Torna a Resistenza

Samuele Turconi. Un uomo e un combattente per la libertà

Samuele Turconi

Un uomo e un combattente per la libertà

Non so quante persone conoscano oggi a Legnano Samuele Turconi. La ricorrenza del 25 aprile di quest’anno può essere l’occasione per imparare a conoscere un fiero e coraggioso combattente che si distinse in numerose azioni militari a Legnano  e nella Valle Olona contro l’occupazione nazista e il collaborazionismo fascista.

Queste pagine sono state tratte da “Giorni di guerra. Legnano 1939–45” di Giorgio Vecchio, Nicoletta Bigatti e Alberto Centinaio, 2009.

La famiglia

“Nato nel 1923 proveniva da una famiglia di contadini residente alla Cascina Mazzafame. «Era risaputo – racconta oggi Turconi – che la mia famiglia era antifascista quindi eravamo tenuti sotto stretto controllo. Mi ricordo che mio padre fu più volte preso di mira e che parecchie volte i carabinieri vennero a casa nostra e che in almeno una circostanza fu arrestato perché in possesso di qualche chilo in più grano che serviva per la nostra sopravvivenza».

8 settembre del ‘43

Al momento del crollo delle forze armate italiane, anche Turconi (bersagliere nell’esercito italiano) fu catturato dai tedeschi e vide fucilare i compagni feriti e gli ufficiali; riuscì tuttavia a scappare ed a ritornare a Legnano ai primi di ottobre.

A questo punto, però, la sua scelta era fatta: entrare nella clandestinità e nella Resistenza «perché non avevamo altra scelta per liberare la nostra terra dalla dittatura e dai Tedeschi. Anche se già ognuno di noi aveva delle idee politiche, la politica venne dopo».

Il suo passaggio alla Resistenza fu in qualche modo sollecitato: «Verso la fine del 1943, inizio del 1944, mi si avvicinò una persona che conoscevo e mi disse: “Ho saputo che sei stato in prigione, che non andavi alla premilitare, che hai delle idee contro”. Io confermai, dissi che ero contro il fascismo perché ero stanco di quella vita. Non so se per me era proprio un odio. Forse ero troppo giovane per provare odio. Piuttosto era stanchezza: ero stufo di tutte le privazioni di tutti gli obblighi che c’erano».

Le origini della Resistenza a Legnano

A Legnano i fratelli Venegoni provvedevano nel frattempo a consolidare la propria formazione, forti dell’appoggio del piccolo industriale comunista Bruno Feletti e di giovani come Arno Covini, Spattaco Andrei, Dino Garavaglia, Renzo Vignati, Samuele Turconi, Annibale Schiavo, Dino Loschi.

Le prime azioni partigiane furono caratterizzate dal disperato bisogno di procurarsi armamenti sufficienti ed adeguati. Questo tipo di azioni si abbinò ai primi sabotaggi contro le linee di comunicazione, in modo da ridurre le possibilità per i tedeschi di far lavorare con tranquillità le fabbriche utilizzate ai fini bellici:

«Iniziammo le azioni – racconta Samuele Turconi – con gli espropri delle armi ai fascisti e con gli atti di sabotaggio sulla linea ferroviaria. Nelle officine della Pensotti ci costruirono delle specie di cunei che deposti sulle rotaie facevano deragliare i vagoni. Provammo il primo sabotaggio alla stazione di Legnano. Facemmo deragliare un treno merci carico di granaglie: la motrice e tre vagoni uscirono dai binari scaricando il carico proprio davanti alla portineria della allora Ercole Comerio. Visto il risultato ne facemmo costruire una ventina che servirono per altre azioni a Canegrate, Besnate, Cavaria ed altre ancora. Ci fu poi la necessità di procurarci un autoveicolo per le azioni che stavamo preparando e si rese disponibile il Sig. Rasini Pietro che possedeva un FIAT 601 privo però del permesso di circolazione rilasciato dai tedeschi; senza quel permesso si era immediatamente bloccati dalle varie pattuglie. Venimmo a sapere che alla concessionaria Fiat Ceriani di Parabiago disponevano di un mezzo provvisto di questo documento ed io insieme al Crespi Francesco ci recammo a Parabiago ed armi in pugno, peraltro senza la benchè minima resistenza, provvedemmo a dotare il nostro mezzo del prezioso lasciapassare ».

