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La battaglia dell’Ortigara (giugno 1917)

La battaglia dell’Ortigara (giugno 1917),

Alpini San Vittore Olona, 30 giugno ‘17

appunti

Il 24 maggio del ’15 gli austro-ungarici avevano truppe esigue a protezione di Trento. Forse con manovra ardita si sarebbe potuto tentare di puntare su Trento contando sulla sorpresa iniziale. Così non fu.
Dall’altra parte c’erano diverse fortezze a sbarrare il passo agli italiani:

Cartina 1

Il Forte di Vèzzena, il Forte Verle e il Forte Luserna rappresentavano lo sbarramento austriaco. Alle spalle il poderoso Forte di Belvedere. A fronteggiare le poderose costruzioni austriache il Forte Verena e il Forte di Campolongo nelle mani degli italiani. Quando le fanterie italiane vanno all’attacco (inizio giugno) sono respinte con le prime gravi perdite. A fine estate subentra la calma in questo settore del fronte.

La Strafexpedition
A causare un vero choc tra i militari e i politici è l’offensiva austro-ungarica tra l’Adige e il Brenta che inizia all’alba del 15 maggio del ’16. Cadorna non si aspettava assolutamente un colpo di maglio di quella potenza in quella regione ritenuta a torto marginale. Sarà il primo grande errore tattico-strategico di una guerra che ha visto i generali italiani non brillare di acume strategico.
Si trattò della più grande battaglia di montagna fino a quel momento mai combattuta che portò gli austriaci a un passo della pianura veneta. Gli italiani indietreggiano di fronte alla netta superiorità di fuoco. Talvolta i reparti si sfaldano abbandonando posizioni importanti.
Si combatte su tutto l’Altipiano dei Sette Comuni. Asiago è investita direttamente con gravi distruzioni.

Cartina 2
mostrare il territorio e le cime perdute / Ortigara, Zebio, Mosciagh, Cengio… si combatte violentemente sul Pasubio

Il 16 giugno l’offensiva termina per decisione dei comandi imperiali. Gli obiettivi non sono stati raggiunti ed è inutile continuare. Gli austro-ungarici perdono 5000 uomini più 23mila feriti e 2mila dispersi; gli italiani perdono 6mila uomini, 28mila feriti, 41mila dispersi.

La controffensiva italiana
La controffensiva inizia quasi subito e termina il 24 luglio. L’obiettivo è approfittare del ripiegamento nemico per riprendere il territorio perduto.
Gli austriaci saggiamente nella notte del 25 giugno abbandonano posizioni indifendibili. Anche qui l’offensiva italiana doveva scattare subito ma si perse l’occasione.
Di fronte a “questo sconcertante episodio” (Pieropan) l’esercito italiano sconta la scarsa lungimiranza dei propri comandi. Forse si riteneva che anche gli austro-ungarici avevano fatto proprio il metodo italiano: ossia non abbandonare in nessun caso il territorio conquistato.
Gli austriaci indietreggiano ma poi si posizionano nel modo migliore sfruttando l’altezza e la presenza di caverne. Se non ci sono le aprono a forza di dimamite e perforatori. Dovunque appaiono saldi e in grado di ragire.
Anche lo stesso Cadorna deve ammettere in una lettera alla figlia che “qui si va avanti adagio. Gli austriaci hanno un’abilità straordinaria nel capire e fortificare il terreno in breve tempo, abilità che i nostri non hanno” (7 luglio).
Si combatte anche nei pressi dell’Ortigara ma senza alcun vantaggio. Ragnatele di filo spinato (anche tre settori), mitragliatrici in caverna e profonde trincee rendono vani gli attacchi. L’apporto dell’artiglieria italiana è modesto. In ogni caso le posizioni in caverna sono indistruttibili.
Poco dopo Cadorna decide di spostare truppe e artiglieria verso il fronte isontino e ci sarà la conquista di Gorizia (agosto ’16).

Attacco in “Uomini contro”

L’Operazione K
L’”Operazione K” è un’offensiva voluta da Cadorna per riconquistare quanto perduto con la Strafexpedition e allontanare il nemico dagli Altipani rendendo vana ogni possibile minaccia alle spalle dell’esercito schierato al confine orientale. Questa minaccia era vera. L’obiettivo però fu portato avanti con evidenti limiti da parte degli alti comandi.
In sostanza l’Operazione K è un’azione offensiva volta a rendere migliore la difesa.
Si ampliano le strade esistenti, si costruiscono nuove strade, si risolve il problema dell’acqua con un’acquedotto lungo 16 chilometri, nuovi magazzini e salmerie fanno il resto. Si trascura l’ipotesi che le truppe fossero costrette a rimanere sul quel terreno nei mesi invernali se l’offensiva non avesse dato buoni frutti.
Di rinvio in rinvio alla fine l’Operazione K non ha luogo per il maltempo (fine ottobre-inizio novembre) ma soprattutto per il ritardo nell’arrivo e posizionamento dei grossi obici provenienti dal Pasubio. Alla fine la data individuata è il 10 novembre ma dall’8 cade molta neve (un metro e mezzo con temperature fino a meno 10 gradi). Nonostante tutto i preparativi proseguono e vengono fissate altre date finchè, dopo altre abbondanti nevicate, l’operazione è definitivamente sospesa.

