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Ungheria ’56: la rivolta contro il falso socialismo sovietico

Ungheria 1956

Sessant’anni fa proprio in questi giorni veniva repressa dai carri armati sovietici una delle rivoluzioni più importanti dell’intero Novecento: la rivolta ungherese contro l’oppressione dell’Unione Sovietica.
Il 4 novembre del ’56 ci fu l’irruzione di 2500 carri armati a Budapest con 200.000 soldati dell’Armata Rossa e per i rivoltosi non ci fu nulla da fare.
La rivolta era durata una decina di giorni. Era iniziata il 23 ottobre e nonostante l’intervento dei carri sovietici nei primi giorni il bilancio sembrava positivo con i russi disposti a trattare dopo aver subito una sonara sconfitta nelle strade di Budapest. In realtà stavano preparando la controffensiva, che scatterà nella notte tra il 3 e il 4 novembre quando la sproporzione delle forze decretò la vittoria di Mosca.

Seppure sconfitta la rivoluzione ungherese mostrò al mondo la falsità del socialismo in Urss e in Ungheria: i rivoltosi erano in gran parte operai, studenti e intellettuali che chiedevano vera giustizia nel paese e a loro si rispose con il fuoco. Un socialismo che spara sugli operai deve essere per forza un falso socialismo. La vicenda ungherese mostrò anche l’indifferenza delle maggiori potenze le quali non mossero un passo per venire incontro alla richiesta di intervento da parte dei rivoltosi.

Per capire quanto accadde in quei giorni dobbiamo riassumere la storia dell’Ungheria a partire dal 1945.

Come sappiamo l’Ungheria venne invasa e conquistata dall’Unione Sovietica durante le ultime fasi della seconda guerra mondiale. Fino a quel momento era stata governata dal maresciallo Horthy con un governo con forti tratti fascisti.
Finita la guerra quindi l’Ungheria entra nell’orbita sovietica al pari di tutto il resto dell’Est europeo.

Dal ’48 in avanti l’Ungheria è nelle mani di un partito unico, il Partito comunista ungherese, che governa duramente la nazione sulla base degli interessi sovietici.

Lo sfruttamento sovietico dell’Ungheria
L’Ungheria venne sfruttata dal governo di Mosca con contratti economici iniqui che facevano gli interessi solo della classe dirigente sovietica. Fu avviato un ampio programma di sviluppo dell’industria pesante (industria siderurgica e metallurgica), fu limitata l’industria leggera (automobili, macchinari agricoli…) che avrebbe migliorato le condizioni di vita della gente e nell’agricoltura si tentò con esiti fallimentari di introdurre i Kolkos (aziende cooperative).
La classe sociale più sacrificata dall’impetuoso sviluppo industriale furono gli operai i quali videro peggiorare la loro condizione rispetto al 1938: ore straordinarie obbligatorie, diffusione molto ampia dei cottimi, impero delle “norme”, ossia le prestazioni di lavoro a cui tutti erano sottoposti, nessuna possibilità di scioperare oppure di formare propri sindacati, salari bassissimi del tutto insufficienti anche per mangiare.
Per fare un esempio prima della rivolta il salario medio di un operaio ungherese era di 650-700 fiorini al mese. Il pane costava 3.5 fiorini al kg; la pasta 14, lo zucchero 11 fiorini; il caffè 400, un vestito da uomo 1500 fiorini, un paio di scarpe 400. Infatti uno degli slogan più diffusi nei 10 giorni della rivolta era: “Non si può vivere con 600 fiorini al mese!”.
Oltre a questi problemi quotidiani la popolazione ungherese doveva fare i conti con una dittatura vera e propria dove spazi per esprimere anche solo il proprio scontento erano assenti. Anzi il governo filosovietico era riuscito a creare una rete di spie che arrivava fin dentro i condomini e anche nelle più piccole città.
Chi era arrestato non aveva nessuna assistenza legale e poteva essere condannato a lunghe pene detentive o addirittura condannato a morte senza appello.
Insomma, l’Ungheria dal ’47-48 al ’56 era un vero inferno. Non per tutti però. Due-tre milioni di contadini avevano conservato la proprietà privata della terra (!), poi c’era l’onnipotente burocrazia, pletorica ed inefficiente, fino ad arrivare alla classe politica dove i livelli di vita (automobili, cibo, viaggi all’estero…) erano inimmaginabili per il resto della popolazione.