Il rastrellamento alla Cascina Mazzafame

Un grave episodio sfavorevole alla Resistenza si verificò invece il 21 giugno 1944, allorché circa 250 militi fascisti attuarono un ampio rastrellamento nella zona della cascina Mazzafame. provocando uno scontro a fuoco con i partigiani della 101. Il combattimento si concluse con la morte di un fascista e il ferimento di dodici suoi camerati, mentre da parte avversa si ebbero diversi feriti e quattro uomini presi prigionieri.

Uno di questi fu Samuele Turconi, che così oggi rievoca il fatto:

«Non furono i soli fascisti legnanesi ad attaccarci: ci attaccò la PAI (Polizia Africa Italiana), la Brigata nera e la Decima MAS di Busto. Rastrellarono tutte le famiglie della Mazzafame e le radunarono vicino alla chiesetta minacciandole di morte se non ci fossimo arresi. Combattemmo strenuamente e quando alle 11 di sera ci accorgemmo di essere stati circondati capimmo che per noi non c’era più nulla da fare. Decidemmo di non arrenderci comunque anche se le forze in campo erano decisamente a nostro sfavore e combattemmo furiosamente sino all’alba.

Alla fine ferito gravemente per la seconda volta insieme ad altri due compagni ci arrendemmo Un fascista mi puntò il fucile alla testa e minacciò di uccidermi sul posto; poi invece mandarono mio fratello con degli amici che mi trasportarono sino in via Novara dove i fascisti avevano fatto base. Ormai mi venivano meno le forze ma feci in tempo a sentire che avevano preso il Rizzi Pietro, il Bragè, il Casero ed altri i cui nomi ora non ricordo. Mi caricarono su un automezzo militare ormai quasi morto ed insieme ad altri ci condussero alla caserma dei carabinieri di Busto Arsizio. Fortunatamente incontrai un maresciallo dei carabinieri veramente coraggioso che si oppose con tutte le sue forze a rinchiudermi in quelle condizioni in cella. Per me sarebbe stata la fine. I fascisti furono così obbligati a condurmi e a ricoverarmi nell’ospedale della città dove i medici mi salvarono la vita per un soffio».

La liberazione di Turconi

Lo sfortunato momento, malgrado la sofferenza fisica e la paura per il futuro, si concluse poi bene per Turconi:

«Rimasi in ospedale piantonato per una ventina di giorni fino a quando vennero in ospedale due noti fascisti: Angelo Montagnoli e il Negrini che mi portarono con sarcasmo la bella notizia che molto presto sarei stato fucilato. La sera stessa mi mandarono un sacerdote per l’ultimo conforto e intorno alle 20 i fascisti, che mi piantonavano, mi avvertirono che c’era una visita per me. Si presentò una ragazza (che conoscevo solo di vista, Piera Pattani nda) che rapidamente si diresse verso di me e gettando le braccia al collo finse di baciarmi solo per spingermi tra le labbra un bussolotto. Fu subito allontanata e picchiata duramente ma aveva raggiunto lo scopo per il quale era stata mandata: avvertirmi che la notte stessa, intorno alle dieci, avrebbero tentato di liberarmi. E così avvenne. Con un’azione militare a cui partecipò tra gli altri anche Mauro Venegoni vennero e, immobilizzate le guardie, Guido Venegoni mi caricò sulla canna della sua bicicletta poiché le mie ferite non erano ancora rimarginate… Fui accompagnato a Legnano in via Novara nella casa della partigiana Logisi Angela in Grassini dove poi fui curato dal dott. Tornadù, farmacista di via Novara. Rimasi da lei una decina di giorni e poi dovetti abbandonare il rifugio divenuto insicuro. Mi trasferirono allora a Prospiano anche se le mie condizioni non erano per niente buone. Faticavo a muovermi e rimasi nascosto nella casa privata del Sig. Colombo per parecchio tempo. Una volta ristabilito ripresi l’attività da partigiano inserendomi nel comando di Gorla Maggiore».

