.

All’interno della Rsi ci fu di tutto. Giorgio Vecchio definisce la Rsi“un regime a elevato tasso di litigiosità interna e travagliato da intrinseca debolezza e confusione ideologica”. Montanelli rincara la dose e definisce il PNF “un’accozzaglia di correnti e componenti eterogenee”.

C’erano i torturatori come la banda Kock a Roma e Milano e la banda Carità a Firenze, la banda Pollastrini a Roma, la banda Collotti a Trieste; i socializzatori per cui la Rsi stava attuando il “socialismo” (Silvestri e Bombacci); i duri che inneggiavano al “patto eterno” con la Germania; coloro che al contrario criticavano la politica dei tedeschi in Italia; e coloro che nel marasma di quei giorni cercavano una via d’uscita come Borsani.

Nello stesso tempo non dobbiamo dimenticare che la Rsi ha una forte caratterizzazione antisemita con azioni di arresto e deportazione degli ebrei italiani ad Auschwitz nelle quali le formazioni militari della repubblica ebbero un ruolo importante a fianco dei reparti tedeschi.

In ogni caso caratterizzare la Rsi come una formazione monolitica e tutta votata alla rapina e alla violenza è una linea di interpretazione sbagliata.

De Felice:“Considerare la Rsi come un tutt’uno, in cui non si distinguono assassini come Pietro Koch da gentiluomini come Luigi Bolla, fanatici come Giovanni Preziosi da uomini come Giovanni Gentile, faziosi estremisti come Guido Buffarini-Guidi o Alessandro Pavolini da conservatori moderati come Giorgio Pini o Concetto Pettinato, è il frutto amaro della cultura dei vincitori. Un’attitudine culturale, che ha il suo contrappeso anche nei vinti e nei loro eredi, incapaci di guardare con occhio obiettivo i fatti della storia: una miopia storiografica aggravata da una preisbiopia ideologica, ma anche politica o peggio partitica, che ha accomunato destra e sinistra per tutti gli ultimi cinquant’anni”.

Senza timore di sbagliare potremmo dire che è prevalsa in Italia un’interpretazione della Rsi derivata esclusivamente o quasi dal film di Pasolini, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, dove violenze, sadismo, perversioni di ogni tipo dominano in tutto il film con scene particolarmente disgustose.

La “pacificazione” degli italiani

Per focalizzare il ruolo di Borsani durante tutti i venti mesi di vita della repubblica dobbiamo accostarci a una delle “anime” di Salò, la più debole: la corrente di coloro che inneggiavano alla “pacificazione e fraternizzazione degli italiani”.

Si trattava di costituire un “fronte nazionale” formato da giovani e meno giovani dove raccogliere persone che al di là degli schieramenti avessero a cuore i destini della patria in pericolo, anche mettendo da parte (se necessario) la fede fascista.

Secondo De Felice la “pacificazione nazionale fu un’idea improbabile come soluzione, improponibile come obiettivo. Ma qualcuno, non solo tra i fascisti ma anche tra gli antifascisti, invece volle crederci. Lo scopo era di non rompere il tessuto morale del paese e di evitare o contenere la guerra civile”.

La “pacificazione” fu sicuramente il tratto iniziale della Rsi alla ricerca del consenso necessario per iniziare l’attività politica ma rapidamente presero il sopravvento i settori più radicali del partito.

In ogni caso la “pacificazione” (anche qui la chiarezza è d’obbligo) presupponeva la collaborazione con l’occupante tedesco e con i suoi obiettivi in Italia: caccia agli ebrei, sfruttamento della manodopera con rastrellamenti e deportazioni dall’Italia; lotta dura contro la Resistenza. Questi aspetti vanno messi in chiaro.

Giovanni Gentile

Fu sicuramente il filosofo Giovanni Gentile il più autorevole rappresentante delle tendenze volte a “pacificare” gli italiani. Fu nominato da Mussolini presidente dell’Accademia d’Italia nel novembre del ’43.

In un’intervista a “La Nazione” del 10 dicembre ’43 sosteneva l’importanza di “cercare e valorizzare tutto ciò che faciliti e affretti la conciliazione degli animi”.

