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Il Giorno del Ricordo. Le foibe e e l’esodo giuliano-dalmata.

Giorno del Ricordo ’15 – Perego

Mia conferenza (incompleta)

https://www.youtube.com/watch?v=aGr_04MBKCQ

https://www.youtube.com/watch?v=IYgMB2cubRo

https://www.youtube.com/watch?v=dkimrQJo7OQ

https://www.youtube.com/watch?v=VHO3P8sTaqI

Il Giorno del Ricordo

Le foibe e e l’esodo giuliano-dalmata

Il Giorno del Ricordo è stato istituito dal Parlamento italiano nel 2004 per non dimenticare gli infoibati e i tanti che furono costretti a lasciare le proprie case nei territori che alla fine della guerra diventarono jugoslavi.

Fu una tragedia che si consumò prevalentemente alla fine della seconda guerra mondiale mentre sull’Europa già soffiavano i venti della pace. Basti pensare che la fase più tragica delle foibe si sviluppò a Trieste mentre nel resto dell’Italia già si festeggiava la fine della guerra.

Il primo maggio del 1945 le truppe di Tito raggiunsero per prime Trieste mentre i neozelandesi arrivarono nel capoluogo giuliano il giorno dopo.

Addirittura Trieste fu l’unica città europea a essere liberata da due eserciti! Ma tutto questo non impedì la tragedia di tanti italiani arrestati dai soldati di Tito e condotti nei campi di concentramento in Slovenia oppure infoibati a Basovizza o Opicina, appena fuori Trieste.

Non erano tutti fascisti coloro che finirono nelle foibe carsiche. Tra di loro c’erano anche antifascisti del CLN che avevano combattuto fino a pochi giorni prima contro fascisti e nazisti.

L’obiettivo di Tito era non tanto colpire il fascismo morente quanto colpire l’italianità di Trieste per slavizzare la città con più facilità e inserirla nella nuova compagine jugoslava.

Alla fine dopo quaranta giorni (1 maggio-12 giugno ’45) le vittime di questa terribile mattanza furono circa 5.000.

Quando Truman, presidente degli Usa, ordinò a Tito di sgombrare la Venezia Giulia e Trieste moltissimi triestini furono liberati dall’incubo di essere gettati vivi o morti nelle foibe oppure di essere deportati nei gulag del nuovo regime jugoslavo.

Ma il dramma di queste terre di confine non finì qui perché subito dopo riprese con grande forza l’esodo dalle terre che il trattato di pace del 10 febbraio del 1947 faceva diventare jugoslave.

Furono 300.000 circa i profughi giuliano-dalmati in un arco temporale che va dall’esodo da Zara (1943) fino al 1956.

In Italia furono accolti con diffidenza e pregiudizio. Molti italiani dell’epoca non sapevano se considerarli italiani o meno; la stampa di sinistra diceva che erano tutti o quasi fascisti e nazionalisti; i governi li dimenticarono in campi profughi sporchi e fatiscenti.

In realtà si trattava di una grande comunità che pagava di persona (perdita delle proprietà e della propria identità) una guerra voluta dal fascismo e dalla classe dirigente italiana per i propri obiettivi imperialistici.

Il momento più drammatico dell’esodo fu quello vissuto da Pola nell’inverno del 1946-47 quando un’intera popolazione (28.000 abitanti su 32.000) lasciò in pochi mesi la città istriana che il trattato di pace faceva diventare slava.

Ma che cosa sono 28.000 persone? Sono anche mestieri, professioni, identità, singoli individui con le loro storie personali che se ne vanno al di là del mare, verso l’ignoto.

 

Questa testimonianza di una giovane polesana ci dà il senso della scomparsa di un’intera comunità.

Nelida Milani, una “ragazza del ‘47”

“Ricordo il suono dei martelli che battevano sui chiodi, il camion che trasportava la camera da letto di Zia Regina al molo Carbon, avanzando tra edifici mortalmente pallidi di paura, e tutti gli imballaggi che si infradiciavano nella neve e nella pioggia.

La grande nave partiva due volte al mese, dai camini il fumo saliva al cielo come incenso e insinuava negli animi il tormento sottile dell’incertezza e l’ombra dell’inquietudine; ognuno si sentiva sempre più depresso dall’aria di disgrazia che aleggiava sugli amici che si incontravano per strada.

Via via il Toscana aveva infornato tutti i polesani: le famiglie bene, il farmacista, l’ufficiale che ha sposato la cecoslovacca, il dentista che ha sposato l’ungherese, il cantante che ha sposato la slovena, il professore d’inglese che ha sposato l’italiana, la vedova di un ebreo, la bella Vanda che riceveva i soldati americani, l’ubriacone che, caldo della grappa in corpo, scioglieva la neve dove cadeva disteso, il vecchio suonatore di rimonica seguito dal suo bastardino, le sorelle Antoni che imbarcavano anche il padre moribondo, pur non potendo ragionevolmente pensare che il vecchio sarebbe tornato come speravano per se stesse, e neppure avrebbe raggiunto la destinazione che si erano proposte.

Era partito anche il parroco di Gallesano, trascinandosi dietro un cassone pieno dei testi più amati, Sant’Agostino, Santa Teresa, e annunciando la fine del mondo per la domenica successiva. Centinaia di gallesanesi ci credettero. Ma quando videro che non era successo niente non si arrabbiarono come si poteva immaginare. Pensarono che il prete avesse fatto male i calcoli e la maggior parte non smise di credere in lui.

Partì il mondo dei mille mestieri, l’operaio e l’artigiano, il contadino e la tabacchina, l’ortolano, il bandaio, il carraio, l’impagliatore, il bottaio, il fornaio, il muratore, il veterinario: partirono gli operai di fabbrica, i fonditori, i fabbri, i meccanici della K. Und Marine Arsenal, i motoristi  e i tornitori di Scoglio Ulivi, i falegnami e i calzolai, lo stagnino, la rammendatrice, il pastaio, il barbiere, i garzoni di bottega, i pescatori con odore di salsedine, di ostriche e di alghe, i minuti artigiani di ogni cosa, dal vino ai mattoni, dal sego ai vetri, dai cappelli ai nastri, dalle paste alimentari al saldame, dalle barche ai libri, dall’opera lirica ai giornali.

Partirono i padri dei ragazzi partigiani e poi anche gli ex partigiani.

Invano avevano tentato di far fronte a una civiltà incomprensibile. Che cosa avevano fatto per meritarsi quel mondo in cui sentivano di non avere alcuna possibilità di condurre una vita piena, realmente umana?

Per noi che restavamo, era l’inizio di una nuova era. Dopo, infatti, le cose non sarebbero mai più state uguali, né facili”.

“Bora” (con Anna Maria Mori), Frassinelli, Como 1998

Immagini dell’esodo da Pola

http://www.youtube.com/watch?v=ugQjC-XxPfk

“1947” di Sergio Endrigo (esule polesano)

http://www.youtube.com/watch?v=d1kYu2w8iko

“Come vorrei essere un albero che sa

dove nasce e dove morirà”

Giancarlo Restelli

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“Nelle umane cose

non ridere

non piangere

non maledire

ma capire”

Spinoza