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Il “Fiore meraviglioso”. Storie di partigiani italiani


Fiori di vita

“Noi abbiamo combattuto con la speranza di liberarci da questo marciume di fascismo,
da questo sistema che era ripugnante e portare la speranza per tutti, per un domani migliore”
Giuseppe Marani

“Solo un’avanguardia della classe operaia prende parte attiva alla Resistenza, nelle formazioni di montagna, nelle GAP, nella propaganda di fabbrica e nell’organizzazione degli scioperi, ma questa avanguardia esprime in forma attiva e combattiva le aspirazioni dell’intera classe” (Giorgio Galli, “Storia del Partito comunista italiano”, ed. Pantarei 2011, p. 245).
Credo che questa citazione ben renda il rapporto tra i partigiani e il resto della popolazione italiana nei venti mesi di lotta resistenziale contro l’occupante tedesco e il servo fascista.
Spesso in Italia si sono confrontate due vulgate, tutte e due fortemente incomplete: da una parte il “popolo in armi”, ossia l’adesione di massa degli italiani alla Resistenza (tesi sostenuta da Luigi Longo, “Un popolo alla macchia” e dal Partito comunista italiano); dall’altra invece la denigrazione o la forte minimizzazione della lotta partigiana con l’affermazione che i partigiani rappresentavano solo se stessi mentre il popolo si era schierato con il nuovo fascismo repubblicano (Giorgio Pisanò, “Storia della guerra civile in Italia 1943-45” con la pubblicistica neofascista).
Inutile dire che le due tesi, l’un contro l’altra armate, non escono dal canone della polemica agitata contro l’avversario.

Chi sono i partigiani che in questa bella pubblicazione raccontano le loro storie, così piene di azione, passioni e determinazione? (“Fiore meraviglioso”, Anpi Ispra 2017)

Erano allora l’avanguardia del popolo italiano con cui condividevano la stessa avversione al fascismo tracotante, la stessa ripulsa dei caratteri dell’occupazione nazista, la stessa speranza che la guerra finisse e i padroni cadessero nella polvere.
La dimostrazione che rappresentavano gli ideali della maggioranza della popolazione italiana l’abbiamo in ciò che dicono in ogni pagina: figli del popolo (nati in famiglie di condizione sociale modesta), furono sostenuti dalla stesse popolazioni quando decisero di passare alla lotta armata contro i tedeschi e i fascisti. Infatti non c’è dubbio che se i partigiani fossero stati lasciati soli in montagna, la reazione nemica non avrebbe avuto alcuna difficoltà a spazzarli via. Invece ciò non accadde: questo perché le comunità videro in quei giovani coraggiosi i loro figli e perché le loro speranze erano le stesse dei giovani armati cresciuti accanto a loro.

“Questi giovani ben presto fecero amicizia con la gente del posto, che nonostante i gravi rischi, li accolse come figli con grande atto di solidarietà, offrendo loro parte di quel poco di cui disponevano. Ricordo la correttezza e la riconoscenza di quei giovani…”. (Pietro Buffoni)

Sempre nello medesima testimonianza Buffoni scrive che le stesse comunità così protettive in precedenza potevano rivelarsi astiose nei loro confronti quando temevano le rappresaglie naziste e fasciste in seguito ad attentati, uccisioni di militi nemici o solo per allontanare la presenza partigiana da zone ritenute vitali per il proseguo della guerra.
Questa affermazione ci è utile per evitare la facile retorica del popolo sempre solidale con i partigiani, tesi a volte smentita dalle tante testimonianze in nostro possesso.

C’è un altro aspetto che salta subito all’attenzione del lettore. Questi partigiani raccontano con grande enfasi e vivezza le loro imprese militari con racconti ancora oggi vibranti (soprattutto Nino Vasini, “Tony”, e Woner Lisari, “Vonero”) ma sembrano poco attenti alla dimensione politico-ideologica del loro agire. Erano in gran parte comunisti, socialisti, anarchici ma le distinzioni ideologiche sfumavano nella generale avversione contro fascisti e nazisti, questi sì veramente odiati e vituperati per le loro bassezze e i loro abomini (stragi e soprusi contro le popolazioni inermi).
Per noi cresciuti in un mondo dove le ideologie hanno un particolare peso leggere pagine dove il racconto è concentrato solo sulle imprese militari può sorprendere.
In realtà se ci pensiamo bene non era necessario aver letto le opere di Turati o di Marx o Bakunin per fare il partigiano. Provengono tutti da ambienti sociali modesti (operai, contadini, cavatori di marmo, artigiani…) dove solo la parola Socialismo o Anarchia acquistava un sapore di libertà e giustizia: “… migliorare le condizioni di vita, spezzare le catene di questa gente che viveva intorno alle cave di marmo” (Giorgio Mori).
Hanno visto in faccia la miseria nonostante una vita fatta di lavoro onesto: “Si alzavano dopo la mezzanotte e rientravano alle quattro, bisognava toglierli le scarpe dai piedi perché non ne avevano più forza…”. (Giorgio Mori)
Non era necessario diventare intellettuali per capire perché il mondo andava alla rovescia e come doveva essere raddrizzato. Comunismo, Anarchia, Socialismo erano parole già pregne di alti significati capaci di portare alla lotta per un mondo finalmente Giusto e Libero dove la canea nazifascista sarebbe scomparsa e i padroni avrebbero cessato di vivere come parassiti sul lavoro altrui.
Giuseppe Marani, “Pio”, sintetizza mirabilmente le convinzioni di tutti gli altri: “Noi abbiamo combattuto con la speranza di liberarci da questo marciume di fascismo, da questo sistema che era ripugnante e portare la speranza per tutti, per un domani migliore”.
Speranze ingenue si dirà, speranze che poi furono deluse alla fine della guerra… ma in quel momento per queste idee si poteva anche morire consapevoli che il loro combattere andava a vantaggio di tutti.

