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Storia degli Alpini

Storia degli alpini

Baita degli alpini di S. Vittore Olona – 25 ottobre ’19

appunti per conferenza

La mia relazione si basa in gran parte su un bellissimo testo di Gianni Oliva: “Storia degli Alpini” pubblicato nel 2001.

Potrei iniziare con una frase molto diffusa nel mondo degli alpini (che voi ben conoscete): “Bersaglieri o fanti lo si è per diciotto o dodici mesi di naia. Alpini lo si rimane sempre”.

Perché parlare della storia degli alpini? Tre buone risposte.

Perché ha attraversato la storia dell’Italia nel corso di circa 150 anni, perché è presente e viva nella nostra memoria la tragedia della I e II guerra mondiale, perché gli alpini oggi sono una gran bella realtà.

Le origini

Il punto di partenza della nostra storia è il 1871 quando il capitano di Stato Maggiore Giuseppe Domenico Perrucchetti (appassionato di montagna e studioso delle precedenti operazioni militari condotte su terreni alpini) scrive un testo destinato ai suoi superiori dal titolo: “Considerazioni su la difesa di alcuni valichi alpini e proposta di un ordinamento militare territoriale della zona alpina” in cui cerca di mostrare tutta l’utilità di un corpo specializzato capace di difendere i varchi alpini lungo tutto l’arco montano dalla Liguria al Friuli.

Per capire la novità del testo dobbiamo considerare che fino a quel momento nessuno aveva ipotizzato la possibilità di portare uomini a combattere o a permanere per mesi a 2000-3000 metri per l’impossibilità di mantenere nel tempo presidi di molti uomini, soprattutto durante i lunghi mesi invernali.

L’Italia si difende sul Po”: questa era la convinzione degli alti comandi dell’esercito in caso di guerra contro la Francia, la Germania o l’Impero austro-ungarico. L’idea era quindi di far avanzare le truppe nemiche senza ostacoli fino alla Pianura Padana e lì creare le condizioni per una vincente battaglia d’arresto.

L’idea di Perrucchetti è invece diversa: reparti specializzati e fortemente capaci di agire nel territorio che conoscono a menadito possono rallentare l’invasione nemica dando tempo al resto dell’esercito di posizionarsi nel modo più efficace.

Condizione irrinunciabile, scrive Perrucchetti, è che gli uomini vengano dalle stesse vallate che poi dovranno difendere, uomini duri, capaci di agire in un ambiente difficile e pericoloso.

L’esercito italiano dopo l’Unità

Per capire meglio la proposta di Perrucchetti dobbiamo sapere che con l’Unità italiana (marzo 1861) venne introdotto il modello piemontese nell’organizzazione militare (ferma obbligatoria di due o tre anni e sorteggio dei coscritti con possibilità di pagare per non svolgere il servizio militare). Ma soprattutto prevedeva che in sostanza i meridionali fossero trasferiti al nord mentre i settentrionali al sud.

Perchè? In caso di rivolta popolare nel sud (il brigantaggio per esempio, 1861-1865), i militari settentrionali non avrebbero solidarizzato con i rivoltosi, anzi avrebbero sparato loro contro (come nei fatti avvenne). In un altro contesto potremmo citare l’esempio famoso della rivolta operaia a Torino (agosto del ’17) repressa dai fanti della Brigata Sassari (erano quasi tutti sardi).

Il sistema di reclutamento italiano era poi estremamente lento perché prevedeva che coscritti di due regioni diverse dovessero trovarsi in una terza regione. Esempio un reggimento era formato da calabresi e lombardi e il punto di raccolta era Roma. Tutto questo allungava i tempi, soprattutto nel caso di una rapida mobilitazione a difesa dei confini.

A maggior ragione aveva ragione Perrucchetti nell’idea strategica di difendere le Alpi e permettere all’esercito di essere pronto al momento giusto per sbarrare la strada al nemico.

