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Partigiani tedeschi nella Resistenza italiana

Partigiani tedeschi nella Resistenza italiana

Vorrei iniziare con la citazione di un libro che a mio parere è uno dei migliori scritti in questi ultimi 20 anni sulla Resistenza italiana. L’autore è Santo Peli (università di Padova) e il titolo è “Storia della Resistenza in Italia” (2006).

L’ultimo capitolo ha come titolo “Protagonisti dimenticati” e dà spazio a categorie finora rimaste ai margini del discorso resistenziale  quali le donne, gli IMI e i renitenti alla leva fascista.

Secondo Peli troppo a lungo ha dominato nel discorso pubblico e nella ricerca storica lo stereotipo del partigiano combattente, maschio e armato, protagonista assoluto e quindi unico della lotta di liberazione.

La resistenza armata ha svolto un ruolo fondamentale nella sconfitta tedesca e fascista, su questo non esiste il minimo dubbio. Ma la focalizzazione sul solo partigiano armato ha impedito di allargare lo sguardo ad altre componenti importanti.

Secondo Peli è fondamentale recuperare l’importanza che le donne hanno avuto nella Resistenza, non solo le staffette ma anche le combattenti e le donne che in varie forme aiutarono la Resistenza curando i feriti, procurando il cibo e aiutando in mille modi i partigiani in montagna o in città.

Anche la “resistenza senza armi” degli IMI negli stalag tedeschi merita molto rispetto sul piano etico e nello stesso tempo la loro integrazione a pieno titolo nella storia della Resistenza.

Gli IMI (Internati militari italiani) furono coloro che rifiutarono di tornare in patria mettendosi al servizio del fascismo di Salò. Furono 650mila a dire no a qualunque forma di arruolamento coatto. Preferirono rimanere in Germania a soffrire la fame, il freddo, il duro lavoro.

Peli integra nella lotta di liberazione anche i renitenti ai bandi Graziani, i quali infoltirono le bande partigiane di giovani che fuggendo in montagna oppure disertando mostravano chiaramente la debolezza del fascismo di Salò. Spesso i migliori quadri della Resistenza uscirono da giovani che salirono in montagna non per fuggire la “cartolina precetto” ma pronti a combattere.

In questo elenco di protagonisti da riscoprire è doveroso inserire anche i Triangoli Rossi (24mila) i quali pagarono la loro opposizione al nazismo con la deportazione nei KZ. Erano in gran parte operai delle grandi fabbriche del Nord entrate in sciopero soprattutto nel marzo del ’44 in piena occupazione tedesca dell’Italia. Diecimila di loro furono uccisi nei campi nazisti. Anche questa è una bella pagina scritta dal movimento operaio italiano.

Ma tra i protagonisti dimenticati c’è anche un altro capitolo, questo del tutto ignorato finora dalla storiografia italiana oppure fortemente sottovalutato: la presenza nella Resistenza italiana di disertori tedeschi.

L’unico storico che finora ha parlato di questo fenomeno è stato Roberto Battaglia in un testo del 1960 scritto in tedesco e pubblicato in Austria e mai tradotto in Italia:

Il titolo è “Deutsche partisanen in der italienischen Widerstandsbewegung” (“Partigiani tedeschi nella Resistenza italiana”).

In esso Battaglia sostiene che (citazione) «la partecipazione di partigiani stranieri alla resistenza italiana, sia di singoli che di gruppi, è stata forte e significativa»: oltre ai prigionieri di guerra russi, jugoslavi, inglesi, francesi, austriaci, cecoslovacchi e di altre nazionalità – continua Battaglia – fuggiti dai campi di prigionia o dalla squadre di lavoratori forzati, c’erano anche quelli «che stavano dall’altra parte», nella Wehrmacht, ma che avevano disertato per passare con i partigiani italiani.

Continua Battaglia: «il passaggio di tedeschi nelle file del movimento di resistenza italiano non si è limitato a singoli casi ma ha raggiunto dimensioni considerevoli […] ed è chiaramente dimostrata in tutte le zone del Nord Italia, senza eccezione, la presenza di tedeschi nelle principali bande partigiane e nei luoghi degli scontri più duri».

Anche solo uno sguardo alla numerosa memorialistica conferma la presenza di tedeschi in molte formazioni partigiane. Si trovano infatti testimonianze anche in Toscana, Umbria, Trentino, Friuli, Lombardia, ma molti di loro sono rimasti senza nome, caduti o passati per le armi nel corso dei combattimenti.

Dopo Roberto Battaglia a narrare quest’altra espressione della resistenza tedesca sono stati alcuni anni fa due storici di Friburgo, Wolfram Wette e Detlef Vogel, “Das letzte tabu” (“L’ultimo tabù”).

Secondo i due studiosi durante la Seconda guerra mondiale sono stati ben centomila i soldati tedeschi disertori, ventimila dei quali sono stati condannati a morte e più della metà fucilati, impiccati, garrotati o ghigliottinati, e tra questi “disertori” ci sono anche quelli passati con la resistenza italiana.

Dei centomila disertori molti erano comunisti, socialisti, democratici e provenivano dalle file del proletariato.

