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Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz

Appunti per conferenza

Letture da Emanuela Zuccalà, “Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre fra le ultime testimoni della Shoah”, Edizioni Paoline, 2005

Liliana Segre nasce a Milano nel 1929 in una famiglia ebraica laica nella quale non c’era mai stata una vera e propria riflessione sull’essere ebrei. La stessa Liliana non sapeva nulla delle proprie origini culturali e religiose.

Per molti ebrei italiani le Leggi Razziali del ’38 rappresentano il primo momento di scoperta della propria identità (potremmo fare anche il nome di Primo Levi). Fino a quel momento essere e sentirsi italiani bastava.
Nello stesso tempo le Leggi razziali furono per moltissimi bambini e adolescenti ebrei una vera e propria discesa verso regioni oscure dove dominavano l’indifferenza o peggio la cattiveria degli uomini. Con la differenza che gli adulti potevano tentare di capire che cosa stava accadendo mentre i bambini non avevano strumenti per decodificare una nuova realtà per loro incomprensibile.

In questo momento (1938) gli ebrei sono circa 46mila (con 9mila ebrei stranieri) rispetto a 44 milioni di italiani. Sono l’1.1 per mille della popolazione.

Le Leggi Razziali

Le Leggi Razziali entrarono in vigore all’inizio dell’anno scolastico 1938-39, in particolare ai primi di ottobre.

Dopo pochissimi giorni di scuola Liliana dovette tornare a casa perché una mattina la maestra le disse: “Tu Segre non puoi rimanere qui con noi”. Il bidello l’accompagnò all’uscita della scuola e dovette tornare a casa da sola. Aveva 8 anni e aveva appena iniziato il terzo anno delle elementari.

Fino allo scoppio della guerra Liliana vive mesi nei quali sente intorno a sé l’alito freddo dell’indifferenza della gente che prima era amica di famiglia e ora non più e delle bambine che prima giocavano con lei e ora preferivano far finta di non vederla.

Prima Lettura, pp. 20-21 / da “Vivevamo immersi nella zona grigia … ad… amici indimenticabili”

Foto della famiglia prima delle Leggi razziali

Scoppiò poi la guerra e la famiglia sfollò a Inverigo in Brianza. Il padre aveva perso il lavoro da tempo e Liliana aveva smesso di frequentare la scuola da quell’ottobre del ’38. Non avendo denaro e gravato da due genitori anziani e malati il padre non aveva considerato la possibilità di emigrare dall’Italia come avevano fatto gli ebrei più ricchi.

8 settembre

Ora però è troppo tardi per cercare soluzioni alternative perché è arrivato l’8 settembre del ’43 e rapidamente l’Italia sta diventando una grande trappola per gli ebrei ancora nel territorio nazionale. Ora devono nascondersi pena l’arresto e la deportazione verso “destinazione sconosciuta”.

Il padre da Inverigo porta la figlia prima a Ballabio in Valsassina e poi a Castellanza, ultima tappa prima del tentativo di espatrio in Svizzera.

I nonni paterni avevano avuto un permesso speciale per rimanere a Inverigo. Il permesso costò parecchio denaro al padre. Tutto ciò non salvò la vita dei nonni perché all’inizio del ’44 furono arrestati, condotti a Fossoli e da lì ad Auschwitz, dove furono gassati all’arrivo.

Partenza per la Svizzera

Nel dicembre del ’43 il padre disse alla figlia che avrebbero tentato di passare in Svizzera. Grazie ad alcuni amici fu stabilito un contatto con alcuni contrabbandieri della zona di Viggiù, sopra Varese.

Era il 7 dicembre ’43 quando riuscirono ad attraversare un buco nella rete confinaria. Con lei e il padre ci sono due vecchi cugini. Felici che tutto fosse andato nel migliore dei modi vennero individuati presto da alcune guardie confinarie svizzere.

Al comando di polizia di Arzo (Canton Ticino) l’ufficiale di turno disse con disprezzo che la Svizzera era un piccolo paese e non poteva accettare tutti. Così furono riportati al punto in cui erano passati. Questa volta suonò l’allarme e furono arrestati dai finanzieri italiani. Poco dopo furono tutti e quattro consegnati alle SS.

Liliana fu separata dal padre e fu rinchiusa nel carcere femminile di Varese. Aveva 13 anni. Dopo pochi giorni per lei ci fu il carcere di Como e poi San Vittore dove ritrovò il padre nel quinto raggio destinato agli ebrei e dove le famiglie non erano divise. Rimasero 40 giorni nel carcere di San Vittore. Fu l’ultimo periodo passato insieme.

