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L’Italia del Piave. L’ultimo anno della Grande Guerra

L’Italia del Piave
L’ultimo anno della Grande Guerra

La mia relazione prende in considerazione il periodo storico che va da Caporetto a Vittorio Veneto, esattamente un anno: dal 24 ottobre del ’17 al 24 ottobre del ’18 quando inizia la cosiddetta offensiva di Vittorio Veneto che porta poi alla “vittoria” del 4 novembre.
Vedremo sommariamente le cause di Caporetto, l’Italia ancorata al Piave per un intero anno con particolare riferimento a quello che accadde nel Veneto e nel Friuli occupati e poi il mito di Vittorio Veneto.

1917. L’anno tragico della guerra
Cominciamo a tracciare il quadro del 1917, sicuramente l’anno più tragico della guerra.
La guerra per l’Italia è iniziata nel lontano maggio del ’15 e ancora dopo due anni non si vede la fine. Il Paese è stremato: la fame, l’avvilimento, un cupo pessimismo e un forte sentimento di ribellione (Torino, 22-26 agosto ’17; scioperi nelle fabbriche militarizzate) percorrono l’Italia da un capo all’altro mentre in trincea i soldati contano le perdite nei propri reparti ad ogni offensiva voluta da Cadorna.
Fino a Caporetto sono undici le “spallate” lungo l’Isonzo (da Gorizia al mare) con acquisti territoriali minimi e perdite ingentissime. Il fronte in alcuni punti è avanzato di soli 20 km rispetto al 24 maggio del ’15 al prezzo di 400mila morti più i feriti, gli ammalati, i mutilati, i prigionieri…. In totale in questo momento sono 680mila!
I soldati ormai sono convinti che la guerra continuerà ancora a lungo e il momento della loro morte è sempre più vicino.
Cadorna non sa andare al di là degli attacchi frontali perché è convinto che non ci sia modo migliore di combattere: gli attacchi reiterati devono prima o poi provocare lo sfondamento del fronte in qualche punto e finalmente aprire ampi margini alla guerra di movimento!

Caporetto, nuovo modo di combattere
Ma c’erano generali che non volevano combattere in questo modo che esponeva i propri reparti a perdite immani: sono i tedeschi i quali stanno mettendo a punto un nuovo modo di combattere sul campo di battaglia che si basa su elementi nuovi:

– individuare una falla nello schieramento nemico e sfondare grazie alla superiorità numerica. A Caporetto gli austro-tedeschi hanno 15 divisioni contro 7 italiane (!)
– sorprendere il nemico con azioni in profondità sviluppate da reparti d’assalto ben armati e supportati nella loro avanzata (“sorpresa strategica”)
– dopo lo sfondamento del nemico l’obiettivo diventa andare avanti fino a raggiungere le retrovie e mettere in crisi tutto lo schieramento (avanzare rapidamente come una “lama nel burro”)
– inseguire e incalzare il nemico in rotta non preoccupandosi di reparti nemici ancora attardati nelle trincee o in cima alle montagne

A Caporetto in quel 24 ottobre del ’17 tutto va per il meglio, complice la perfetta azione militare, e l’esercito italiano si ritrova dopo 15 giorni al Piave dopo aver temuto di perdere tutto e di trovarsi fuori dalla guerra.
Cadorna parlò di “sciopero militare”, dando la colpa ai soli soldati che si erano arresi con troppa facilità di fronte al nemico. In realtà le cose non stanno così.
Caporetto mette a nudo i limiti delle concezioni strategiche di Cadorna e del suo entourage incapaci di prevedere l’offensiva nemica, la novità strategica e di porre un argine nei giorni successivi.