L’inverno a duemila metri
Comincia la lotta contro un altro nemico implacabile: l’inverno a 2000 metri con temperature polari (fino a – 30 gradi), valanghe e tormente mentre la costruzione di baracche in cui alloggiare i soldati era in forte ritardo.

In queste situazioni bisogna alzare le feritoie portandole a livello della neve. Nacquero così due ordini di trincee: uno inferiore con illuminazione anche durante il giorno (dove si sguazza nel fango) e una superiore con feritoie ricavate nel ghiaccio che devono essere continuamente alzate con soldati appesi a impalcature di legno. Dovunque i soldati aprono gallerie nella neve per spostarsi senza essere visti dal nemico. Intanto Cadorna dà ordine al generale Mambretti, comandante della Sesta Armata, di preparare l’offensiva di primavera.

Giugno ‘17
Per l’operazione fissata il 9 giugno ’17 Cadorna porta a ridosso delle linee austriache qualcosa come 300mila uomini con migliaia di quadrupedi. Non si era mai visto nulla di simile pensando che il terreno era accidentato e non pianeggiante come lungo il basso Isonzo.
E’ vero che sarebbero stati operativi solo 150mila uomini ma il fronte era di solo 15 km (sono 10 uomini in un metro tra truppe avanzanti per prime e i rincalzi).
L’errore principale è stato quello di considerare il fronte montano dell’Altipiano di Asiago alla stregua del fronte dell’Isonzo. Il fatto è che il tratto dove operare lo sfondamento misura solo 15 km con un inevitabile intasamento di uomini e cannoni. Oltrettutto si offrivano facili bersagli ai cannoni austriaci.
Scrive Ezio Valori: “Era l’applicazione dei sistemi classici alla guerra di montagna: l’assurdo tattico diventato assioma, diventato mania. I nostri ufficiali e soldati fecero, come sempre, le spese di queste degenerazioni”.
Alcuni generali avevano elaborato altri piani d’attacco basati su una superiorità nell’artiglieria e sull’azione a sorpresa di relativamente piccoli gruppi di alpini ben addestrati, conoscitori del terreno, e con ufficiali con un certo grado di autonomia operativa. Caviglia, Montuori, Como Dagna (comandante della 52esima divisione, l’unica composta solo da alpini) elaborano piani in tal senso. Il loro errore fu quello di non esplicitare il dissenso con Cadorna.

Le forze in campo
La Sesta Armata aveva 114 battaglioni di fanteria, 22 di alpini, 18 di bersaglieri per un totale di 154 battaglioni più altri reparti. Le bocche da fuoco sono in totale tra grossi e piccoli calibri 1650, ossia un pezzo ogni 9 metri però con munizionamento scarso. Nella Strafexpedition gli austriaci avevano un pezzo ogni 30/40 metri.
Il problema era la dilatazione degli obiettivi e il conseguente frazionamento dei mezzi distruttivi. Secondo alcuni generali sarebbe stato meglio dirigere tutto il fuoco sul settore dell’Ortigara così da facilitare l’attacco degli alpini. Dall’altra parte se tutto il fuoco era concentrato in una sola zona non si impediva al nemico di sparare sulle truppe da altri punti e far affluire i rincalzi. E poi anche i cannoni di grosso calibro erano impotenti di fronte alle postazioni nemiche in caverna.
Le forze austriache in uomini e mezzi sono tre volte inferiori ma sanno che il comando italiano sta preparando in quella zona un grande attacco e prevedono anche in quali giorni (notizie dai disertori).

Inizia la battaglia
Lo scatto iniziale doveva avvenire il 9 giugno ma proprio nel momento dell’attacco ci fu un tuono terribile e le truppe non uscirono dalle trincee anche perché si era sparsa la credenza che il generale Mambretti fosse perseguitato dalla sfortuna. L’azione fu spostata il giorno successivo.

10 giugno
Durante il bombardamento preparatorio molto filo spinato salta per aria, diverse trincee nemiche sono fatte a pezzi ma nello stesso tempo sono colpiti alcuni reparti della “Sassari” alle pendici del Monte Zevio, pronte a uscire dai ricoveri.