Partenza per Auschwitz

Il 30 gennaio del ’44 è il giorno in cui tutti gli ebrei del quinto raggio devono lasciare il carcere per “destinazione ignota”. Per Liliana la nuova destinazione doveva essere per forza l’Italia, “non è pensabile che Mussolini espella dal Paese degli italiani, seppure ormai di serie Z”.

E qui accadde un fatto che la Segre ricorda ogni volta che testimonia sulla sua esperienza: il calore umano mostrato nei loro confronti dai detenuti del carcere:

Seconda lettura, pp. 32-33 / da “Uscimmo da San Vittore…” a “Grazie, dopo sessant’anni”

A calci e pugni furono messi su dei camion i quali arrivarono fino ai sotterranei della Stazione Centrale di Milano, ingresso da via Ferrante Aporti. Erano arrivati al Binario 21.

I vagoni furono riempiti ognuno con 50/60 persone “fino a scoppiare”. Un carrello elevatore portava i vagoni pieni fino a uno spazio della Centrale dove non c’era gente. Lì i vagoni erano agganciati e poi il treno partiva.

Il convoglio partito il 30 gennaio trasportava 605 persone: 97 uomini e 31 donne superarono la selezione per il gas e furono immessi nel campo (470 in gas). Alla fine tornarono in 20. La più anziana deportata su questo convoglio aveva 87 anni, la più giovane era una bambina di appena 4 mesi. Inutile chiedersi quale fu il loro destino.

La selezione

Tutti gli ebrei furono fatti scendere rapidamente sulla Judenrampe di Birkenau (CARTINA Auschwitz). In fila per cinque i maschi furono separati dalle femmine ed è questo il momento in cui Liliana si separa dal padre Alberto.

Il padre, nonostante avesse solo 45 anni, fu selezionato per il gas mentre Liliana, 13 anni, fu selezionata per il lavoro.

In una baracca di Birkenau Liliana con altre donne e ragazze deve sottostare alla prassi di Auschwitz: denudarsi, fare la doccia, taglio dei capelli, rivestirsi con la divisa del campo, spesso sporca e a pezzi e poi il tatuaggio sull’avanbraccio.

Terza lettura, p. 40 / da “Non ci restava più nulla…” a… “E’ il numero di Auschwitz”

Poco dopo in una squallida baracca seppero che quelle fiamme che uscivano da un camino e quell’ammorbante fumo nerastro che si vedeva e sentiva per ogni dove erano i corpi dei loro cari in combustione.

La prima reazione a tutto questo (“demolizione di un uomo” secondo P. Levi) era il pianto a dirotto, la disperazione ma anche il voler raccontare a ogni costo della propria casa e della propria famiglia… “ma dopo qualche giorno nessuna pianse più” (L. Segre).

Vita quotidiana

La vita quotidiana della ragazzina Segre fu uguale a quella di altre centinaia di migliaia di donne deportate (“ragazze-nulla”), ebree e politiche: la promiscuità delle baracche, il brulicare di parassiti, la sporcizia, le notti senza fine, il freddo, la disperazione, il cibo scarsissimo, gli appelli lunghissimi, il terrore delle punizioni, il terrore di ammalarsi e morire, il terrore di lavorare all’aperto d’inverno o sotto la pioggia.

Dopo 15 giorni fu scelta per lavorare in una fabbrica di bossoli per mitragliatrici appena fuori dal recinto del filo spinato. Fu questa insperata “fortuna” a permetterle di sopravvivere fino alla liberazione.

Molte altre ragazze e donne giovani lavoravano nell’ampliamento dell’enorme campo di Birkenau dove c’erano pali da piantare nel terreno gelato, filo spinato da collocare, strade interne e baracche da costruire… e tutto questo in qualunque tempo e stagione, con vestiario inadatto e il ventre vuoto.

Ogni giorno vede cadaveri, assiste a punizioni, sente le urla belluine delle SS e dei Kapò … tutto ciò mentre compie i quattrordici anni nel lager.

Come sopravvisse a tanti orrori? Come fecero quasi tutti: era chiusa nel proprio silenzio mentre i suoi occhi non guardavano veramente quello che vedevano. Altre donne invece si trasformavano in terribili persecutori, diventando Kapò oppure collaborando con loro, con gli stessi atteggiamenti e la stessa violenza dei carnefici.

Mantenersi puri, conservare qualcosa della propria umanità era quasi impossibile. Il sistema-lager era stato costruito in maniera tale da impedire all’uomo recluso di avvertire pietà, simpatia per qualcuno, disponibilità ad aiutare. Si poteva sopravvivere solo concentrandosi su se stessi (a parte pochi casi di vera solidarietà tra persone della stessa cittadina o nazionalità).