Le vittime di Caporetto
In ogni caso Caporetto fu una tragedia:

– 11mila morti
– 300mila prigionieri (gli “imboscati d’oltr’Alpe”)
– 350mila sbandati (tutti o quasi della II Armata del generale Capello)
– perdita di immani quantità di armi e vettovagliamento (3150 cannoni, 1700 bombarde, 3000 mitragliatrici, interi magazzini)
– su 65 divisioni ne rimangono in piena efficienza 33. Gli austro-tedeschi ora hanno 50 divisioni e 4500 cannoni
– perdita di tutto il Friuli e di buona parte del Veneto
– forti timori che l’Italia fosse costretta a uscire dal conflitto con gli austro-tedeschi a Verona (Venezia) o Milano

Le cose non andarono così ma la paura tra i vertici dell’esercito e i politici di Roma fu grande. Paura di pagare la sconfitta con un rivolgimento sociale sul modello della rivoluzione comunista che stava avvenendo negli stessi giorni in Russia.

Il fronte del Piave
Dopo 15 giorni dal quel 24 ottobre l’esercito italiano si ritrovò al Piave e da lì iniziò un altro tipo di guerra:

– un fronte più corto di 300 km
– ora la guerra è difensiva (ai soldati si dice che devono difendere le loro case dal “barbaro invasor”)
– Diaz evita le precedenti sanguinose offensive e migliora le condizioni di vita dei soldati
– Gli austro-tedeschi perdono in lucidità e vanno incontro, a parti invertite, alla stessa guerra italiana: assalti inutili e perdite gravi
– In ogni caso gli austro-tedeschi lungo tutto il Piave hanno 30 divisioni mentre l’Italia solo 11

Il dramma dei profughi friulani e veneti
Nei giorni di Caporetto si consuma anche il dramma delle popolazioni del Friuli e del Veneto invasi che lasciano in massa le proprie case perché si teme giustamente l’”ira teutonica”: ossia le violenze sulla popolazione.
Caporetto è anche questo: masse di soldati sbandati che indietreggiano affannosamente su poche strade e masse di civili con le poche proprie cose che cercano di farsi largo in questa massa disordinata che cerca una via di fuga.

Secondo buone ricerche effettuate nelle province invase (Udine, Belluno; Treviso, Vicenza e Venezia in parte) fuggì il 25% della popolazione locale da poco più di 300 comuni. In totale furono 632mila persone i profughi, dai neonati ai vecchi in grado di muoversi.
Rimase la parte povera e vecchia della popolazione, coloro che anche mentalmente non erano preparati a partire lasciando tutto.
In ogni caso questa vicenda mostra che i più ricchi furono i primi a fuggire (anche perché avevano mezzi per farlo: cavalli, calessi, denaro, aderenze in altre città …) mentre i più poveri, abbandonati da tutti, dovettero subire per un intero anno le violenze dei conquistatori che si espressero con:

– strupri di massa, soprattutto nelle prime settimane (il dramma dei “figli del nemico”)
– saccheggio sistematico delle case
– fame indotta dalle autorità che sequestravano tutto
– mancanza di medici e cure mediche

La fuga dei civili è aggravata dal fatto che tutta o quasi la classe dirigente locale è la prima a fuggire (sindaci, assessori, autorità militari, parte ricca della popolazione, talvolta sacerdoti… ) mentre nelle città erano affissi manifesti in cui si invitava la popolazione a rimanere calma e a non dar retta alle tante voci malevoli.

Tutto ciò è una brutta pagina nella storia di queste genti:

– l’esercito italiano che avrebbe dovuto difendere la popolazione debole abbandona i civili al loro destino
– la classe dirigente locale che avrebbe dovuto dare direttive precise ai propri concittadini è la prima a squagliarsela (“Caporetto interna”)

