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“Intellettuali con l’elmetto. La comunità d’agosto” (1914)

“Intellettuali con l’elmetto. La comunità d’agosto” (1914)

Con le “radiose giornate” d’agosto del ‘14, quando l’Europa precipitò i pochi giorni nella prima guerra mondiale, avvenne qualcosa mai accaduto prima: la compatta adesione della comunità europea degli intellettuali alla guerra e in particolare alle ragioni di guerra del proprio paese.
Venne chiamata la “comunità d’agosto” nel senso che quasi tutti gli intellettuali europei si sentirono “uniti”: uniti a difesa strenua del proprio paese con argomentazioni (come vedremo) dove il delirio nazionalista, l’irrazionalismo, il fanatismo dominavano rispetto a qualunque argomentazione razionale.
Avvenne quello che poi Julien Benda chiamerà “Il tradimento di chierici” in un libro del 1927. I “chierici” sono gli intellettuali i quali “tradirono” perché invece di porsi al servizio della ragione, della verità e della giustizia, invece di cercare e rendere pubblici i veri motivi per cui le nazioni europee si scannavano tra di loro, resero possibile la guerra agitando ideologie, spesso fantasiose, in ogni caso favorevoli alla mobilitazione del proprio paese contro i propri nemici.
Funsero così da “detonatori” della guerra imminente rendendo possibile la mobilitazione di massa.
Potremmo dire che gli intellettuali furono affetti da miopia visiva o da vera e propria cecità di fronte alla realtà in cui vivevano. “Ignoravano cosa fosse veramente il Novecento”: le armi micidiali pronte a essere usate, i grandi complessi industriali e bancari capaci di determinare le scelte politiche, la forza dei giornali e della propaganda.

Le energie intellettuali non mancavano affatto in quell’Europa sull’orlo dell’abisso. Difficile trovare un’epoca così ricca di grandi intellettuali. Nel 1914 avrebbero potuto incontrarsi, magari a Parigi, capitale mondiale della cultura, scrittori, artisti, poeti quali Apollinaire, Proust, Gide per la Francia; personalità quali Thomas Mann, Max Plank e Max Weber per la Germania; d’Annunzio, Pirandello e Ungaretti per l’Italia; i poeti Majkovski, Blok ed Esenin per la Russia; Freud e Musil per l’Austria; Conan Doyle e Hardy per la Gran Bretagna…
Nell’Europa dell’epoca operavano grandi pittori quali Picasso, Braque, Marc e Kandisky; scrittori quali Joice e Zweig; filosofi come Henry Bergson, Oswald Spengler e Benedetto Croce; musicisti come Debussy e Stravinskij.
Eppure quando dopo un mese l’attentato di Sarajevo si prepararono le condizioni per la guerra, molti tra coloro che abbiamo citato presero posizione per il proprio paese, in un’orgia di nazionalismo che ancora oggi lascia sconcertati, oppure stettero alla finestra disgustati per quanto stava accadendo.

La “guerra-festa”
Facciamo qualche esempio. Una parte dei giovani intellettuali esalta la guerra perché rompe quella che sembrava una plumbea atmosfera di soffocante pacifismo nutrito di un materialismo dannoso alla vita dello spirito. Robert Musil: “La guerra rappresenta l’ebrezza di un’avventura … e ne avevamo abbastanza della pace”.
Thomas Mann: “Perché mai l’artista, il soldato nell’artista, non avrebbe dovuto lodare Dio per aver fatto affondare un mondo di pace del quale ne aveva più che abbastanza? La guerra! La sentiamo come una purificazione, una liberazione e un’immensa speranza”. Dieci anni dopo cambiò idea e definì quella guerra “sagra mondiale della morte”.
Hermann Hafker (uno dei primi teorici del cinema) scrisse che “la pace era divenuta insopportabile… volevamo vivere di nuovo ed essere pronti a rischiare la vita in gesta degne dell’ora”. Dopo la guerra Hafker diventerà un oppositore del nazismo e morirà a Mauthausen.
Il discorso è lungo ma possiamo dire che la guerra rappresentò finalmente per molto giovani scrittori e artisti la possibilità di lasciarsi alle spalle quella plumbea e mefitica civiltà indistriale che a loro parere avviliva le energie migliori dell’uomo nel grigiore quotidiano della città mderna.
Il caso di Mann e Hafker dimostra la straordinaria cecità degli intellettuali i quali aderiscono con tutto se stessi in un’orgia di nazionalismo guerrafondaio e solo davanti ai massacri dell’autunno del ’14 vedono finalmente che cosa è la guerra. Ci furono però tanti altri intellettuali che non fecero mai i conti con la guerra, anzi continuarono ad esaltarla fino alla fine e nel caso dell’Italia, dopo il ’19, aderirono al fascismo.
E’ il caso dei futuristi che già nel 1909 esaltavano la guerra all’interno del famoso “Manifesto”: “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo e le belle idee per cui si muore”.
La guerra era l’occasione secondo i futuristi per dare una “ripulita” alla società italiana con la morte degli “inutili” (le bocche da sfamare, chi non sa neppure di vivere…) dando spazio finalmente ai “migliori” che sarebbero emersi sul campo di battaglia come futuri dominatori. E così andarono in guerra nel battaglione ciclisti-automobilisti al grido di “Zang-Timb-Tuumm”.