La prima risposta al suo progetto non fu certo positiva: il suo diretto superiore scrisse che “col vostro sistema non potrete ottenere sufficiente disciplina; avrete delle compagnie di contrabbandieri, non di soldati”.

Il suo progetto fu invece particolarmente apprezzato dal ministro della Guerra, generale Ricotti, anche lui appassionato di montagna e fondatore con Quintino Sella del Club Alpino Italiano a Torino nel 1864. Ricotti si prodigò per la sua realizzazione che avvenne con decreto costitutivo il 15 ottobre del 1872.

Quindi a ragione Perrucchetti (idea), Ricotti (aspetti politici e burocratici) sono i due “inventori” del corpo degli alpini.

Una curiosità: chi inventò il nome Alpini? Perrucchetti aveva proposto “bersaglieri delle Alpi” stante il prestigio che aveva allora questo corpo (Breccia di Porta Pia, 1870, bersaglieri di Raffaele Cadorna). Ricotti che invece non amava più di tanto i bersaglieri e credeva nell’originalità degli alpini, li chiamò “Compagnie alpine” da cui Alpini.

All’inizio ci furono problemi perché la divisa era la stessa della fanteria: soprattutto il lungo cappotto e le scarpe basse creavano problemi durante le ascensioni e il gelo. Ma già due anni dopo il cappotto era sostituito da una giubba di color grigio azzurro scuro e sulla giubba una mantellina. Le scarpe basse erano sostituite da scarponi alti (come quelli dei montanari). L’elemento caratterizzante era fin dall’inizio il cappello alla calabrese con la penna nera: una penna d’aquila per gli ufficiali e di corvo per la truppa. Il fucile, dopo il Wetterli 1870, fu il “Modello 1891” e tale rimase fin alla fine della II guerra mondiale.

Nel frattempo nel corso degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento si definivano meglio le caratteristiche operative del nuovo corpo:

  • reclutamento locale
  • formazione di piccoli gruppi operativi capaci di agire in un territorio ben conosciuto
  • autonomia operativa dei piccoli reparti
  • forte valorizzazione degli uomini
  • ufficiali reclutati nelle stesse zone dei soldati
  • ufficiali capaci di condividere le durezze della vita militare accanto ai loro uomini
  • fraternizzazione nel corpo tra gli stessi soldati e tra i soldati e gli ufficiali (mensa in comune alla prussiana)
  • forte caratterizzazione del corpo degli alpini in concorrenza con altre armi

Dall’altra parte alcune relazioni evidenziavano dei difetti:

– “il bere soverchio”

– il fumo esagerato

– la ricerca di facili (e pericolosi) rapporti sessuali

– “il ritardare alla visita serale”

– “il comportarsi con poca deferenza verso i caporali”

Tutte le relazioni invece concordavano sulla impermeabilità alla propaganda socialista e anarchica, con la conseguenza di un forte amore per le proprie valli e per la propria patria.

Il forte radicamento del cattolicesimo, la lontananza dalla “malsana civiltà urbana”, facevano dell’alpino un uomo di forza superiore, di coraggio indomito, capace di sacrifici epici e non influenzabile sul piano politico.

In un’Italia che aveva bisogno di miti (ultimi decenni dell’Ottocento) soprattutto per nascondere i problemi quotidiani, nacque il mito degli alpini che continua fino ad oggi.

Ne troviamo un’eco in “Cuore” di De Amicis: “Mentre i soldati del Genio ancora sfilavano, si vedea venire innanzi, dietro di loro, centinaia di lunghe penne dritte, che sorpassavano le teste degli spettatori: erano gli alpini, i difensori delle porte d’Italia, tutti alti, rosei e forti, coi cappelli alla calabrese e le mostrine di un bel verde vivo, color dell’erba delle loro montagne”.