I primi a compiere violenze sui civili furono i soldati italiani sbandati i quali entravano nelle case e saccheggiavano quello che trovavano. Subito dopo arrivarono gli austro-tedeschi e soprattutto nelle prime settimane ci fu la licenza di rubare, violentare le donne e uccidere.
Poi i rapporti tra autorità austriache e civili nel Veneto e nel Friuli invasi si “normalizzarono” ma le condizioni di vita della popolazione furono sempre al di sotto dei minimi tollerabili perché le autorità militari trassero dai territori invasi Il dramma delle popolazioni al di qua e al di là del Piave.
Ugualmente tragica fu la sorte delle popolazioni che vivevano al di qua e al di là del Piave costrette a sgombrare le proprie case e mandate nelle “case di legno” nell’impero asburgico (campi profughi) e in tutta l’Italia fino alla Sicilia nella condizione di profughi che avevano perso tutto.
E’ inutile dire che i profughi del Friuli, del Veneto e del Piave in Italia furono trattati come in genere si trattano persone che vengono da lontano, che mangiano il poco pane rimasto, che portano via il lavoro agli abitanti delle zone d’insediamento. Insomma due Italie, che mai prima d’ora si erano incontrate e si incontrano nel momento sbagliato.

Arrivano i “ragazzi del ‘99”
Nel frattempo la difesa strenua lungo il Piave è alimentata anche dai”ragazzi del ‘99” il cui sacrificio diventò subito un mito. Furono circa 263mila i giovani che in quello scorcio del ’17 avevano 18 anni e vennero utilizzati fino alla fine della guerra.
Esempio di eroismo, di virtù guerriere, di abnegazione, di “amor patrio”… (potremmo continuare), in realtà l’Italia aveva bisogno di miti per sollevare il morale della nazione in un momento difficilissimo.
Non si vuole negare (per carità) che i “ragazzi del ‘99” non combattero con lo slancio di cui narra la leggenda. Dopo cento anni sarebbe però il caso di mettere in evidenza quanto barbara diventò la guerra se le autorità militari e il governo dell’epoca non ebbero dubbi a mandare al massacro giovani che fino a poco tempo prima stavano sui banchi di scuola o giocavano all’oratorio con i coetani!
Intanto grazie a queste forze fresche gli austro-tedeschi sono fermati alla cosiddetta “battaglia d’arresto” (si conclude il 26 novembre ‘17) e poi respinti in dicembre quando tentarono di sfondare lungo la dorsale del Monte Grappa per prendere alle spalle le truppe ancorate alla riva sinistra del Piave.

Se la leggenda nera di Caporetto, ossia che il disastro militare era da imputare al pessimo esempio dei soldati, valga come esempio questa citazione:

“Chi ha tradito?”
Mentre l’esercito è ancorato con i denti dal Grappa al mare nasce in Italia un furibondo dibattito sulle cause della rotta di Caporetto, subito avvertita come immane disastro non solo militare ma capace di rimettere in discussione tutta la precedente storia italiana.
Accanto a Cadorna che ancora strepitava dando la colpa ai soldati e ai politici che non erano stati capaci di impedire che l’esercito fosse “avvelenato dalla propaganda sovversiva” (socialisti e cattolici), nasce un acceso dibattito in Italia che vede protagonisti politici, scrittori e giornalisti.

In sintesi:
– alcuni danno la colpa alla debole nazionalizzazione degli italiani dopo solo 50 anni di vita unitaria, es. Nitti, Salvemini. Per questi esponenti politici Caporetto è la cartina di tornasole della debolezza del carattere degli italiani lasciati soli senza educazione patriottica, senza che alcuno instillasse in loro un po’ di amore di patria
– altri cercano i “nemici interni” (coloro che fanno la “guerra contro l’Italia”) evocando a guerra finita salutari plotoni di esecuzione, come Piero Calamandrei, allora acceso nazionalista
– altri puntano il dito sulla debolezza della classe dirigente, impari rispetto alla gravità della situazione. Insomma una classe dirigente incapace dall’Unità in avanti
– per altri l’”Italia è tutta da rifare”, sono gli apocalittici, tra cui Prezzolini
– tra gli apocalittici c’è Ardengo Soffici, interventista nel ’15. Da notare che queste affermazioni e stati d’animo confluiranno poi nel nascente fascismo impegnato da subito a estirpare la “malapianta” di Caporetto

Tutte queste voci, seppure diverse politicamente, erano concordi su un punto solo: bisognava rifare l’Italia dalla “vergogna di Caporetto”, espressione della “vecchia decrepita Italia” (B. Croce): tutti invocano una nuova classe dirigente e un “Italia forte e consapevole dei propri destini”. Si stava preparando lo stato d’animo che fece nascere il fascismo e poi la Marcia su Roma! Anche il fascismo è un’eredità della Grande Guerra.