Il suo più importante articolo fu “Ricostruire” apparso sul “Corriere” del 28 dicembre del ‘43. Scriveva Gentile: “Il Partito deve ricordarsi che la sua funzione delicatissima va esercitata più che mai con largo spirito pacificatore e costruttivo. Colpire adunque il meno possibile, andare incontro alle masse per conquistarne la fiducia e richiamarle alla coscienza del comune dovere”.

“Violentissimi” secondo De Felice furono gli attacchi alla sua persona. Quando fu ucciso da un GAP di Firenze nella primavera del ’44 (15 aprile), i fascisti intransigenti di Firenze festeggiarono (Mario Carità). Da notare che l’esecuzione di Gentile provocò una grave lacerazione nella Resistenza (soprattutto tra gli intellettuali del partito d’Azione). Roberto Battaglia lo definì “persona bonaria e tollerante”.

Gentile non era solo. Secondo Frederick Deakin:“A Bologna elementi fascisti, e in particolare Giorgio Pini, direttore del risorto “Resto del Carlino” e Goffredo Coppola, rettore dell’università, si espressero apertamente a favore di un fronte nazionale. Movimenti simili sorsero a Torino e Savona, a Verona attorno al giornale di Castelletti “L’Arena” e a Milano attorno alla figura del cieco di guerra Carlo Borsani”.

Un insieme eterogeneo di forze, che alla fine fu sconfitto, ma che non dobbiamo sottovalutare o minimizzare. L’idea che la Rsi fu un governicchio tenuto insieme dalle baionette tedesche e popolato da seviziatori e individui di bassa lega è un’ immagine che oggi non deve più esistere a livello storiografico.

La “conciliazione” è un progetto più vasto, anche se non articolato: alcuni (soprattutto direttori dei maggiori quotidiani) arrivano ad auspicare timide aperture alla democrazia: elezione diretta del Capo dello Stato, elezioni interne nel PNR, libertà di parola nel partito, presenza di più partiti, voto alle donne… Tutto però rimase sulla carta, segno delle tante contraddizioni dell’ultimo fascismo.

La “conciliazione” naufraga

Pochi giorni dopo il congresso di Verona (metà novembre ’43) sono gli “intransigenti” ad avere il sopravvento: a guidarli sono Pavolini (segretario del partito dopo il congresso di Verona), Buffarini-Guidi (ministro dell’Interno) e Mezzasoma (ministro Cultura popolare) il quale diede disposizioni alla stampa di non pubblicare appelli per la “pacificazione delle menti e la concordia degli spiriti”.

Secondo Almirante Borsani voleva porsi “al di sopra delle barricate” nella consapevolezza che c’erano tanti giovani “sviati, disorientati, impauriti ai quali bisognava parlare il linguaggio dell’amore”.

Al contrario di Borsani Almirante dichiarò invece che si era schierato apertamente per la guerra civile. In particolare ebbe un ruolo di rilievo nelle campagne antisemite dal ’38 in avanti e a Salò ebbe un ruolo di primo piano accanto a Mezzasoma nel Ministero della cultura popolare. Almirante fu anche rastrellatore di partigiani.

Tra le forze sociali che agivano a favore della pacificazione non va sottovalutato il ruolo della Chiesa (per evitare la guerra civile tra italiani), da qui il tono di forte ostilità di numerosi esponenti del fascismo nei confronti di preti e associazioni cattoliche. Anche il “Corriere” a lungo predica la “conciliazione degli spiriti” per evitare guai maggiori all’Italia in guerra. Il “Corriere” arriva anche ad auspicare “libertà di pensiero per gli avversari politici” (ottobre ’43).

La “conciliazione” era anche una prospettiva che sarebbe piaciuta alla grande maggioranza della popolazione italiana (la “zona grigia”). Tra di loro c’erano persone capaci nei rispettivi settori (tecnici, amministrativi, intellettuali) che avrebbero potuto essere guadagnate a Salò.

Il fallimento della “pacificazione”: i nemici

Quattro sono le forze che si contrappongono caparbiamente a ogni forma di conciliazione: i tedeschi, i fascisti intransigenti (Pavolini, Farinacci, Borghese e tanti altri); dall’altra gli anglo-americani e i comunisti dei GAP. Un insieme di forze imbattibili.