La selezione nel campo

Tre volte sopravvisse alle selezioni periodiche che appunto selezionavano chi ancora era in grado di lavorare rispetto a chi invece non lo era più. Si trattava di mettersi nude e una alla volta correre per una ventina di metri per mostrare di essere ancora in grado di lavorare. Tutti sapevano che cosa stava accadendo e gli istanti che precedevano il proprio turno erano terribili, soprattutto seguire con la coda dell’occhio dove andava la propria cartella, se nella pila di coloro che erano ormai considerati “stucke inutili” oppure quella dei “lavoratori produttivi”.

Janine

Selezionata ancora una volta per il lavoro Liliana non si comportò come doveva con una sparuta ragazzina francese. Contenta di essere passata alla selezione mostrò una gelida indifferenza verso la sua migliore amica in quel momento: Janine

Quarta lettura, pp. 52 – 53 / da “Ma è giusto che racconti… a … conosce la fine che ha fatto Janine”

Le marce della morte

Mentre i russi si avvicinavano sempre più al lager, i tedeschi decisero l’evacuazione di tutti coloro che erano in grado di marciare. Era il 18 gennaio del ’45.

In poche ore l’intero lager fu evacuato da un’enorme massa di deportati che già pativano freddo e denutrizione. L’obiettivo era preservare la “preziosa” manodopera portando via anche attrezzature industriali e macchinari. Nel freddo inverno del ’45 era necessario percorrere a piedi o in treno centinaia di chilometri per arrivare ai lager nel Reich.

Non c’era nulla da mangiare e da bere. Poche ore di sonno in qualche capanno abbandonato, intorno le distese gelate senza fine. Chi cadeva a terra per inedia era freddato con un colpo alla nuca.

Chi non era stato ancora ucciso arrivò giorni dopo prima a Ravensbruck, poi a Jugendlager (sottocampo di Ravensbruck) e infine a Malchow dove fu liberata dagli americani.

Ma poche ore prima della liberazione c’è un episodio molto significativo che la Segre racconta ogni volta in pubblico, soprattutto se parla davanti a dei ragazzi.

Quinta lettura / pp. 63-64 / da “Ci fu un momento importante … a … sono stata libera”

Ritorno a casa

Poi il ritorno a casa nell’agosto del ‘45. Aveva 15 anni. Il difficile ritorno alla “normalità” in una Milano che non era preparata ad ascoltare il discorso dei reduci dei campi di concentramento e sterminio. Tutti avevano sofferto e così ogni civile si credeva in diritto di raccontare a tutti le sue traversie, anche chi tra un trasloco forzato e l’altro aveva rotto un prezioso servizio di porcellane o aveva perso i mobili… E così Liliana si chiuse in un ferreo silenzio gravido di rancore.

Abitò a lungo con i due zii i quali non capirono mai che cosa aveva passato la nipote. La rimproveravano addirittura perché mangiava in ogni momento, diceva le parolacce e non sapeva stare a tavola. Poi subentrarono gli altri due nonni di parte materna e con loro le cose migliorarono.

Quando conobbe il futuro marito le si spalancò un mondo, che era quello degli affetti e dell’amore.

Con il matrimonio (1951) ebbe tre figli e dedicò ogni energia a loro dimenticando il più possibile la sua esperienza che non raccontò mai a nessuno, neppure ai familiari.

Testimone

Ma poi nel 1990 (45 anni dopo Auschwitz) qualcosa di profondo cambiò in lei e da quel momento decise di diventare testimone per far sì che chi la ascoltasse potesse diventare a sua volta testimone con altri. Da questo momento in avanti non si contano gli incontri con studenti e adulti.

Perché è diventata testimone? E’ per un “debito non pagato”, ossia per tutti coloro che sono stati “sommersi” nei lager e non hanno potuto tornare a una vita libera.

Nonostante il dolore che ogni volta si rinnova quando parla in pubblico (è come riaprire una ferita sempre schiusa) la signora Segre continua ancora oggi a testimoniare dopo trent’anni e all’età di 90 anni.

La nomina di senatrice a vita, il suo impegno in parlamento, le astiose polemiche di non pochi esponenti politici quando propose la costituzione di una commissione che combattesse il neorazzismo e l’antisemitismo in Italia ci riportano alla realtà di oggi dove il suo impegno, nonostante tutto, continua a esserci.

Vorrei concludere con alcune belle frasi scritte da una studentessa dopo una testimoninìanza della Segre nella sua scuola,

Lettura, p. 123