In molte cartoline dell’epoca (e poi durante la Grande Guerra) si vedevano gli alpini ritti in cima a erte rocce e sopra grandi strapiombi con lo sguardo sereno di chi non ha paura e vuole difendere quelle valli come confermano alcuni motti nati allora: “Di qui non si passa”; “Le vedette dei culmini”; “Vigilantes”.

La leggenda del corpo degli alpini nella canzone “Bersagliere ha cento penne”

Adua, 1896

Il vero battesimo del fuoco per gli alpini fu amaro perché coincise con una delle più brucianti sconfitte dell’esercito italiano: Adua (Etiopia), 1 marzo del 1896.

Non è possibile qui analizzare il contesto storico in cui nacque la campagna d’Africa volta alla conquista dell’intera Etiopia. Possiamo dire però che i soldati morti ad Adua furono vittime dll’avventurismo dei politici (Crispi) e dalla dabbenaggine dei militari (generale Barattieri e i suoi collaboratori).

Una campagna preparata male e condotta peggio causò circa 5000 vittime (tra cui molti alpini) e la fine per molti decenni di ogni ambizione italiana nel Corno d’Africa.

Libia, 1911-12

Stessi problemi di approssimazione politico-militare per la campagna di Libia promossa dall’Italia liberale al tempo di Giolitti (1911). L’”Italia proletaria” aveva bisogno di terre da colonizzare, in realtà la Libia sarebbe stata molto avara di terre da lavorare e questo per la quasi totale mancanza di acqua nel sottosuolo.

La conquista della Libia avrebbe invece proiettato l’Italia tra le nazioni più forti in Europa e spento le proteste che agitavano le piazze e le campagne a causa della fame e dei bassi salari nelle fabbriche.

Ci volle un anno per conquistare solo la costa libica mentre l’interno rimaneva saldamente nelle mani dei turchi e della resistenza araba. Nell’ottobre del 1912 si arrivò alla pace con l’impero ottomano e al precario possesso della Tripolitania e Cirenaica. 3500 il numero delle vittime e tra di loro molti alpini utilizzati non come reparti autonomi ma aggregati a reparti di fanteria.

Grande Guerra

La leggenda degli alpini si amplia con la Grande Guerra in cui i reparti alpini si coprirono di gloria da un lato a prezzo però di un numero immane di vittime.

Sono almeno quattro i teatri di guerra in cui gli alpini si distinsero rispetto ad altri reparti: Monte Nero, Ortigara, Adamello e Monte Grappa.

Anche qui non c’è tempo per discutere della strategia di Cadorna: “Attacco frontale e ammaestramento tattico” e neppure delle cause per cui l’Italia entrò in guerra. Qualcosa però possiamo dire.

  • L’Italia non entrò in guerra solamente per Trento e Trieste (vedere le richieste italiane nel Patto di Londra, aprile 1915)
  • Gli storici sono unanimi nel dire che la strategia cadorniana dell’attacco frontale fu deleteria

Sappiamo, seppure in modo imperfetto, il numero degli alpini mobilitati nei tre anni di guerra: 80mila. Molto difficile indicare le vittime perché gli alpini erano all’interno di divisioni con molti altri reparti. Sappiamo però il numero complessivo delle vittime nell’esercito italiano: 1/7. Quindi poco più di 10mila uomini (cifra minima).

E’ molto bello ciò che scrisse Cesare Battisti, volontario alpino, impiccato a Trento nel ’16 a proposito dello spirito degli alpini: pp. 106-107

Monte Nero

La guerra era appena iniziata quando gli alpini entrarono subito nell’immaginario collettivo con la conquista del Monte Nero (16 giugno ’15). Il Monte Nero è un poco più avanti di Caporetto. La conquista era essenziale per il raggiungimento della linea dell’Isonzo.