I comandi tedeschi premevano per un maggior ruolo delle forze armate della Rsi nella lotta contro i “banditi”. La stessa cosa gli anglo-americani che contavano sull’aiuto prestato dalla Resistenza armata nella conquista del territorio italiano. Dall’altra parte i comunisti iniziano una febbrile attività di attentati mettendo in una condizione di debolezza chi predicava la concordia di fronte alla patria invasa e favorendo implicitamente le rappresaglie degli intransigenti.

– Il primo atto della guerra civile è l’uccisione del federale Ghisellini a Ferrara durante il congresso di Verona, novembre ‘43: la successiva vendetta (15 novembre, 11 fucilati a Ferrara) rappresenta la pietra tombale di ogni ipotesi conciliazionista. Probabilmente Ghisellini (moderato) fu vittima di una faida interna.

– Il 18 dicembre alcuni gappisti a Milano sparano e uccidono il federale Resega, colui che secondo De Felice voleva ridimensionare la presenza a Milano della Muti (Franco Colombo). La reazione è barbara: nove fucilati per rappresaglia

– il 28 dicembre furono fucilati al poligono di Reggio Emilia i sette fratelli Cervi. Erano nelle mani dei fascisti da più di un mese. A far decidere la fucilazione fu l’assassinio pochi giorni prima del segretario comunale di Bagnolo al Piano, Vincenzo Onfiani

– Il processo di Verona (gennaio ’44) condanna a morte alcuni dei responsabili del 25 luglio (tra cui il genero di Mussolini, Ciano). Borsani segue Mussolini e quindi plaude alle condanne a morte giustificate dal “tradimento” del 25 luglio

– Poi il 23 marzo del ’44 l’attentato di Via Rasella e le Fosse Ardeatine (335 fucilati) seppelliranno qualunque forma di  “dialogo” tra le parti. Tra parentesi, secondo lo storico Massimo Rendina, Borsani si trovava proprio a Roma nel momento dell’attentato. Stava parlando in Via Veneto per il 25esimo anniversario di fondazione dei Fasci di combattimento. Allo scoppio della bomba interruppe il discorso.

– 8 agosto ’44, una bomba a Milano contro un camion tedesco provoca la morte di sei passanti più numerosi feriti. Il comando tedesco ordina alla Muti di fucilare 15 antifascisti prelevati dalle carceri. La fucilazione avviene il 10 agosto a Piazzale Loreto. I partigiani vendicano i “martiri di Piazzale Loreto” con la fucilazione di 45 ostaggi.

Da notare che il terrorismo non appartiene assolutamente alla storia del movimento operaio (Marx-Lenin) e del primo partito comunista d’Italia (Bordiga e Gramsci). Il terrorismo è sempre stato utilizzato dal movimento anarchico e da frange piccolo-borghesi di fronte allo Stato e alle sue componenti. Ma ora i vertici del Pci (Longo, Secchia, Amendola, Roasio…) lo utilizzano come strumento politico incuranti delle ritorsioni e delle rappresaglie di nazisti e fascisti.

Per quanto riguarda Mussolini possiamo dire che talvolta appare disorientato tra propositi di dure vendette e la condanna dei crimini dei tedeschi e fascisti ai danni della popolazione italiana. In ogni caso la sua è una voce flebile e poco nulla ascoltata.

Borsani propagandista

Intanto continua infaticabile l’attività di Borsani quale propagandista della Rsi. Lo traviamo spesso a parlare nelle scuole, nelle aziende anche in sciopero e persino nei lager in cui erano stati deportati gli IMI.

Giuseppe Landoni, militare di Legnano, partecipe della tragedia della Divisione Acqui a Cefalonia, ascolta Borsani a Konisberg (oggi città russa). “E’ allora che è venuto il cieco Borsani che veniva a fare propaganda per la Repubblica di Salò”. Non sembra di capire che Landoni abbia accettato di tornare in Italia dopo averlo ascoltato.

E’ inutile dire che tutta questa propaganda nella quale Borsani metteva tutto se stesso doveva costargli molto cara a fine guerra.