Un’orgia di patriottismo
Tornando al “radioso agosto” quando finalmente per molti i cannoni cominciarono a tuonare, è difficile immaginare ora l’entusiamo che prese un po’ tutti gli intellettuali. Sembra quasi che non si rendessero conto di quello che sarebbe accaduto: ossia una guerra che sarebbe durata 52 mesi con 9 milioni di morti e immani distruzioni materiali.
Stefan Zweig: “La maggior parte dei nostri poeti (tedeschi e austriaci) credettero di adempiere al loro dovere rafforzando l’entusiamo delle masse e collaborando con i loro appelli politici e con le loro presunte ideologie scientifiche alla pretesa bellezza della guerra. Piovvero in massa le poesie, con le comode rime tedesche di Krieg-Sieg (guerra e vittoria) e Not-Tod (dolore e morte). Ancor peggio si comportarono i dotti”.
Majakovskij: la guerra è “poema dell’anima emancipata e esaltata”. Ernst Junger: “Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità, tutti sentivamo l’irresistibile attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli. La guerra ci aveva afferrati come un’ubriacatura. Partiti sotto un diluvio di fiori, eravamo ebbri di rose e di sangue. Non il minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa appariva azione da veri uomini: vivaci combattimenti a colpi di fucile su prati fioriti dove il sangue sarebbe sceso come rugiada.. “Non v’è al mondo morte più bella” cantavamo. Lasciare la monotonia della vita sedentaria e prendere parte a quella grande prova. Non chiedevamo altro”.
Freud disse che la dichiarazione di guerra alla Serbia fu il giorno più bello della sua vita ed esaltò i propri figli mobilitati per i vari campi di battaglia. Poi scrisse considerazioni diverse sulla guerra (già nel ’15) e criticò il suo atteggiamento precedente giudicandolo un’ubriacatura solenne.

L’animalizzazione del nemico
Non c’è solo l’esaltazione dello spirito guerriero del tedesco o del francese o del russo… gli intellettuali sorreggono la mobilitazione dei giovani di leva inventando forme di denigrazione del nemico fino ad arrivare a vere e proprie forme di animalizzazione, ossia a un razzismo radicale che poi troveremo poco più avanti espresso contro gli ebrei.
Medici e antropologi compiono il loro “dovere” patriottico mettendo in evidenza la bestialità del nemico. Nel 1915 un certo dottor Berillon presenta uno studio all’Accademia di medicina di Parigi in cui afferma che i “boches” “urinano con i piedi” (hanno tutti un insopportabile odore dei piedi) perché “l’eliminazione degli elementi urici avviene con la sudorazione plantare” (!). Altri medici espongono dati sull’inferiorità nazionale dei tedeschi (spirito prussiano fatto solo di obbedienza totale e di amore verso la guerra). I tedeschi facevano la stessa cosa puntando il dito sul carattere dei francesi visti tutti come nazione di bottegai minacciata dalla mescolanza delle razze e quindi una popolazione già degenerata tra materialismo spicciolo e mescolanza razziale.
Le polemiche arrivavano fino ad auspicare lo sterminio del poplo avversario: il vescovo di Londra nel ’15 sostiene che “per salvare la libertà del mondo e la Libertà in quanto tale, per salvare l’onore delle donne, l’innocenza dei bambini e quanto di più nobile c’è in Europa… tutti coloro che credono in questi principi devono riunirsi in una grande crociata al fine di – è inutile negarlo – sterminare i tedeschi”.