Gli elogi del Pci
Eppure all’esterno si dava un’immagine positiva o addirittura encomiastica dell’Ungheria e dell’intero blocco sovietico: in Italia per esempio il Pci di Togliatti prima della rivolta in una gran quantità di interventi e articoli descriveva in termini idilliaci la situazione in tutti i paesi dell’Est dove il “grande padre” Stalin vegliava sulla “prosperità” dei suoi popoli.
Mai una volta la stampa del Pci ebbe dubbi sull’Ungheria. Sembrava che i veri sfortunati fossero gli italiani (sotto il potere democristiano e il controllo americano) mentre gli ungheresi erano gli unici fortunati a vivere e lavorare in un regine di piena libertà e democrazia.
Il Pci scriveva un sacco di fandonie perché era legato a filo doppio all’Unione Sovietica e mai l’”Unità” e “Rinascita” avrebbero scritto qualcosa che potesse suonare sgradito a Mosca.
Provare per credere. Provate a leggere tutta la stampa del Pci dal ’45 al ’56 e vedrete che non troverete mai una nota critica, neppure abbozzata, con quanto Stalin aveva deciso e pensato.

Come mai la rivolta scoppiò proprio nel ’56?
La situazione era incandescente anche negli anni precedenti però non c’è dubbio che la morte di Stalin nel ’53 aprì nuove speranze di cambiamento e nuovi scenari politici nonostante i nuovi successori di Stalin apparvero divisi tra di loro non solo per questioni di potere ma anche per dare un nuovo indirizzo alla asfittica economia sovietica.
Infatti subito dopo la morte di Stalin ci fu la rivolta operaia a Berlino Est (’53) contro lo sfruttamento in fabbrica e i cottimi; le autorità comuniste tedesche chiesero e ottennero subito l’intervento dei carri armati sovietici. Anche qui l’atteggimento di Togliatti e soci è lo stesso della rivolta ungherese: i ribelli sono “nazisti” pagati dagli americani per provocare dissesti nella Germania Est e il crollo del potere sovietico.

Ma è il ’56 l’anno chiave
Nel mese di febbraio ci fu a Mosca il XX Congresso del Pcus e in quell’occasione il premier (segretario del partito) Nikita Crusciov attaccò il “culto della personalità” di Stalin destando grande scalpore.
Ma il peggio doveva ancora arrivare: il 5 giugno il Dipartimento di Stato americano pubblicò il “Rapporto segreto” di Cruscev nel quale le critiche a Stalin erano ancora più drastiche: sprechi economici, debole sviluppo economico soprattutto nelle campagne, abuso della polizia segreta, metodi di conduzione politica dittatoriali, fucilazioni sommarie di presunti nemici del popolo…
Il “Rapporto” in ogni caso dava una visione edulcorata del passato stalinista perché non citava i Gulag, le feroci purghe degli anni Trenta con la condanna a morte della vecchia guardia bolscevica, non si criticava il Patto Molotov-Ribbentrop, non si citavano le fosse di Katin, non riabilitava Trotsky…
Eppure la reazione nell’Occidente fu rabbiosa tra chi minimizzava i crimini di Stalin e chi li amplificava. Nel Pci ci fu molto imbarazzo, soprattutto in Togliatti che per tanti anni a Mosca aveva condiviso le scelte del dittatore georgiano firmando le condanne a morte che decapitavano i vari Pc nazionali al tempo delle “grandi purghe” (1937).

Lo sconcerto nella “base”
Wanda, operaia in un fabbrica tessile e attivista dal ’46: “Io non sono d’accordo con Kruscev perché mi domando: e loro dov’erano quando Stalin commetteva tutti quegli errori che dicono abbia commesso? Questa questione di Stalin mi ha scosso in quanto per tanti anni ho litigato con tutti quelli che dicevano che era un dittatore mentre adesso dovrei dire che avevano avuto ragione. Io mi domando se il partito sapeva perché non l’ha detto subito, così sembra che ci ha presi in giro… Rimango convinta che Stalin era veramente un genio”.