Tra i giovani di Salò Borsani era diventato un mito. Soprattutto coloro che imputavano al fascismo di essersi sbriciolato come niente il 25 luglio e polemizzavano contro l’imborghesimento del fascismo durante il Ventennio, guardavano a Borsani con molta simpatia.

Borsani alla direzione de “La repubblica fascista”

Mussolini incarica Borsani della direzione di un quotidiano, “La repubblica fascista”, il primo numero esce il 23 febbraio del ’44. L’epilogo avvenne il 10 luglio ’44 quando, dopo un articolo dal titolo inequivocabile, “Per incontarci”, Borsani venne licenziato da Mezzasoma.

L’ultimo articolo di Borsani era un forte invito a tanti giovani a “incontrarsi”, nonostante il “solco” tra la parte combattente e quella non combattente, in nome della Patria tradita e in guerra.

Scriveva: se molti giovani stavano “alla macchia” erano vittima di un “errore” e di un “equivoco”. Se il fascismo ha sbagliato, non ha nessuna colpa l’ ”idea e la miracolosa realizzazione mussoliniana”.

Quindi era “assurdo” volgere le armi contro altri giovani che non erano responsabili degli errori precedenti. Errori dovuti a una cattiva educazione dei giovani nella scuola, nella GIL e nella famiglia.“Occorre bonificare l’ambiente, ritornare ai principi tradizionali sui quali si è sempre poggiata l’educazione italica. Occorre tornare a essere noi, italiani e romani…”.

E’ evidente la polemica contro il fascismo che si era burocratizzato e sclerotizzato durante il Ventennio nonostante l’ “alto esempio” di Mussolini.

Mezzasoma gli scrive con durezza che le sue prese di posizione “non sono quelle di un fascista”, gli rimprovera di aver criticato il fascismo e in particolare un cardine quale l’educazione della gioventù. Gli rimprovera anche la mancanza dell’aggettivo fascista nel suo corsivo se non per criticarne l’idea.

I Venegoni contro Borsani / una medaglia d’oro contro l’altra

Nel “Lavoratore” del 1° maggio ’44 i fratelli Venegoni scrivono a proposito della “conciliazione”: “Essi hanno la sfrontatezza di fare appello al popolo italiano, alla concordia, a cessare la guerra fratricida, esortando i giovani a presentarsi alle armi e porsi a fianco dei valorosi alleati tedeschi per riscattare l’onore ecc”. Risposta: “A morte gli ignobili traditori fascisti ed i loro padroni tedeschi!”

A Cremona contro Farinacci

Tra l’inizio della sua attività di direttore e l’esonero ci furono alcuni momenti di gravi critiche al suo operato. Un episodio significativo fu la cosiddetta “spedizione a Cremona” per diffondere “La repubblica fascista” che quel giorno era introvabile nelle edicole di Cremona per volontà di Farinacci.

La polemica era esplosa il 23 maggio del ’44 quando Borsani aveva definito Farinacci, “ras di Cremona”. Farinacci aveva replicato accusando Borsani di “connivenza con l’antifascismo” e di essere un “fascista spurio”.

Borsani aveva così replicato:“E’ logico che ognuno deve rimanere quello che è stato: il fascista fascista; il socialista socialista; il comunista comunista. Ciò non toglie che ci possa essere un punto d’incontro, e sarebbe l’amore di Patria, alle varie origini politiche”.

Farinacci aveva proibito la vendita del quotidiano di Borsani, da qui la spedizione a Cremona con la moglie e un altro mutilato di guerra per portare il quotidiano nelle edicole.

Le “3B” contro gli intransigenti

La politica di pacificazione non vide Borsani agire da solo, del resto avrebbe dovuto vedersela con avversari temibili quali Pavolini, Buffarini Guidi (min. dell’Interno) e Farinacci, più i tanti estremisti vicini a Mussolini.

Accanto a Borsani (secondo il figlio ma tale tesi è avvalorata anche da De Felice) ci sono Fulvio Balisti, federale di Brescia, e Francesco Barracu, sottosegretario alla presidenza e mutilato di guerra. Venne chiamato il “partito delle tre medaglie d’oro”.