Secondo il settimanale “Der Spiegel”, il libro di Wette e Vogel è l’unico libro uscito finora in Germania sull’argomento, scoprendo un «tabù» che durava dalla fine della guerra. In Germania, infatti, dopo il ’45 nessuno aveva mai parlato dei disertori tedeschi. Solo nel 2002 il parlamento ha riabilitato una parte dei condannati per reati minori: non i kriegsverräter (traditori in guerra), tra i quali molti disertori passati dalla parte della resistenza nei vari paesi occupati.

La presenza di partigiani tedeschi è visibile un po’ in tutti i movimenti di resistenza europei: in Grecia, Polonia, Russia, Italia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Francia, Norvegia, ecc. I due ricercatori parlano di 1.000 combattenti tedeschi in Francia, 600 in Jugoslavia, 600 in Grecia e 100 in Polonia.

Difficile calcolare il numero di disertori tedeschi nelle fila dei partigiani italiani.

Dal 1943 al 1945 l’esercito tedesco schierava in quel momento dai 10 ai 12 milioni di uomini in Europa. Assumendo quindi il dato ufficiale di 100.000 disertori tedeschi, si tratta grosso modo dell’1%. Dato che in Italia in quel momento erano schierate 27 divisioni, circa 330.000 soldati, se vale la regola dell’1% parliamo di almeno 3.000 persone, di cui una parte si rese disponibile a combattere con i partigiani italiani.

Anche se fossero stati solo 1000 combattenti saremmo davanti a un fenomeno significativo e simbolicamente importante.

Tra le maggiori unità combattenti potremmo ricordare il il Freies Deutchland  Bataillon – composto da disertori tedeschi, austriaci, cecoslovacchi – formarono  unità di guerriglia che combatterono contro le forze armate germaniche. Il Freies Deutchland Bataillon operò  assieme ai garibaldini delle divisioni Carnia e Val But a ridosso del confine con l’ Austria, in Alto Adige e nel Bellunese.

Un altro esempio di presenza di disertori tedeschi in Italia è un rapporto della polizia segreta tedesca la quale  segnala ad esempio che solo a Civitella, in provincia di Arezzo, si verifica nel luglio 1944 la diserzione di ben 721 soldati tedeschi. Probabilmente il motivo fu la strage degli abitanti di Civitella di pochi giorni prima (244 vittime).

Tra i singoli combattenti In Italia ricorderei due figure: Hans Schmidt e Rudolf Jacob.

Hans Schmidt era componente di una formazione politica comunista spazzata via da Hitler nel momento della presa del potere nel ‘33. Di professione impiegato durante la guerra è soldato nella Wehrmacht e impegnato in provincia di Reggio Emilia.

Forma un gruppo clandestino di soldati tedeschi e prende contatto con partigiani italiani per catturare ufficiali del suo esercito. Viene scoperto e fucilato con altri quattro suoi compagni.

Rudolf Jacob è nato a Brema nel 1914 e per molti anni è ufficiale della marina mercantile. Chiamato sotto le armi, è capitano nella Marina tedesca dal 1938. Dall’autunno 1943  nell’Italia  occupata dai nazifascisti, è impegnato, dai primi del ’44,  a realizzare gli apprestamenti difensivi lungo la costa da La Spezia a Genova.

Prima ancora della diserzione sappiamo che Jacob fornì la popolazione della Spezia di viveri per aiutare molte persone che erano letteralmente affamate. A spingerlo più avanti alla diserzione sono probabilmente le efferatezze naziste in Italia che vede quotidianamente. Massacri e crudeltà ai danni della popolazione e dei partigiani. Entrò a far parte di una banda delle “Garibaldi”.

Morì il 3 novembre del ’44 in una sfortunata azione di liberazione di alcuni partigiani italiani. Fu ucciso da reparti repubblichini a Sarzana.

A dimostrare il carattere spesso internazionale della Resistenza italiana è la composizione della squadra guidata da Jacob: l’azione è condotta da dieci uomini: Jakob, il suo attendente tedesco, un ex militare russo,uno jugoslavo e sei italiani.

Finita la guerra Jacob ebbe una medaglia d’argento al valore militare e a Sarzana una lapide nel luogo della sua uccisione ricorda il suo nome.

Meritano  di essere ricordate le parole della lapide:

“Illuminato dalla dea Giustizia  Riscattato dalla soggezione al bestiale furore teutonico  Non defezione ma eroica rivolta Portò il capitano della marina germanica Rudolf Jacob prima nelle file dei partigiani sarzanesi a immolarsi per l’Italia  per la libertà patria ideale  il 3 novembre 1944”.

Nella lapide si vede Jacob che uccide una piovra che giace ai suoi piedi. La piovra nazista.

La lapide fu voluta dall’amministrazione comunale di Sarzana nel 1953 in un momento non favorevole alle relazioni tra Italia e Germania se pensiamo che il maggiore SS Reder fu condannato all’ergastolo nel ’51 e il feldmaresciallo Kesselring fu prima condannato all’ergastolo in Italia nel ’48 e poi liberato nel ’52 per decisione della magistratura italiana.

Era facile in quel periodo odiare i tedeschi per quello che avevano fatto in Italia (stragi naziste) invece l’amministrazione di Sarzana si comportò diversamente.

Non è finita. Su Jacob abbiamo un libro di Luigi Faccini, “L’uomo che nacque morendo” del 2006 e un film con lo stesso titolo.

Anche la storia di Jakob è un’altra pagina nascosta della Resistenza tedesca e dopo settant’anni queste vicende meritano di essere conosciute e divulgate.