Seq. da “Uomini contro”

Questi errori non erano infrequenti: erano dovuti alla scarsa esperienza degli artiglieri, alla fretta nel posizionamento dell’artiglieria e soprattutto dal fatto che la distanza tra italiani e austro-ungarici nel momento dello “scatto” era minima.
Da notare che l’episodio dell’uccisione del capitano Melchiorri è vera. In realtà si chiamava …. e l’episodio è ben raccontato da Emilio Lussu nel suo “Un anno sull’altipiano”. Il reparto che uccise Melchiorri-…. non fu punito perchè il capitano era ubriaco fradicio e con la sua condotta….

Torniamo al momento dell’attacco. Dopo un terrificante bombardamento, però su obiettivi molto diversi e lontani, le fanterie scattano all’attacco. Si combatte dal Monte Forno all’Ortigara.

Cartina 3

Leggiamo una testimonianza di un ufficiale italiano che racconta l’uscita della fanteria dalle postazioni alla conquista dell’Ortigara.

Lettura Pieropan, pp. 179-180

La risposta austriaca è veemente. Nonostante la nebbia gli austriaci sparano e fanno molti vuoti negli assalitori perché sanno quali sono le direttrici d’attacco. Sparano nel vuoto, apparentemente, ma colpiscono i soldati in movimento.
I primi assalitori fanno le spese dei reticolati intatti oppure debolmente colpiti dalle bombarde. I varchi non ci sono e dove ci sono gli austriaci aspettano con le mitragliatrici, i fucili, i lanciabombe, i mortai…
Il valore dei fanti e degli alpini è grandissimo ma ovunque non si va avanti. I primi a cadere sono gli ufficiali davanti alle truppe con prevedibili effetti a livello psicologico nelle truppe e nel comando.
I nostri soldati per la conquista dell’Ortigara partono da Cima Caldiera e dal Campanaro.

Cartina 4 – 5 e 6

Ai varchi di uscita sono posizionate le mitragliatrici nemiche. I soldati devono perdere quota per arrivare al Vallone dell’Agnellizza e poi salire senza alcun riparo i ripidi e spogli pendii che portano all’Ortigara. Il Vallone dell’Agnellizza verrà ribatezzato il “Vallone della morte”.

Dopo ripetuti attacchi a fine giornata Mambretti dà l’ordine di sospendere le operazioni. Il solo risultato positivo lo conseguono gli alpini del 59esimo che sono abbarbicati a quota 2101, a pochi metri dalla vetta (2105).
Cadorna scriverà alla moglie che la battaglia era stata “un vero fiasco” ma contrariamente ad altri episodi simili non rimosse né Mambretti né altri alti ufficiali.
In vetta resistono reparti scelti austriaci e intanto sugli assalitori a q.2101 piovono bombe da tutte le parti e a causa del tiro d’interdizione austriaco non è neppure possibile ricevere aiuti da altri reparti, bloccati nelle trincee di partenza. Anche l’approvvigionamento di acqua e viveri è molto incerto.
A questo punto l’offensiva era fallita e Mambretti avrebbe dovuto ordinare il ritorno alle posizioni di partenza. Invece, incredibilmente secondo Pieropan, si decide di mantenere in quota gli alpini nonostante i rischi di contattacco, le bombe, il freddo, la pioggia, le posizioni precarie…
Ritentare dopo alcuni giorni con quei reparti provati e indeboliti era pura follia e poi prendere solo l’Ortigara non aveva senso: era necessario avanzare ulteriormente per buttare giù dall’Altipiano gli austriaci (Cima Pòrtule) ma qui mancavano le forze e soprattutto mancava l’addestramento di reparti scelti e ben armati i quali conoscendo bene il terreno avrebbero avanzato fino a scardinare le difese avversarie (Cima Pòrtule).

TAPUM, yt
https://www.youtube.com/watch?v=AdZVmEBmKME

18 giugno: la conquista della cima
In data 18 giugno un colpo di mano da parte di truppe alpine permette di cacciare gli austriaci dalla cima ma subito si pone a Mambretti e anche a Como Dagna (generale del 59esimo Alpini) che cosa fare dopo la conquista: avanzare ulteriormente? Sarebbe stata la cosa migliore. Ma come fare? I pochi alpini non avrebbero potuto avanzare ancora fino a Cima Portule. Oppure abbandonare Quota 2105? Ma come si poteva dopo tanto sangue?
Si scelse l’ipotesi peggiore, ossia rimanere in cima con tutte le sofferenze immaginabili e le perdite inevitabili.