Secondo De Felice Balisti fu “forse la figura più limpida di tutto il gruppo dirigente repubblicano”. Balisti era consapevole della necessità di una rigenerazione del fascismo. Pavolini e Balisti erano in forte antagonismo.

Il problema per Balisti e gli altri era ottenere il consenso per esempio della “zona grigia”. Invece le violenze reiterate allontanavano molti italiani del ceto medio dal credere nella Rsi.

Né Borsani né Balisti né tanto meno Barracu erano disposti a transigere di fronte alle violenze dei comunisti. Il loro è soprattutto un tentativo di rinnovamento del partito (“pulizia politica” con il ritorno alle origini) volto a ottenere il consenso tra i ceti più moderati e tra gli esponenti non estremisti dell’antifascismo.

Il “Giramondo”

E’ molto probabile che anche Mussolini abbia creduto, seppure in parte, al tentativo della “conciliazione”. Del resto la sua posizione (stretto tra i tedeschi e gli intransigenti) non lasciava molti spazi d’azione.

Secondo la moglie Franca, Borsani e Carlo Silvestri scrissero (con Mussolini suggeritore) una serie di articoli che poi apparvero sul “Corriere della Sera” (firmati “Giramondo”).

L’obiettivo di questi articoli era dividere il fronte della Resistenza, isolare i comunisti e portare verso Salò la parte moderata del CLN. Progetto rivelatosi velleitario.

Il primo articolo di “Giramondo” apparve nel marzo del ’44: accanto a minacce legate alle molte informazioni sulle varie attività clandestine in possesso delle autorità e la possibilità di effettuare in qualunque momento arresti finora non effettuati, c’erano anche apprezzamenti su alcune figure storiche del Psi come Turati, Treves e la precedente classe dirigente liberale.

Gli articoli insistono soprattutto sui socialisti e la loro storia. Probabilmente era un tentativo per portare alcuni esponenti del Psi fuori dal CLN in nome della “socializzazione socialista” voluta da Mussolini. Viene agitato il passato socialista di Mussolini come “ponte” tra ieri e oggi.

Borsani e la socializzazione

Borsani credeva molto alla promessa della socializzazione delle imprese tramite la quale portava avanti (così gli sembrava) gli ideali del padre socialista.

In realtà la socializzazione promessa dal fascismo repubblicano non diventò mai operante e mai sarebbe diventata operativa. Solo un governo socialista poteva socializzare davvero le imprese ma dopo una rivoluzione socialista e l’abolizione della proprietà privata. Il fascismo aveva ben altra natura.

L’appello finale dopo diversi articoli così suonava:“Antifascisti che non avete rinnegato l’Italia, il sedicente e reazionario Comitato di liberazione è una trappola nella quale vi fate e vi farete ogni giorno più stritolare al servizio delle centrali nemiche” (“Giramondo”).

Quindi anche Mussolini “pacificatore”? Probabilmente Mussolini tentava di muovere le poche leve che aveva in mano nel tentativo di uscire dall’impasse in cui si trovava: capo di un governo retto dalle armi tedesche, senza effettivo potere, mentre il paese era nel caos della guerra e l’antifascismo radicalizzava sempre più la Resistenza.

Mussolini sapeva bene quali erano i rapporti di forza anche all’interno della Rsi (dove i fanatici avevano il sopravvento) e con i tedeschi. Probabilmente gli articoli di “Giramondo” furono un velleitario tentativo di aprire una strada nuova. In ogni caso non dettero alcun risultato.

Però fino all’ultimo Mussolini credette a una possibile via d’uscita trattando direttamente con i socialisti e i repubblicani del CLN (incontro del 25 aprile all’arcivescovado) fino ad immaginare a un vero e proprio passaggio di potere dal “socialismo corporativo” della Rsi al PSIUP (Partito socialista di unità proletaria) con la Liberazione. Come è noto anche questo progetto naufragò.

Borsani fascista intransigente

Non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che Borsani fosse assertore di un patriottismo basato sul “buon cuore” (buonista) o che il suo fascismo fosse solo di facciata. Spesso il suo giornale faveva appelli alla lotta ad oltranza contro il nemico interno ed esterno.