La barbara uccisione di Mauro Venegoni

L’avvenimento più tragico in quei mesi fu di certo l’uccisione di Mauro Venegoni. Mauro aveva preso la decisione di tornare nel Legnanese, specialmente dopo aver appreso che l’appartamento milanese in corso Buenos Aires a cui faceva capo era probabilmente stato individuato dalla polizia.

Catturato quasi subito a Busto Arsizio e casualmente riconosciuto, malgrado avesse ovviamente documenti falsi, Mauro Venegoni subì terribili sevizie da parte dei fascisti, vogliosi di avere da lui informazioni sul fratello Carlo (che in agosto era stato arrestato e inviato al campo di Bolzano-Gries, da cui era tuttavia riuscito a fuggire): gli fu rotta una mandibola con il calcio di un moschetto, gli furono cavati gli occhi, arrecate ferite e lesioni di ogni genere.

Nottetempo fu poi portato nelle campagne di Cassano Magnago, finito e lasciato ai bordi della strada senza alcun documento addosso. Era il 31 ottobre 1944.

L’attentato al Mantegazza

Fu in questo clima che maturò l’attentato all’albergo Mantegazza del 5 novembre 1944, che probabilmente costituì l’episodio più noto di quel tempo, anche per i suoi effetti sull’intera cittadinanza.

L’albergo era ubicato al numero civico 18 del corso Vittorio Emanuele, ovvero nel tratto compreso tra il monumento ad Alberto da Giussano e la stazione ferroviaria. A quei tempi era diventato una delle mete preferite dai tedeschi, dai brigatisti neri e dai loro collaboratori, che vi si ritrovavano la sera per darsi a cene e festeggiamenti di ogni genere. Inutile dire che ciò risultava fortemente provocatorio ed offensivo nei confronti di chi subiva le prepotenze dell’occupante e in più doveva quotidianamente fare i conti con la penuria degli alimenti. Fu pertanto abbastanza facile pensare, da parte partigiana, ad un attacco che avrebbe inevitabilmente provocato grande clamore in città.

Nella testimonianza rilasciataci, Samuele Turconi ha dichiarato la propria partecipazione all’attentato:

«Durante una riunione del nostro comando di Milano fu deciso un attentato dinamitardo. Due donne e due uomini furono incaricati della difficile operazione. Le due bombe furono costruite nelle officine della Pensotti e io con l’esperienza da artificiere mi incaricai di provvedere al loro armamento in casa della Mainini Francesca. Le riempii con due tubi di gelatina, un detonatore ed una miccia rapida che ci dava appena appena il tempo di metterci in salvo. Fu un’operazione al limite del suicidio ma non potevamo assolutamente sbagliare anche a costo del sacrificio della nostra vita. Le bombe furono trasportate da due donne e depositate poco prima delle nove di sera nei cespugli di piazza Alberto da Giussano, quindi nelle immediate vicinanze dell’albergo Mantegazza. Qualche minuto dopo io e un altro partigiano dei GAP di Milano di nome Negri [Giuseppe Marinoni] le prelevammo, e una volta accesa la miccia con la sigaretta, le depositammo una sulla finestra dell’albergo e l’altra sulla portafinestra che davano entrambe sulla strada. La deflagrazione fu violentissima ed il fuggi-fuggi generale. A questo punto, visto il mio diretto coinvolgimento nell’attentato, il comando di Milano mi ordinò di lasciare immediatamente la città. Mi ero talmente esposto che i fascisti arrivarono persino a stampare dei manifestini con una mia fotografia sequestrata in casa dei miei genitori».

L’esplosione provocò la morte immediata dell’ing. Hans Kasten, allora tecnico presso la Tosi, del maggiore Alfred Bellau e del legnanese Carlo Colombo. Lo squadrista trentunenne Renzo Montoli, appena tornato dalla Germania dove era stato istruttore in un campo, perse entrambi gli occhi e decedette il 15 successivo. Numerosi furono anche i feriti.

Secondo i bollettini della guerra alla fine si trattò di una brillante azione, condotta dal comandante e dal vicecomandante della brigata, che ebbe i seguenti effetti: «Locale e adiacenti fuori uso per parecchio tempo; tre morti (due ufficiali superiori tedeschi e una spia), 25 feriti fra cui sei gravi. Tutti indistintamente i colpiti sono il fior fiore della feccia fascista locale».