Erano ideali nati da tempo in Italia e che il fascismo non era riuscito a estirpare nonostante i metodi che conosciamo. Ideali che risalgono agli anni in cui nacque il socialismo e l’anarchia a fine Ottocento. L’età giolittiana a inizio Novecento vide l’affermarsi di partiti e sindacati che parlavano di giustizia sociale e di un mondo nuovo che i lavoratori avrebbero dovuto guadagnarsi combattendo contro il nemico di classe. Ma poi venne la Grande guerra e come frutto avvelenato di essa il fascismo, mano armata al servizio della classe dirigente che voleva imporre a tutti i costi i propri interessi sulla classe antagonista.
Sappiamo come andarono le cose: nel Biennio rosso (1919-20) il proletariato uscì sconfitto dalla prova di forza contro il fascismo alleato dei padroni.

Pensavamo che i vecchi ideali di giustizia e uguaglianza fossero stati soppressi in Italia con il Ventennio fascista invece ecco che rispuntano, come un fiume carsico, con i partigiani protagonisti di questi racconti! Ciascuno di loro è diventato partigiano ad un certo momento perché in famiglia quegli ideali sono stati tramandati ai figli e ai nipoti: il fascismo al soldo dei padroni; il socialismo speranza dell’avvenire; la lotta unica condizione per l’avvento di una società più giusta; solo miseria e oppressione nel capitalismo dove il lavoratore è schiavo.
E così i partigiani del ’43 si ricollegarono ai “partigiani” del ’19 e ’20 in una ideale continuità di intenti e ideali.

Quante cose si imparano ad ascoltare i protagonisti e le loro storie!

Poi per i nostri protagonisti arrivarono le giornate della festa ma anche della disillusione dopo gli entusiami del 25 Aprile ’45 oppure dell’agosto del ’44 per chi in quel momento si trovava al di là della Linea Gotica. Ai balli con il sorriso in bocca, alle speranze collettive di redenzione sociale subentrò prima la consegna delle armi e poi le inevitabili difficoltà del dopoguerra con la disoccupazione e la fame. Fame e disoccupazione acuite dal fatto di essere stati partigiani: aver combattuto con un fazzoletto rosso al collo voleva dire rischiare di essere i primi licenziati, vivere sotto il costante controllo della polizia, guardati con sospetto dalle nuove autorità comunali.
Scrive Giorgio Mori che le cose andarono “molto male, soprattutto per i partigiani comunisti, io infatti non trovai più lavoro, molti avevano paura ad assumermi, perché come partigiano temevano che poi diventassi sindacalista”.

Fu difficile adattarsi a questa Italia matrigna, così sorda a riconoscere sacrifici e valore individuale finita la guerra. Eppure i partigiani tennero duro, raramente si lasciarono andare a comportamenti poco consoni al loro recente passato. Soffrirono e si integrarono nelle fabbriche dove lavorarono continuando a lottare nei partiti e nei sindacati consapevoli che la lotta doveva proseguire, perché quegli ideali e quelle speranze potessero diventare “carne” in una società tesa verso il benessere (Boom economico degli anni Cinquanta) ma immemore del recente passato. In ogni caso il “benessere” non avrebbe riguardato i lavoratori.

Sono passati tanti anni da quei tempi ma i nostri “partigiani sempre” non hanno perso la voglia di partecipare e far sentire la loro voce in un’Italia che solo apparentemente è lontana da quei tempi.
Basta leggere le loro idee sul ruolo dell’Anpi oggi oppure sulle modalità migliori per parlare ai giovani di quei valori. Giovani di diciotto-diciannove anni allora che parlano a ragazzi che nell’ultimo anno di scuola superiore hanno gli stessi anni. Giovani appartenenti a Italie diverse e lontane ma non per questo incapaci di ascolto reciproco. Basta provarci.

Ma che cosa dire ai giovani?

“Dai ragazzi ho imparato molto, non dico che ho insegnato, loro hanno imparato da me,
soprattutto il primo insegnamento che ho dato loro: per la strada camminare a testa alta,
non dover abbassare lo sguardo o la testa perché incontri qualcuno
che non hai piacere di incontrare,
andare a testa alta, essere delle persone oneste, l’onestà paga, paga dentro di noi
e non ho paura a dire che io sempre stato e sempre sarò di sinistra, sempre”
Pietro Buffoni