Kultur e Zivilization
Altri intellettuali non scendevano così in basso come gli antropologi ma le tematiche erano sempre improntate a una radicale differenza tra “noi” e “loro”.
Thomas Mann è il teorico dell’assoluta superiorità della Kultur tedesca. La Kultur era la capacità tipica di tutti i tedeschi di pensare in grande a livello dello spirito (nazione di filosofi) mentre i francesi apparivano al di là del Reno come una nazione di bottegai legati solo al piccolo materialismo dei piccoli affari (effetto della cosiddetta “civilization”). Da qui l’esaltazione dello spirito eroico, del coraggio dei tedeschi, della sanità di un popolo che non si era infiacchito dimenticando le proprie origini.
Quindi la guerra per Mann diventa una guerra per la difesa di un’alta cultura europea (filosofica, spirituale, ideale) dall’invasione di una pseudocultura mercantile incapace di pensare in grande.
Anche gli inglesi erano accusati di essere ormai l’espressione di un piccolo popolo dedito solo a piccoli commerci mentre i tedeschi avrebbero combattuto per tutta l’Europa contro l’onda montante dei nuovi barbari.

La contrapposizione tra francesi e tedeschi era anche tra i principi dell’89, Libertè, Egalitè e Fraternitè, rispetto allo spirito tedesco che era antidemocratico, antiegualitario, antilibertario. Mann più volte (seguendo Nietzsche) si disse disgustato dalle idee emerse dalla Rivoluzione francese.
In Germania tutti o quasi erano convinti che le idee dell’89 avessero fiaccato gli uomini e li avessero allontanati dai valori più nobili dell’esistenza: il coraggio, la virilità, lo spirito di sacrificio, la lotta e la gloria. Solo i tedeschi conservavano il mito della “morte eroica” (Max Weber) basato sulla sacralizzazione della morte sul campo di battaglia quale “vocazione” (Beruf) del soldato. In realtà la morte tecnologica e di massa avrebbe fatto piazza pulita di tutte queste concezioni irrazionali.

I tedeschi barbari?
Ma come era possibile definire “barbaro” un popolo che aveva espresso musicisti come Bach e Beethoven, poeti come Goethe e Schiller, filosofi come Kant ed Hegel?
In un primo tempo si divisero i “tedeschi buoni” dai “nuovi barbari”, poi si cercarono elementi di degenerazione intellettuale anche tra le più grandi personalità tedesche del passato. Da Arminio a Guglielmo II i tedeschi non erano cambiati!

La guerra dei manifesti
Tipica della fase iniziale della guerra fu la cosiddetta “guerra dei manifesti” in cui gli intellettuali, divisi per paese, esprimevano le ragioni per cui “combattevano”.
Cominciarono gli inglesi con un manifesto pubblicato dal “New York Times” (18 settembre ’14) in cui 54 intellettuali invitavano a combattere contro la “barbarie teutonica” in nome della “civilizzazione”. Tra di loro c’erano scrittori quali Chesterton , Kipling, Doyle, Wells.
Seguì il 4 ottobre l’”Appello alle nazioni civilizzate” firmato da 93 alte personalità tedesche (di cui 58 professori universitari e tra di loro diversi premi Nobel) in cui si chiedevano se veramente fossero i tedeschi i “nuovi barbari”. L’appello si chiudeva con l’invito a combattere per la “difesa” del paese minacciato dall’invasione franco-russa e dai maneggi inglesi. Il 16 ottobre sempre in Germania fu pubblicata la “Dichiarazione degli insegnanti universitari tedeschi” con 1347 firmatari, praticamente tutti.
Nell’ottobre del ’14 l’intellighenzia russa si fece sentire con un proprio manifesto intitolato “Alla nostra patria e a tutto il mondo civile” firmato da 1100 personalità tra le principali del paese. In Francia non si stette a guardare e il 3 novembre gli universitari scrissero un “Manifesto delle Università francesi alle Università dei paesi neutrali. Risposta alle Università tedesche”. La mania dei manifesti arrivò anche in Portogallo e sempre nell’ottobre del ’14 si invitava l’Europa libera a interrompere qualunque forma di collaborazione con la cultura tedesca.