25 giugno: la riconquista austriaca. Le Sturmtruppen in azione
Il 25 giugno accade quello che era largamente prevedibile, ossia la riconquista austriaca della cima con un’operazione ben congeniata.
Durante la notte si scatena sulle posizione tenute dagli italiani un fuoco breve ma micidiale, che impedisce anche ai rincalzi di accorrere. Mentre è ancora in corso il bombardamento sulle prime linee arrivano nuovi corpi scelti armati di bombe a mano e di lanciafiamme (è la prima volta): la sorpresa è notevole e nonostante il valore degli alpini dopo 40min la cima è conquistata e gli italiani devono ripiegare sulle posizioni di partenza.
Il bombardamento iniziale è fatto con bombe incendiarie, a gas e lacrimogene senza dimenticare le bombe dirompenti che scagliavamo sull’altipiano ogni volta miriadi di schegge sui difensori.
A conquistare la cime sono le nuove pattuglie d’assalto, le Sturmtruppen o Strosstruppen, pochi uomini dalle dimensioni di un plotone, ben addestrati e armati (es. con i lanciafiamme) e con alle spalle pattuglie di trasportatori di altre bombe a mano, munizioni per i fucili e con il supporto di altre pattuglie di fanteria.
Gli uomini si conoscono tra di loro, c’è un notevole affiatamento tra soldati e ufficiali, ciascuno sa che cosa deve fare e conoscono perfettamente il terreno.
A sconcertare i difensori fu la nuova tattica d’approccio alle linee nemiche: avvicinarsi alle postazioni italiane mentre era in corso il bombardamento nemico. Quasi un avanzare sotto il “fuoco amico”. Tutto ciò presupponeva una perfetta simultaneità tra le truppe d’assalto e l’artiglieria che doveva progressivamente alzare di poco il tiro mentre la fanteria strisciava verso le postazioni italiane. Mentre i difensori ancora si proteggevano negli anfratti delle rocce, gli assalitori sarebbero arrivati su di loro.

L’esercito italiano stava sperimentando quelli che sarebbero diventati gli “Arditi” ma le truppe scelte italiane agivano con altri obiettivi: non lo sfondamento in profondità (come a Caporetto) ma la ricognizione e il provocare scompiglio nelle prime linee nemiche.
I comandi italiani hanno la certezza che l’Ortigara è in mano nemica dieci ore dopo, quindi mancò il fuoco dell’artiglieria e qualunque tentativo serio di riprendere la cima.

L’ultimo errore
Anzi ci fu il tempo per l’ultimo grave errore di una battaglia dove gli errori tattici e strategici furono numerosi.
Quando si seppe che l’Ortigara era in mano nemica, si ordinò a uomini facenti parte di reparti raccogliticci, che stavano là sopra da 15 giorni, di attaccare subito (25-26 giugno). Furono subito respinti con gravi perdite.
Ma se l’”Ortigara non valeva le ossa di un alpino”, nel senso che era necessario proseguire oltre, perché tentare la sola rioccupazione della cima?
Non sarebbe stato meglio tornare alle posizioni di partenza e poi tentare non solo la conquista della cima ma lo sfondamento verso gli obiettivi del 10 giugno? Oppure tentare di imitare la nuova tattica degli austriaci? Si scelse la soluzione più immediata e a pagarne le conseguenze furono ancora alcuni reparti alpini.

Le perdite
Le perdite ufficiali sono 25.000 soldati italiani tra il 10 e il 30 giugno ma è molto probabile che il numero arrivi a 28.000 (in 20 giorni di battaglia) tra morti, feriti, dispersi. I dispersi sono coloro di cui non è stato possibile recuperare il cadavere.
28.000 su 300.000 possono apparire ancora “pochi” rispetto alle tremende carneficine del Carso ma teniamo in considerazione l’esiguità dell’area, il ridotto numero di giorni di battaglia e il fatto che solo una metà partecipò in qualche modo ai combattimenti. In ogni caso le perdite maggiori vennero subite dai reparti alpini, per la 59esima divisione le perdite arrivano al 40-50%, soldati e ufficiali morti con loro su un fronte – l’Ortigara – ampio 2 km.
Le perdite austriache invece assommano a poco meno di 9.000 uomini, un terzo rispetto a quelle italiane però consideriamo che il numero di combattenti austriaci erano nettamente inferiore a quello del nemico italiano.

Le valutazioni di Cadorna
Nelle sue memorie il “generalissimo” diede la colpa del “fiasco” ai soldati (“non sono più quelli di una volta”), alla propaganda sovversiva, al maltempo, alla sfortuna, all’idea della jettatura di Mambretti, che alla fine fu sostituito più per la jettatura che per gli errori commessi.
Che gli austriaci avessero avuto il sopravvento per un nuovo e diverso modo di combattere, tutto ciò non sfiora il cervello del “generalissimo”, neppure l’idea che ammassare 300.000 uomini in un settore montano sarebbe stato un errore pagato a caro prezzo dai soldati.

In sostanza da questa terribile esperienza l’esercito italiano non imparò nulla e a Caporetto mancavano solo quattro mesi.

Video Scuola sull’Ortigara
https://www.youtube.com/watch?v=Op3XKaAhEc8

Finale lettura Pieropan, p. 371