Nel suo quotidiano compare a firma di tal D’Elia questo appello:“Il diritto di lottare contro il nemico interno, di scovarlo, di smascherarlo, di annientarlo, di evitare che viva e congiuri all’ombra della nostra bandiera, che mangi alla nostra stessa mensa, che spenda il nostro denaro, che dorma al nostro fianco”. Dall’altra parte (comunisti e azionisti) si reagiva con la stessa enfasi.

Fino all’ultimo tenne discorsi carichi di fiducia e speranza mentre moltissimi gerarchi e gerarchetti stanno brigando per salvare la pelle. I tedeschi trattavano da tempo con gli americani in Svizzera e i gerarchi maggiori avevano già elaborato piani di fuga oppure piani per evitare le rappresaglie partigiane mettendosi sotto la protezione degli Alleati (Graziani, Borghese).

La partenza di Mussolini (sera del 25 aprile) verso Como

Borsani era nel cortile della Prefettura di Milano nel fatidico pomeriggio del 25 aprile dopo il fallimento del colloquio tra Mussolini, il cardinale Schuster e alcuni esponenti del CLN. Possiamo immaginare lo sconforto di Borsani quando vide partire improvvisamente Mussolini con pochi uomini, tutti ministri o esponenti di primo piano del suo governo (i fucilati di Dongo) verso Como.

Mentre Mussolini, in una incredibile confusione stava partendo, il più affannato era Borsani. L’idea di Borsani era trattenere a Milano Mussolini e asserragliarsi nel Castello Sforzesco in attesa degli Alleati. “Non partite duce, vi difenderemo noi” (Borsani). Secondo G. Bocca Borsani rifiutò la proposta di Mussolini di seguirlo nella fuga verso Como esclamando: “Non è ancora tutto finito. Dobbiamo ancora morire!”.

Nelle ore precedenti, caduta la mediazione del cardinale Schuster (possibile accordo tra Mussolini e il CLN) e saputo che i tedeschi si erano già arresi a Milano agli Alleati, Mussolini decide di partire per la Svizzera o la Valtellina abbandonando i suoi uomini che contavano su di lui anche per salvare se stessi.

Qualche storico ha parlato a proposito di “8 settembre mussoliniano” con la fuga del duce abbandonando al proprio destino i suoi uomini.

Secondo Vincenzo Costa, “L’ultimo federale”, a Milano nel momento della partenza di Mussolini c’erano migliaia di camicie nere in attesa di ordini che non vennero. In realtà erano di più: 12mila fascisti e 3600 tedeschi a fronte 6620 partigiani e 4400 patrioti (Enciclopedia della Resistenza di Collotti e Sessi).

Gli ultimi giorni

Dopo la partenza di Mussolini qualcuno promette aiuto a Borsani: Junio Valerio Borghese e il vescovo di Cremona vogliono aiutarlo a fuggire, ma Borsani rimane fedele a se stesso. E’ pronto a morire per coerenza con le sue idee.

Il resto lo conosciamo. Il 26 aprile mentre la città è occupata dai partigiani, Borsani va dove lo avrebbero cercato e individuato subito: nell’istituto oftalmico dove dal ’41 era in cura. Evita casa sua per ovvi motivi. Lì viene notato da un partigiano degente.

Il giorno dopo, 27 aprile, i partigiani lo arrestano e dopo un processo sommario venne fucilato a Piazzale Susa il 29, il giorno stesso di Piazzale Loreto.

Con lui c’era un prete fanatico e sospeso a divinis dal Vaticano: don Tullio Calcagno, fondatore della rivista “Crociata italica” (giornale violentemente antisemita). Il 29 sono fucilati e il corpo di Borsani è messo su un carretto prima di arrivare all’obitorio.

Mussolini era stato fucilato il 28 aprile a Giulino di Mezzegra da un gruppo di partigiani e il 29 ci sarà Piazzale Loreto, “macelleria messicana” (F. Parri).