La “Battaglia del Solstizio” / L’”offensiva della fame”
La cosiddetta “Battaglia del Solstizio” è il “canto del cigno” del morente impero austro-ungarico. Fu l’ultimo sforzo della monarchia di Carlo I per rimanere al governo di un impero nel quale le spinte nazionaliste già diventavano preoccupanti: sloveni, croati, polacchi, rumeni, cecoslovacchi, ungheresi già guardavano al futuro e vedevano la propria patria libera e indipendente.
Quindi la monarchia asburgica gioca una partita percolosa a partire dal 15 giugno da Asiago al mare: se vince e butta l’Italia fuori dalla guerra può sopravvivere, se perde il destino dell’impero è segnato!
Da notare che fino alla fine (offensiva di Vittorio Veneto) la fedeltà all’imperatore non verrà meno da parte di truppe che stavano sicuramente peggio rispetto agli italiani.
L’offensiva austro-ungarica è poderosa da Asiago al Grappa e poi più giù lungo il Piave con il Montello come punto strategico. I soldati dell’impero credono fortemente nella vittoria ma dall’altra parte trovano un esercito ben organizzato posto sulla difensiva da Diaz.
Gli austro-ungarici hanno 58 divisioni, gli italiani 57 di cui 5 franco-britanniche e con un’artiglieria di poco inferiore. E poi i comandanti asburgici commettono lo stesso errore a lungo rimproverato a Cadorna: invece di individuare un punto debole e sfondare (Caporetto!), si combatte da Asiago al mare! Disperdendo così le forze.
Dall’altra parte i comandanti italiani hanno imparato bene la lezione di Caporetto. L’esercito di Diaz non commette errori in questo frangente, per esempio le riserve sono perfino eccessive numericamente e pronte ad intervenire tempestivamente.
Nonostante qualche sfondamento gli austriaci già dopo un paio di giorni sono ricacciati sulle posizioni di partenza. Dopo 10 giorni i combattimenti sono conclusi.
L’impero asburgico ha i giorni contati. L’”offensiva della fame” si è conclusa con una tragica sconfitta che abbatte il morale dei combattenti e di un intero paese stremato dalla guerra (blocco navale=fame generalizzata=sconfitta).