Sarebbe stato compito della IV armata guidata dal generale Mario Nicolis di Robilant occupare rapidamente il Monte Nero subito dopo il 24 maggio. Non fu così e si persero giorni in attesa che gli alti comandi decidessero che cosa fare. Quando finalmente gli alpini si mossero la cima era presidiata da forti contingenti austro-ungarici.

Dopo ripetuti tentativi di aggredire la vetta finalmente con un’ardita scalata nel cuore della notte gli austriaci furono colti di sorpresa (16 giugno).

La canzone “Montenero” testimonia più il dolore per le vittime che la gioia per il successo di una difficile operazione.

Montenero, canzone

La guerra sul ghiaccio: la conquista del Corno di Cavento (16 giugno ’17)

L’Adamello con l’Ortles e la Marmolada ci porta all’interno di quella che fu chiamata “guerra bianca”.

Gli alpini furono protagonisti sia nei combattimenti ma soprattutto per i terribili sacrifici per mantere in quota reparti armati che più che il nemico dovevano sfidare ogni giorno la natura: temperature bassissime, rischio di valanghe, alta probabilità di incidenti o malattie, gravi difficoltà negli approvvigionamenti alimentari.

Da notare che prima della guerra anche i migliori esperti europei di guerra di montagna avevano escluso la possibilità di alimentare la guerra al di sopra dei 3000 metri.

L’operazione per il controllo del Corno di Cavento era molto importante per il controllo della Valsugana.

L’operazione condotta in quel 16 giugno ’17 fu un vero capolavoro di maestria e arditezza: in pieno giorno alcune compagnie di sciatori dovevano attaccare frontamente. Appena visti furono sottoposti a un notevole fuoco. Tutto ciò distrasse i nemici i quali non si avvidero di due cordate che attaccavano sul versante nord e ovest del corno.

Nove alpini caduti. Numeri incredibilmente esigui rispetto al grande scempio dell’Ortigara.

L’Ortigara o “cimitero degli alpini”

La “spedizione punitiva” voluta dal maresciallo Conrad (maggio del ’16) aveva portato gli austriaci a un passo dallo sbocco sulla pianura vicentina. Un’eventuale avanzata in pianura poteva prendere alle spalle l’esercito di Cadorna attestato sull’Isonzo. Da qui la ferrea volontà di Cadorna di riconquistare l’area dell’Ortigara e spingere indietro il nemico su posizioni non atte per un nuovo attacco in profondità.

Il problema è che nel ’16 (subito dopo l’avanzata austriaca) si poteva tentare la riconquista mentre un anno dopo gli austro-ungarici avevano avuto tutto il tempo per apprestare tutta una serie di difese impenetrabili perché defilate o in caverna. E poi la conquista dell’Ortigara da sola non sarebbe servita a niente: i reparti nemici dovevano essere respinti molto indietro altrimenti non ne valeva la pena.

Con queste premesse non certo incoraggianti Cadorna il 10 giugno ’17 ammassò in pochi chilometri 150mila uomini (i grandi ammassi di uomini favorivano alte perdite). Insomma, una specie di attacco disperato alla baionetta a 2100 metri.

Complici pessime condizioni climatiche (nebbie) che non favorirono il tiro delle artiglierie i soldati sbucarono dal fondo del Vallone dell’Agnellizza e puntarono alla cima dell’Ortigara accolti dal fuoco di fila degli austro-ungarici i quali sparavano su linee di tiro studiate in precedenza anche se non vedevano il nemico italiano avanzare. Il risultato furono perdite spaventose mentre gli obiettivi dell’azione militare erano molto lontani.

Ma ciò che distingue l’Ortigara rispetto ad altri momenti della guerra italiana fu l’inflessibilità prima di Cadorna e poi di Montuori di volere a tutti i costi una vittoria sempre più lontana e impossibile. E così anche l’11 giugno fu un giorno tragico per gli assalitori complici anche pessime condizioni atmosferiche.