Intellettuali in “trincea”
Gli intellettuali non si limitarono a scrivere e in alcuni casi a combattere. Vennero utilizzati dai vari comandi sulla base delle proprie competenze. I più richiesti erano gli storici e i filosofi oltre gli scienziati.
Per esempio alcuni scrittori britannici si posero al servizio degli uffici stampa o delle agenzie di propaganda (tra di loro Laurence, Doyle). In Austria nacque un reparto speciale allo scopo di radunare i racconti eroici dei soldati (Rainer Maria Rilke e Stefan Zweig), i traduttori lavorarono presso gli stati maggiori, gli artisti della Comedie-Francaise tennero numerosi spettacoli per i soldati, così fecero i cineasti nelle retrovie (con film di propaganda); i pittori furono invitati a dipingere recandosi in prima linea, i cantanti a intrattenere le truppe, i filosofi tennero conferenze nei paesi neutrali e tra il pubblico borghese…
I più apprezzati però erano gli scienziati e i tecnici. I geografi ebbero il compito di lavorare nei reparti cartografici, gli inventori al servizio degli apparati militari, i chimici (Fritz Haber) per potenziare l’uso di queste armi, fisiologi e medici per animalizzare il nemico (presunte tare ereditarie e degenerazioni mentali del nemico, es. la presunta degenerazione mentale di Guglielmo II); gli statistici e i sociologi fecero nascere nuove scienze quali l’economia pubblica e la scienza dell’amministrazione.

Tra partecipazione e opportunismo
La guerra ruppe improvvisamente molte amicizie e collaborazioni tra scrittori e personalità tedesche e francesi. Nessuno poi ricordò libri scritti insieme oppure progetti portati avanti da intellettuali di diverse nazioni prima della guerra.
Anzi molti approfittarono della guerra per fare carriera e avere spazi prima difficili da ottenere. La guerra aveva per esempio interrotto la presenza della musica tedesca in Francia e questa fu l’occasione per imporre musica francese. In Germania si approfittò per far nascere un cinema tedesco dopo tanto afflusso di cinema francese.
Non ci fu solo una totale adesione patriottica. In molti casi, coerentemente, molti intellettuali presero parte alla guerra e molti morirono o mandarono a morire i propri figli.
R. Kipling (premio Nobel letteratura nel 1907) fa di tutto per arruolare il figlio diciassettenne nonostante una forte miopia. Il figlio morirà subito nella prima battaglia (Loos, ’15) perché in battaglia perde gli occhiali.
In Francia morirono sui campi di battaglia 400 letterati. La pattuglia dei futuristi italiani fu quasi decimata: Boccioni cadde da cavallo e morì e poi in battaglia morirono D’Elia e Carlo Erba. Morirono Guillame Apollinaire e il pittore Egon Schiele a causa della “Spagnola”; in combattimento il pittore Franz Marc, il poeta Charles Peguy, lo scrittore Renato Serra, Carlo Stuparich, Scipio Slataper ….
Poi ci si accorse che era una grave perdita la morte di un giovane scienziato oppure di uno scrittore che avrebbe potuto dare un altro contributo alla guerra. Fu il caso di Charlie Chaplin che non venne richiamato da proprio governo (era di nazionalità inglese) e lui ricambiò con alcuni brevi filmati di propaganda a favore degli Stati Uniti e poi con un bel film quale “Charlot soldato”, che è tutto tranne un film pacifista. Infatti avrebbe dovuto essere proiettato per le truppe americane che partivano per il fronte ma la guerra finì in quel momento e poi l’imperversare della “Spagnola” sconsigliava di riunire gli uomini in spazi così ristretti come le sale cinematografiche.
In Italia potrebbe essere il caso del futuro duce, Benito Mussolini. Partito regolarmente con la sua classe di leva come sappiamo fu ferito dallo scoppio accidentale di un mortaio. Così le autorità militari italiane, in accordo con quelle politiche, decisero che Mussolini era più utile alla direzione del “Popolo d’Italia” che in una fetida trincea. Mussolini non deluse nessuno perché fece del suo “Popolo” uno strumento importante nel sostegno della guerra italiana, soprattutto dopo Caporetto.