29 aprile ’45: i vincitori

Per cercare di capire che aria si respirava nel Nord Italia in quei giorni può bastare un articolo di Giorgio Amendola sull’Unità di Torino del 29 aprile 1945: «Pietà l’è morta – scriveva il dirigente comunista – È la parola d’ordine del momento. I nostri morti devono essere vendicati, tutti. I criminali devono essere eliminati. La peste fascista deve essere annientata. Con risolutezza giacobina, il coltello deve essere affondato nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato».

Il risulato furono circa 10.000 fascisti, quasi tutti uccisi nei dieci giorni successivi (il “sangue dei vinti”).

Nello stesso giorno il colonnello Charles Poletti (gli americani arrivano a Milano il 29, V Armata), commissario per la Lombardia del governo militare alleato, ricevuto in prefettura dai rappresentanti del CLNAI esclamò: “Siamo andati a spasso per Milano. Abbiamo trovato ordine, disciplina. Siamo stati anche a Piazzale Loreto. Esprimiamo la nostra soddisfazione al CLNAI e ai partigiani per il magnifico lavoro fatto. Siamo contenti di essere arrivati. Apprezziamo quello che il CLNAI ha fatto e farà”.

La lettera di Nenni

Terminata la guerra la moglie cercò subito giustizia (almeno sapere i nomi dei fucilatori) e si rivolse con alcune lettere a Nenni (vice presidente del Consiglio), Togliatti (Guardiasigilli) e De Gasperi (presidente del Consiglio).

Togliatti non le rispose, De Gasperi lo fece tramite segretario. L’ignoto estensore in sostanza le consigliava di lasciare passare un po’ di tempo, “la passione è ancora troppo viva e può far velo alla giustizia. Sopiti gli odi scatenati da una lotta fratricida saranno certamente rettificati i giudizi errati”.

Come giudicare Borsani?

Secondo me questo giudizio di Carlo Silvestri coglie l’essenza del suo pensiero e della sua personalità: pag. 170 (Borsani jr).

Concludo con queste sue parole nelle quali c’è molto della sua etica e delle sue convinzioni, che lo portarono a rifiutare ogni ipotesi di salvezza e a rimanere coerente con se stesso fino alla fine: pag. 184 (Borsani jr).

Un giudizio dopo la mia conferenza all’Associarma di Legnano, 16 settembre 2016

Caro Giancarlo, la tua lezione su Carlo Borsani è stata un capolavoro di sintesi storica.
La platea era assai ridotta, forse mancavano presenze di famigliari come il figlio, ecc.

In generale penso comunque che intrecciare aspetti umani intimi con quelli politici sia sempre piuttosto complicato.
Hai detto bene sull'ingenuità politica di Borsani e sul patetico recupero di credibilità con un avvicinamento ai moderati antifascisti.
Ma in che modo? Mi sembra più poetico che realistico , un concetto esternato anche dallo storico  Renzo de Felice.
Un po’ come la nazionalizzazione delle fabbriche che Mussolini voleva realizzare nella R.S.I...da ex socialista in pieno recupero.!

Ma Borsani era al corrente di quello che facevano i nazisti in Italia e la banda koch nella "Villa triste" a Milano? Oppure era ingenuo anche in questo.

Giusta la tua osservazione sul fatto che giudicare oggi in democrazia è facile.
In quel clima di guerra civile e con partigiani non propriamente organizzati né preparati politicamente e men che meno strategicamente, ( vedi alcune scelte discutibili ed errate su alcuni attentati)
pensare di pretendere senso di equilibrio e giustizia legale mi sembra assurdo!
Comunque al di là delle mie osservazioni politiche, l'uomo Borsani merita rispetto se non altro proprio per questo suo essere ingenuo e coerentemente sentimentale.
E stata una delle tante esecuzioni sbagliate a sfavore di quelle che sarebbero state giustissime, ma la foto della fucilazione con accanto il prete nazista Don Calcagno fa notare che
I "distinguo" non esistevano come non lo furono per molti italiani trucidati a caso durante le retate nazi-fasciste.
La cosa peggiore che si vede nel film "La lunga notte del'43" è il trasformismo del fucilatore fascista (Gino Cervi) nel dopoguerra e la furbizia politica di sopravvivere ai propri crimini.
Di fronte a ciò Borsani è da considerarsi un puro...o un ingenuo.

Grazie anche a Renata.
Gianni