Il 18 giugno a sorpresa la cima fu conquistata dagli alpini ma dall’Ortigara era fondamentale sciamare verso altre vette respingendo indietro gli austriaci. Questo non accadde non certamente per l’imperizia degli alpini o la mancanza di coraggio. A questo punto, con la sola Ortigara italiana, sarebbe stato importante ritirarsi su posizioni forti, invece Mambretti (contro ogni logica) lasciò sulla cima nuda alcuni reparti sotto il fuoco tambureggiante del nemico (non c’erano ripari) con gravi difficoltà a portare agli alpini il necessario per sopravvivere.

A sorpresa reparti austriaci perfettamente armati (lanciafiamme e bombe a mano) il 25 giugno di notte riconquistarono la vetta mostrando ai comandi italiani come si doveva fare: fuoco tambureggiante sulle linee italiane mentre i reparti avanzavano. Attacco a sorpresa con un uragano di fuoco e fiamme.

L’unica cosa da fare era ritornare alle linee di partenza invece arrivarono ordini di contrattaccare con reparti già provati e decimati. Alla fine altri morti inutili.

Le operazioni ebbero fine solo tra il 29 e 30 giugno quando un’altra rapida avanzata austriaca ricacciò alle posizioni di partenza gli italiani.

Alla fine avremo 23mila perdite complessive (morti, feriti, dispersi, prigionieri). Tra gli alpini le perdite furono circa 16mila.

Cadorna parlò del diminuito spirito bellico delle truppe favorito dalla propaganda disfattista di fronte alla quale il governo non faceva nulla. In realtà erano errori militari dovuti a notevole insipienza aggravati da una dottrina di impiego delle truppe che era obsoleta rispetto ad altri comandi europei.

Ma il bello è che neppure dopo la fine della guerra l’Ortigara e Caporetto (attacco in profondità) suscitarono tra militari e politici quel dibattito che ci saremmo aspettati volto a svecchiare l’esercito.

Viene il dubbio che la leggenda degli alpini, al di là dei giusti meriti acquisiti combattendo, sia stata spesso tenuta alta dai comandi militari per evitare di fare i conti con le loro deficienze.

Il fascismo

Durante il fascismo non venne attuata nessuna politica di modernizzazione delle forze armate. Il mito della Vittoria ed esigenze di bilancio e in più la facile ricerca del consenso tra le masse della piccola borghesia italiana spinsero per trascurare la fabbricazione di potenti carri armati. Di conseguenza anche le armi controcarro non furono valorizzate (si vedranno gli effetti in Africa e Russia). Il Modello 91 subì pochissime variazioni rispetto alla Grande Guerra. Fu trascurata anche la motorizzazione di truppe e servizi. E mancò sempre una dottrina per l’impiego di esercito, marina ed aeronautica (!).

La Marina sviluppò potenti corazzate ma prive della difesa aerea. L’aeronautica cercò più iniziative pubblicitarie (trasvolate di Balbo) che una reale modernizzazione del parco-aerei. Anche la difesa aerea (contraerea) ebbe pochi fondi. L’esercito non fece tesoro dei limiti tattico-strategici emersi più volte nella Grande Guerra. In più le forze armate erano gravate da burocrazia e da un numero esorbitante di ufficiali. Mussolini in sostanza cercava più la facciata propagandistica rispetto all’efficienza.

Il corpo degli alpini durante il fascismo venne dilatato dando un’impostazione offensiva e non solo di presidio delle frontiere. Tutto ciò provocò un annacquamento della preparazione dei reparti e una scarsa mobilità degli stessi, come si vedrà con l’esperienza della Campagna di Francia (giugno ’40).

Nacque però la Scuola militare di Alpinismo con sede ad Aosta nel ’34. Fino all’inizio della guerra compì imprese alpinistiche di notevole valore (Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa…).

La guerra d’Etiopia

Nata per far uscire l’Italia dal cono d’ombra della crisi del ’29, la campagna vide un poderoso spiegamento di uomini e mezzi contro un esercito chiaramente inferiore. Mussolini conosceva bene i rischi di una nuova Adua.