Gli oppositori
Pochi furono i pacifisti o coloro che cercarono di opporsi alla guerra. Le dita di due mani basterebbero per contarli tutti. In Germania Albert Einstein e pochissimi altri (un suo manifesto fu stampato solo in un centinaio di copie, eppure raggiunse molti paesi). In Francia Romain Rolland il quale fu costretto a trovare rifugio in Svizzera per evitare violenze. Scrisse poi un famoso libro, “Au-dessus de la melee” (“Al di sopra della mischia”), che è anche un implacabile atto di accusa contro tanti intellettuali che invece della ragione si armarono di slogan nazionalisti.
In Russia furono pacifisti solo Maxim Gor’kij e qualche discepolo di Tolstoj. In Gran Bretagna ricordiamo George Bernard Swaw e il filosofo Bertrand Russel, che finì in prigione per la sua opposizione alla guerra; in Italia ricorderei solo Benedetto Croce il quale nutrito di cultura filosofica tedesca non se la sentì di odiare come fecero tanti altri una cultura che aveva intensamente studiato e amato. In Austria il drammaturgo Karl Kraus il quale scrisse poi un testo fondamentale quale “Gli ultimi giorni dell’umanità”.
Tra coloro che provavano nausea nei confronti dei nazionalisti c’era Franz Kafka. Il 6 agosto del ’14 a Praga scriveva: “Corteo patriottico… Questi cortei sono tra i più disgustosi fenomeni che accompagnano la guerra”. “La metamorfosi” di Kafka (1916) narra di un uomo che al mattino si sveglia trasformato in un insetto: è il simbolo della mostruosa mutazione di un mondo intero.

I socialisti rivoluzionari
Pochissimi intellettuali ebbero però la forza di un Lenin che individuava le cause della guerra non in ideologie l’una contro l’altra armate ma nel sistema capitalistico, che in nome di interessi economici e di potenza obbligava il proletariato al “sacro macello” degli anni di guerra. Il suo appello, “Trasformare la guerra imperialistica in guerra civile”, fu ascoltato solo in Russia.
Pochi intellettuali rivoluzionari ebbero le idee chiare come Trockij o Rosa Luxemburg la quale già nel ’14 additava nella società borghese la vera causa della guerra: una volta caduta la maschera della civiltà, dell’etica, della pace e del diritto, la società capitalistica mostrava con la guerra il suo vero volto: “Svergognata, disonorata, sudicia, sguazzante nella melma”, prendendo i tratti di “una belva distruttrice, un sabba di streghe dell’anarchia, un miasmo pestilenziale per la civiltà e per l’umanità”. In questi frangenti coniò un motto ancora oggi valido: “Socialismo o barbarie!”.
Liebneckt coniò lo slogan, “Il nemico è in casa nostra” contro l’orgia del nazionalismo. Il vero nemico non è il tedesco, il francese ecc. ma la propria borghesia. Primo dovere del proletariato comunista è abbattere il proprio governo, come farà Lenin in Russia nell’ottobre del ’17.

L’intellettuale engagè / Nuovo fenomento novecentesco
Gli “intellettuali con l’elmetto” nel 1914 furono probabilmente la prima espressione di un fenomeno che poi accompagnò gran parte del Novecento, ossia l’intellettuale engagè, l’intellettuale ingaggiato (schierato) con una della parti in lotta il quale porta nella guerra tutto il peso della propria partecipazione culturale e politica.
Non dimentichiamo che finita la guerra sarà il tempo del fascismo, del nazismo, dello stalinismo e dei tanti nazionalismi che prepareranno il terreno al secondo conflitto mondiale. Finita la seconda guerra mondiale ci sarà la “guerra fredda”, altro terreno di partecipazione per tanti intellettuali schierati da una parte e dall’altra, con il proprio paese, oppure con il proprio partito, in un’ottica in cui la grande vittima è la Verità con il sacrificio della libertà di coscienza e ricerca.

Per capire questo fenomeno dobbiamo fare riferimento (ma il discorso sarebbe lungo) sulla natura dell’intellettuale nella società divisa in classi. Nella società capitalistica l’intellettuale non è chiamato a essere il difensore dei diritti e della giustizia. Il suo compito è quello di mascherare la vera natura della società capitalistica e di schierarsi apertamente con essa nei momenti in cui è in pericolo oppure è in guerra.
Pensare all’intellettuale come un “libero pensatore” capace di esprimere la sua critica personale, i suoi valori e ideali in ogni momento storico e nella vita quotidiana vuol dire non aver capito la funzione dell’intellettuale nel nostro tempo. Ecco perché ragionare sulla mobilitazione di scienziati, scrittori e artisti nell’agosto del ’14 è importante e ancora oggi attuale.