Vittorio Veneto
E dopo esattamente un anno venne il turno dell’Italia di riprendere il territorio perso un anno prima ma nel frattempo le spinte nazionaliste si erano fatte sempre più forti nell’impero ormai in rapidissima disgregazione. Infatti quando la spinta italiana si fece più forte (dal 28 ottobre ’18) molti reparti nemici si ammutinarono, disertarono e abbandonarono le trincee, spesso senza combattere, per tornare il più rapidamente possibile nelle rispettive patrie dove stavano accadendo rivolgimenti rivoluzionari.
Da una parte abbiamo un’abile manovra condotta da uno dei pochi generali italiani che non è uscito con le ossa rotte dalla guerra: il generale Caviglia verso Vittorio Veneto, dall’altra un esercito che lascia in molti settori campo libero agli italiani abbandonando le armi oppure reparti arretrati che si rifiutano di entrare in linea.
Infatti dal 24 al 27 ottobre sera la situazione per gli italiani è molto difficile. Il Piave in piena impedisce il passaggio e nei pochi punti in cui si creano “teste di ponte” è imminente la controffensiva austriaca. Sul Grappa non solo non si avanza ma c’è il rischio di perdere posizioni fondamentali. Dalla sera del 27 invece si moltiplicano i casi di ribellione fra le truppe di rincalzo e di seconda linea. Sul Grappa su 51 reggimenti 11 si rifiutano di marciare e 3 sono infidi.
I vari contingenti nazionali abbandonano le armi per tornare a casa e difendere il proprio paese, es. gli ungherei sono preoccupati dai serbi che minacciano il confine con l’Ungheria.
Così quando Caviglia raggiunge Vittorio Veneto la sera del 29 ottobre trova davanti a sé forze sempre più deboli per parare il colpo. Nella notte del 31 c’è il tracollo definitivo anche perché gli italiani minacciano ampi accerchiamenti.
Il 1 novembre l’esercito è in pieno sfacelo e il 3 novembre in una vera corsa contro il tempo reparti italiani giungono a Trieste e Trento.
L’armistizio è fissato per le ore 3 del pomeriggio del 4 novembre per permettere la riconquista più ampia possibile di quanto perso un anno prima.
Al tavolo della pace l’Italia non poteva presentarsi con la firma dell’armistizio che lasciava in mani nemiche porzioni di territorio patrio. C’era il rischio che i rappresentanti italiani fossero trattati con quella sufficienza che avrebbe impedito di far valere il Patto di Londra.

Quindi Vittorio Veneto fu vera gloria?
Il fascismo fece dell’ultima battaglia la grande Vittoria italiana che vendica Caporetto e mostra l’eccellenza dei comandi, dei soldati e dell’intero Paese. Con gli anni Vittorio Veneto (anche a causa del nome altisonante della cittadina) divenne il simbolo della Vittoria italiana e della “Caporetto austriaca”.

Oggi dopo cento anni dobbiamo sfrondare il mito e vedere la battaglia per quello che effettivamente è stata: un’abile e coraggiosa manovra italiana (quasi fuori tempo massimo) aiutata fortemente da un esercito che non voleva più combattere.

La ritirata dal Piave costò molto agli austro-ungarici (per l’ultima volta insieme): perdita di grandi quantità di materiale bellico, migliaia di morti, 300mila prigionieri (molti non riuscirono a tornare in patria), episodi di ferocia della cavalleria italiana verso i reparti in fuga (spesso senz’armi), vendette da parte dei civili italiani nelle zone occupate.

Da notare che la guerra terminò il 4 novembre ma poteva terminare qualche giorno prima quando l’Austria-Ungheria chiese l’armistizio. Il governo italiano presieduto da V. E. Orlando decise invece di far proseguire la guerra fino al momento in cui gli italiani rioccuparono interamente le zone perse un anno prima.
L’Italia non poteva presentarsi al tavolo della Pace con zone del proprio territorio che non erano state liberate. Ne andava del prestigio della nazione! E’ inutile dire che se la guerra fosse terminata qualche giorno prima molte vite sarebbero state risparmiate.

Nell’Italia pavesata a festa per la “Vittoria” molti non avevano motivo di festeggiare: i soldati che tornavano a casa con il contagocce nel corso del ’19 dopo 42 mesi di guerra, i feriti gravi, le centinaia di migliaia di mutilati, i soldati traumatizzati dalla guerra, le tante famiglie dove c’era stato un lutto… e i profughi friulani e veneti che trovarono regioni distrutte, campi devastati, case saccheggiate e un’orribile miseria.

Festeggiavano invece gli imboscati, coloro che non avevano fatto la guerra, i figli di papà che avevano evitato la “cartolina precetto” oppure avevano fatto la guerra nelle retrovie, i “pescecani” che si erano arricchiti con le forniture militari, i tanti industriali e banchieri che ora si aspettavano lauti guadagni dalla terre “redente”, dal Trentino-Alto Adige a Trieste e l’Istria.

Verrebbe da dire: la solita eterna Italia!