Sette mesi furono sufficienti al duo Badoglio-Graziani per arrivare ad Addis Abeba. L’uso di aggressivi chimici facilitò la conquista.

Gli alpini furono presenti in tutte le battaglie più importanti. Alla fine avremo 250 morti per ferite e malattie.

Seconda guerra mondiale

Alla vigilia della seconda guerra mondiale era chiaro che l’esercito italiano non avrebbe potuto “scendere in campo” con pieno successo. Le croniche carenze nell’ammodernamento e il logorio nelle guerre di Spagna ed Etiopia rendevano debole l’intero apparato.

La mancanza di materie prime e la debolezza dell’industria italiana facevano il resto.

Cavallero, capo di Stato Maggiore, riteneva che solo nel 1943 l’esercito avrebbe potuto essere utilizzabile al meglio. Furono gli strabilianti successi delle armate di Hitler in Francia (maggio-giugno ’40) a far propendere per l’intervento dell’Italia (10 giugno).

La dichiarazione di guerra alla Francia andava nella direzione della “guerra parallela”. Durò fino al disastro in Grecia, poi la politica di Mussolini preferì porsi come vassalla a quella di Hitler (campagna di Russia).

Per il contributo di sangue degli alpini sono fondamentali tre momenti:

  • La campagna sulle Alpi occidentali (10-25 giugno ’40)
  • La campagna contro la Grecia (28 ottobre ’40-23 aprile ’41)
  • La campagna di Russia (1941-43)

La campagna di Francia

Invece di puntare su Malta (allora base inglese e facile da conquistare) Mussolini decise di allargare i confini a spese della Francia (Corsica, Nizza, basi nel Mediterraneo). Ciò avvenne con la famosa “pugnalata alle spalle” del 10 giugno ’40 quando la guerra tra Germania e Francia stava per chiudersi con il rientro precipitoso in patria delle truppe inglesi da Dunquerque.

La guerra contro la Francia durò 4-5 giorni: dal 19 giugno al momento dell’armistizio (24 giugno).

La Francia negli anni precedenti aveva rafforzato lungo tutto il confine con l’Italia robuste difese. Contro questi apprestamenti difensivi l’esercito italiano avrebbe avuto bisogno di bombardieri, potenti artiglierie, grandi quantità di cariche esplosive, lanciafiamme.. e soprattutto di una notevole duttilità tattica accanto a una buona organizzazione visto le difficili condizioni di accesso alle vallate alpine e alle cime più alte. Tutto questo mancava e nei pochi giorni di guerra vera e propria emersero gravi problemi di organizzazione e logistica.

Il continuo alternarsi di ordini da parte di Graziani rese ancora più confusa la situazione. Quando venne deciso l’attacco vero e proprio alle postazioni francesi, i reparti che dovevano attaccare erano ancora lontani dal confine e non conoscevano il teatro di operazioni.

Solo alcune truppe alpine conseguirono successi: le divisioni Taurinense e Tridentina in alcuni casi riuscirono a superare gli sbarramenti difensivi e a occupare piccole porzioni di territorio nemico fino all’armistizio del 24 giugno.

L’inclemenza del tempo rese ancora più pesante il sacrificio degli uomini. Alla fine avremo fra gli alpini 250 congelati.

La campagna di Grecia

La campagna nasce tra rivalità e volontà di rivalsa rispetto alla Germania nell’area dei Balcani.

Come al solito la decisione di attaccare venne presa molto vicino alla data effettiva con tutti i problemi che ne potevano derivare. Riunione a Palazzo Venezia il 15 ottobre ‘40. Inizio operazioni 28 ottobre (data cara alla memoria fascista).

