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Giorno del Ricordo 10 Febbraio 2017. Le foibe e l’esodo giuliano-dalmata: una storia rimossa

Giorno del Ricordo
10 Febbraio

Le foibe e l’esodo giuliano-dalmata: una storia rimossa

“Come vorrei essere un albero che sa
dove nasce e dove morirà”
Sergio Endrigo, “1947”

Il Giorno del Ricordo è stato istituito dal Parlamento italiano nel 2004 per non dimenticare gli infoibati e i tanti che furono costretti a lasciare le proprie case nei territori orientali che alla fine della guerra diventarono jugoslavi.
Fu una tragedia che si consumò prevalentemente alla fine della Seconda guerra mondiale mentre sull’Europa già soffiavano i venti della pace. Infatti la fase più tragica delle foibe si sviluppò a Trieste mentre nel resto dell’Italia si festeggiava la fine della guerra.
I 40 giorni del terrore titino a Trieste e nella Venezia Giulia
Il primo maggio del 1945 le truppe di Tito raggiunsero per prime Trieste mentre i neozelandesi (esercito britannico) arrivarono nel capoluogo giuliano il giorno dopo.
Addirittura Trieste fu l’unica città europea a essere “liberata” da due eserciti! Tutto questo non impedì la tragedia di tanti italiani arrestati dai soldati di Tito e dalla polizia segreta jugoslava e condotti nei campi di concentramento in Slovenia oppure infoibati a Basovizza o Opicina, appena fuori Trieste.
Non erano tutti fascisti coloro che finirono nelle foibe carsiche. Tra di loro c’erano anche antifascisti del CLN che avevano combattuto fino a pochi giorni prima contro fascisti e nazisti e comunisti italiani contrari alle mire imperialiste jugoslave. Anzi in alcune realtà come Pola la reazione jugoslava si abbatté pesantemente anche sulla classe operaia italiana dei cantieri navali.
L’obiettivo di Tito era non tanto colpire il fascismo morente quanto colpire l’italianità di Trieste e della Venezia Giulia per slavizzare il territorio con più facilità e inserirlo nella nuova compagine statale jugoslava.
Alla fine, dopo quaranta giorni (1 maggio-12 giugno ’45), le vittime della terribile violenza che si abbatté sulla Venezia Giulia furono circa 5.000.
Quando Truman, presidente degli Usa, ordinò a Tito di sgombrare la Venezia Giulia con Trieste (12 giugno) moltissimi triestini e giuliani furono liberati dall’incubo di essere gettati vivi o morti nelle foibe oppure di essere deportati nei campi di concentramento del nuovo regime jugoslavo.
L’esodo giuliano-dalmata
Ma il dramma di queste terre di confine non finì qui perché subito dopo riprese con grande forza l’esodo dalle terre che il trattato di pace del 10 febbraio del 1947 faceva diventare jugoslave.
Furono 300.000 circa i profughi giuliani e dalmati in un arco temporale che va dall’esodo da Zara (1943) fino al 1956.
In Italia furono accolti con diffidenza e pregiudizio. Molti italiani dell’epoca non sapevano se considerarli italiani o meno; la stampa di sinistra diceva che erano tutti o quasi fascisti e nazionalisti; i governi li dimenticarono in campi profughi sporchi e fatiscenti.
In realtà si trattava di una grande comunità che pagava di persona (perdita delle proprietà e della propria identità) una guerra voluta dal fascismo e dalla classe dirigente italiana per i propri obiettivi imperialistici. Non è esagerato dire che le distruzioni provocate in Slovenia dall’esercito italiano furono pagate con i beni di coloro che furono cacciati dalle loro case.
Il momento più drammatico dell’esodo fu quello vissuto da Pola nell’inverno del 1946-47 quando un’intera popolazione (28.000 abitanti su 32.000) lasciò in pochi mesi la città istriana che il trattato di pace faceva diventare slava. Divennero profughi in cerca di pace simili ai tanti profughi medio-orientali che oggi arrivano nell’Europa occidentale attraverso rotte mediterranee e balcaniche.
Le ragioni del “grande silenzio”
Per molto tempo in Italia parlare delle foibe non era politicamente opportuno: il Partito comunista di Togliatti si era molto esposto nell’assecondare le mire di Tito a Trieste, la Democrazia cristiana di De Gasperi aveva cercato fino all’ultimo di limitare l’esodo dalle terre orientali e poi aveva disperso le comunità giuliane in tutta Italia. I neofascisti del MSI non volevano sentirsi ricordare che a causa della loro politica avventurista (la guerra a fianco della Germania nazista) l’Italia aveva perso i territori orientali frutto della vittoria nella Grande Guerra.
Ma era soprattutto la nuova collocazione internazionale della Jugoslavia a rimuovere il passato.
Quando maturò la rottura tra Tito e Stalin (1948) la Jugoslavia divenne “amica dell’Occidente” e nessuno volle più rievocare le pesanti responsabilità del governo di Tito negli infoibamenti e nella cacciata degli italiani d’Istria e Dalmazia. Nello stesso tempo era possibile far cadere nel nulla i tentativi jugoslavi di estradare a Belgrado ufficiali dell’esercito italiano che erano accusati di stragi e massacri durante la guerra nell’area balcanica.
Così fino alla caduta del Muro di Berlino (1989) parlare della tragedia del Confine orientale non conveniva a nessuno. Il cinismo della politica internazionale e i giochi di potere in Italia dovevano decretare la cancellazione del passato. Solo a Trieste rimanevano vive le polemiche, le lacerazioni e le opposte ricostruzioni storiche.
Una nuova stagione favorevole?
La scomparsa dei vecchi partiti della prima repubblica e la nascita di nuovi partiti ha indubbiamente facilitato il dialogo e la ricerca storica. In questi ultimi 15-20 anni i temi legati alle foibe e all’esodo sono usciti da quella sorta di “cono d’ombra” in cui sembravano relegati per sempre.
Ma ancora il quadro degli avvenimenti è reso ancora torbido da nuove contrapposizioni ideologiche e politiche in un quadro di polemiche che annebbia il passato e rende difficile comprendere che cosa è accaduto al Confine orientale. In Italia si chiama “uso pubblico della storia” e consiste nel parlare di storia solo per colpire l’avversario. E’ inutile dire quanto siano strumentali, faziose ed errate le ricostruzioni storiche nate solo per screditare l’avversario.
Soprattutto in una certa parte della sinistra si stenta a far capire che il Giorno del Ricordo non è una manifestazione filofascista mentre nel neofascismo il 10 febbraio viene visto come una sorta di giorno in cui rialzare la testa. Opposti estremismi farneticanti che nulla hanno a che vedere con le serie indagini storiche.
Gli storici migliori hanno lavorato al meglio per spiegare ciò che è avvenuto nell’area giuliana stabilendo cause e responsabilità. Ai politici il compito di non intorbidare le acque con polemiche pretestuose; a tutti coloro che amano la Storia non inquinata dalle ideologie il compito di studiare e capire.
– I° Premio “10 Febbraio” 2017 Miur e Regione Lombardia. Video realizzato da alcuni studenti del Bernocchi. Voce narrante Stefano Barlocchi

– “1947” di Sergio Endrigo (esule polesano), straordinaria canzone simbolo dell’esodo istriano