La liberazione a Legnano

Il pomeriggio del 26 e l’intera giornata del 27 aprile passarono senza particolari avvenimenti militari. Legnano e i dintorni apparivano pienamente sotto il controllo delle nuove autorità e oltretutto le formazioni partigiane erano adesso ben rifornite di armamento leggero. Lungo le strade principali della zona si muovevano peraltro in continuazione autocolonne, mentre si dovevano registrare occasionali sparatorie provocate da fascisti in fuga o di passaggio.

Forti timori si ebbero invece il giorno 28 a causa dell’avvicinarsi di una forte colonna tedesca. Si trattava della cosiddetta ”Colonna Stamm”, dal nome del maggiore Stamm che era il comandante del presidio di Baveno sul lago Maggiore.

Samuele Turconi ricorda così questo importante episodio:

«Ma non tutto era ancora finito. Arrivò da una staffetta la notizia che una colonna di tedeschi proveniente da Oleggio si dirigeva su Busto Arsizio. Partii immediatamente con altri partigiani con l’intento di recarci al più presto nella zona e per intercettare la colonna. Ci attestammo in una cascina sulla strada che entrava in Busto. Corno Alberto e Bigatelli piazzarono una mitragliatrice Breda, pronti a far fuoco all’apparire dei tedeschi. Arrivarono in seguito Marcora con un gruppo di altri partigiani. I tedeschi si fermarono a circa 200 metri da noi dopo che gli sparammo contro una raffica di mitragliatrice. Subito dopo cominciò la trattativa tra due ufficiali tedeschi e l’ufficiale italiano che se ben ricordo era l’unico in grado di parlare il tedesco. La trattativa proseguì sino verso le undici quando fummo sorvolati da un trimotore con le insegne tedesche cancellate. Secondo il mio amico Cozzi era il capitano Marcati che sorvolava la zona. A quel punto il comandante tedesco si decise ad accettare la resa ed a rinunciare a proseguire per la via del Brennero. Fu una fortuna perché erano ancora ben armati e se avessero voluto combattere sarebbero stati per noi guai seri. Alla fine comunque il comandante firmò la resa alla condizione che i partigiani si togliessero il fazzoletto rosso al collo e con la promessa che nulla sarebbe stato fatto ai suoi uomini. Dopo pochi attimi ed improvvisamente si suicidò sparandosi un colpo alla tempia con la rivoltella d’ordinanza».

Si concludeva così – questa volta quasi senza colpo ferire – la battaglia per la liberazione di Legnano. Complessivamente essa era costata, includendo i comuni limitrofi di Castellanza, Gorla, Rescaldina, Cerro Maggiore, San Vittore, Canegrate, Parabiago, ecc. 43 morti tra i partigiani, oltre a 65 feriti.

Le forze della Resistenza si erano impadronite  di 190 tedeschi e di 150 militari della Rsi, oltre che di 5.000 armi individuali e automatiche, 50 cannoni e mitragliere, 50 mortai da 81 e parecchio munizionamento.

Appena conclusisi i combattimenti in città, i legnanesi sembrarono rivivere. Balconi e finestre venivano ovunque addobbati con festoni e bandiere, mentre la gente si sfogava facendo a pezzi le insegne tedesche e le targhe delle vie intitolate ai fascisti durante il tempo di Salò.

Si concludevano così le giornate più sanguinose della storia recente di Legnano, che valsero in seguito a far ottenere all’intera città la medaglia di bronzo al valor militare, assegnata con decreto del Presidente della Repubblica Giovanni Leone in data 10 marzo 1978”.

“Un reverente pensiero lo dedico ai nostri deportati, a tutti i caduti legnanesi

nella lotta al nazifascismo. Penso con affetto ai partigiani combattenti

ad alle “staffette” che ancora oggi sono tra noi e ci sorreggono col loro esempio”

Luigi Botta, presidente ANPI di Legnano

La guerra del partigiano Sandro. Intervista con Samuele Turconi

http://www.youtube.com/watch?v=2B8MLJfs0Ho

Legnano, 25 aprile 1946. Primo anniversario della Liberazione

http://www.youtube.com/watch?v=cAwsyUTqlK4