Le informazioni giunte a Roma parlavano di un esercito greco che non si sarebbe battuto anche grazie all’opera di corruzione promossa da Ciano tra i gerarchi greci. Visconti Prasca era convinto che sarebbero bastate poche settimane di operazioni prima della vittoria finale.

Non fu così con l’esercito greco ben appostato subito al di là dei confini e dell’inevitabile disorganizzazione dei reparti italiani perché tutto doveva essere portato in Grecia mentre i porti disponibili in Albania per lo sbarco erano pochi e capaci di accogliere poco tonnellaggio. Le pessime condizioni atmosferiche e lo stato delle strade fecero il resto.

Già il 7 novembre è ordinato il ripiegamento perché le truppe greche erano riuscite a passare tra le maglie degli assalitori e minacciavano l’accerchiamento della Julia e del resto dei reparti.

Alla Julia venne dato il compito più gravoso: rallentare l’avanzata greca mentre il resto del corpo di spedizione si ritirava.

La mancanza di rifornimenti, il freddo inclemente, la capacità delle truppe greche di infiltrarsi tra i reparti resero la ritirata della Julia particolarmente difficile.

Entrò nelle leggenda la difesa del Ponte di Perati lungo la Voiussa. Per cinque giorni i reparti della Julia tennero il ponte fino al momento in cui fu inevitabile farlo saltare.

Per molti versi la ritirata della Julia assomigliò a quella successiva dal Don ma è finora mancata una memoria vivace che desse poi all’opinione pubblica l’idea dei sacrifici affrontati. Alla fine la Julia dovette essere quasi del tutto ricostruita a causa dele tantissime perdite.

Ed è in Grecia, prima della Russia, la nascita della leggenda della Julia: p. 185-186

Canzone “Ponte di Perati”

A trarre dai guai le truppe in Grecia fu l’attacco alla Jugoslavia da parte della Germania a partire dal 6 aprile ’41.

Dopo la rapida conquista della Jugoslavia le truppe tedesche arrivarono ad Atene permettendo all’alleato italiano di uscire dalla sacca in Albania e occupare aree del territorio greco (Cefalonia, Zante, Corfù), teatro poi di nuovi gravi lutti.

Le cifre delle perdite della campagna di Grecia furono tali da far impallidire la guerra contro la Francia: 14mila morti, 25mila dispersi, 12mila congelati. E di questi una gran parte erano alpini.

Cecovini, ufficiale degli alpini in Grecia, così la definì nelle sue memorie: “Sporca guerra di rugginosi comandi”.

La campagna di Russia

La decisione del duce di far partecipare reparti italiani alla campagna di Russia, nonostante gli inviti di Hitler a non distogliere truppe dallo scacchiere mediterraneo, ha alcune spiegazioni:

  • avere finalmente un primo successo militare dopo le delusioni precedenti
  • crociata antibolscevica, consona al fascismo
  • la convinzione tedesca di una campagna breve e vittoriosa
  • la concessione dell’area industriale di Stalino (bacino del Don) all’Italia

Nel CSIR (Corpo di spedizione italiano in Russia – dal luglio ’41) non c’erano raparti alpini.

Dopo le delusioni e le perdite della campagna del ’41 fu lo stesso Hitler a chiedere un contributo italiano perché nel 1942 sarebbe cambiata la strategia tedesca: non più l’attacco simultaneo su Leningrado, Mosca e Kiev ma la penetrazione nel Caucaso alla ricerca del petrolio e di un possibile sfondamento verso il Medio Oriente dove Rommel avrebbe dovuto, una volta conquistato l’Egitto, giungere in Irak contemporaneamente alle armate del Caucaso.

Così nacque l’ARMIR (Armata italiana in Russia), ben armata e comandata dal generale Italo Gariboldi, forte di 200mila uomini. Di questi 57mila costituivano il corpo d’armata alpino con le tre divisioni Tridentina, Julia e Cuneense.

Quando gli alpini erano già in marcia verso il Caucaso giunse l’ordine di invertire la marcia per portarsi verso il Don (arrivarono in Russia nel settembre).

E’ inutile dire che le truppe erano scarsamente o malamente equipaggiate sia per difendersi dai rigori del freddo incipiente sia per difendersi dall’armamento delle truppe russe che potevano contare su poderosi carri armati (T 34), artiglieria, mezzi motorizzati, aviazione.

In sostanza l’equipaggiamento di cui disponeva un soldato in partenza per la Russia non era molto diverso rispetto a quello che riceveva un soldato in partenza per l’Africa.

I soldati non disponevano neppure di cappotti con pelliccia mentre gli scarponi chiodati si trasformavano in pattini. Sovietici e tedeschi disponevano di stivali di pelliccia (i valenki) mentre gli scarponi chiodati provocavano terribili bruciori ai piedi.

Gli alpini vennero mandati lungo il Don per proteggere il fianco sinistro dell’esercito tedesco schierato a Stalingrado (VI Armata di von Paulus), ossia impedire uno sfondamento delle forze sovietiche che avrebbero creato una tenaglia imprigionando von Paulus in una grande sacca (come poi è avvenuto).

Cartina Stalingrado, Don e Caucaso

Quello che è accaduto lo sappiamo. Lo sfondamento sovietico avvenne a tappe. A partire dal 19 novembre ’42 sono le truppe rumene a indietreggiare di fronte all’avanzata russa. Ulteriori sfondamenti dalla parte italiana avvennero a dicembre.

Le truppe alpine vennero circondate dal nemico a metà gennaio. Da qui l’ordine di ritirata che arriva in ritardo. Ma la decisione ultima apparteneva ai tedeschi perché le truppe italiane non erano autonome.

Dal 17 al 31 gennaio ’43 decine di migliaia di soldati italiani iniziarono una disastrosa ritirata che è stata ben narrata da testi celeberrimi: “Centomila gavette di ghiaccio” (G. Bedeschi), “Il soldato nella neve” (M. Rigoni Stern), “La strada del Davai” (N. Revelli).

Cartina ritirata

Lettura pag. 207

Perché i tedeschi si ritirarono come gli italiani ma ebbero in confronto poche perdite? All’esercito italiano mancavano i camion oppure quando c’erano mancava addirittura l’olio anticongelante. Quindi di chi è la colpa di quanto accadde?

Superiorità militare sovietica senza dubbio ma anche gravissima disorganizzazione e approssimazione da parte di chi ha voluto questa guerra, cioè il fascismo.

8 settembre e Resistenza

Con l’8 settembre del ’43 l’esperienza degli alpini si mescola con quella degli altri militari: lo sbandamento in conseguenza dell’annuncio dell’armistizio, la cattura da parte dei tedeschi, la trasformazione in IMI con il conseguente internamento nei campi di lavoro nel Reich, la partecipazione alle prime formazioni militari legate alla Resistenza.

Anzi gli alpini furono tra i militari che più contribuirono alla nascente resistenza al nazifascismo con i loro racconti delle tragedie vissute: Grecia e Russia.

Non ci furono reparti alpini veri e propri nella Resistenza ma la partecipazione di alpini nelle varie formazioni lungo le Alpi e l’Appennino è cosa nota.

L’ANA rinacque nella primavera del ’47 con l’obiettivo di aiutare la ricostruzione del Paese provato da tante distruzioni. Nel ’48 l’ANA riprendeva la tradizione delle adunate nazionali (l’ultima nel 1940) e con l’occasione veniva inaugurato il nuovo ponte di Bassano distrutto durante la Resistenza.

Canzone Ponte di Bassano

35mila iscritti nel ’48 con 36 sezioni; oltre 100mila iscritti negli anni Cinquanta; 235mila nel ’71; più di 300mila oggi l’ANA continua le sue tradizioni con un sempre rinnovato impegno al servizio del Paese.