Poznan ’56
In questo quadro di confusione nel centro e alla periferia dell’impero sovietico in Polonia, sempre nel ’56, ci furono diverse rivolte operaie (contro lo sfruttamento in fabbrica), soprattutto quella di Poznan fece temere l’allontanamento della Polonia dall’orbita sovietica. La repressione a Poznan costò 38 morti e 277 feriti.
Il compromesso tra Gomulka (nuovo leader) e Kruscev evitò l’intervento dei carri armati.
Poche settimane dopo invece iniziò la rivolta in Ungheria, che richiese in due occasioni l’intervento armato sovietico.

Inizia la rivolta in Ungheria
La rivolta iniziò il 23 ottobre quando un’imponente folla si formò nel centro di Budapest per protestare e chiedere riforme. L’intervento degli AVO (milizia armata al servizio del governo ungherese) provocò le prime decine di morti.
Lo sdegno per i giovani studenti e operai morti in piazza dà subito alla rivolta un carattere di massa con l’assalto alla radio nazionale che si rifiutava di trasmettere un comunicato dei ribelli e con l’abbattimento della statua di Stalin (alta 7 metri) collocata in una delle piazze centrali.
Dal 24 ottobre imperversano i combattimenti tra le truppe russe di stanza in Ungheria e gli ammutinati. Si combatte un po’ dappertutto ma soprattutto nel centro di Budapest con l’intervento dei carri sovietici. Gli insorti hanno poche armi ma subito una parte dell’esercito ungherese e gli alti gradi dell’esercito aderiscono alla rivolta.

Che cosa chiedono i rivoltosi?
1) ritiro dei russi e nuovi rapporti bilaterali
2) uscita dal Patto di Varsavia
3) scioglimento degli AVO
4) liberazione dei prigionieri politici
5) libertà personali e di stampa
6) l’abolizione degli ammassi per i contadini
7) miglioramenti sensibili dei salari e delle condizioni di vita
8) migliore gestione delle fabbriche con la direzione dei Consigli operai di fabbrica

Il vero centro direttivo della rivoluzione (ma è anche espressione di debolezza) sono i tantissimi Consigli operai di fabbrica che diventano Consigli su base territoriale dove si raccolgono operai, studenti, intellettuali e contadini.
Il nuovo governo è nelle mani di Imre Nagy (FOTO), comunista nato politicamente a Mosca ma ritenuto “liberale” e soprattutto in grado di incarnare meglio della classe politica precedente (Rakosi, Kadar, Gero) gli interessi ungheresi e le simpatie popolari.

Nei primi giorni le truppe di occupazione appaiono in difficoltà e non sempre i soldati russi sparano agli ordini dei loro comandanti. Dopo 5-6 giorni di aspri combattimenti i russi dichiarano di voler abbandonare l’Ungheria. Apparentemente i rivoltosi hanno vinto.
Per alcuni giorni i ribelli vivono momenti di euforia perché con la partenza dei russi si aprono spazi politici in cui saranno gli ungheresi a decidere.

I russi tornano
In realtà non è così perché i russi fingono di andarsene ma rimangono vicini al confine e intanto fanno affluire nuovi reparti di uomini e carri armati anche in sostituzione di alcuni reparti logori o poco fidati.
Finchè nella notte tra il 3 e il 4 novembre 2500 carri armati (ma qualcuno parlò di 5000) irruppero in Ungheria puntando soprattutto su Budapest con l’intenzione di ridurla in cenere in caso di resistenza.
E la resistenza ci fu, anche oltre le oggettive possibilità militari dei manifestanti i quali furono sopraffatti da questa straordinaria potenza di fuoco messa in campo dai sovietici. Ma prima di arrendersi migliaia e migliaia di operai e studenti combatterono con mitra, fucili e bottiglie esplosive contro i carri armati con tantissimi episodi di vero eroismo.
Difficile quantificare i morti.

La repressione
Alcune fonti parleranno di 15mila-20mila e più le persone uccise, arrestate e deportate. Un bilancio non esagerato tende a quantificare in 5000 i morti sulle strade. Difficile quantificare i feriti e poi i tanti che finirono in carcere e furono successivamente condannati a morte. L’intervento sovietico spinse circa 200mila ungheresi a lasciare il loro paese rifugiandosi in Austria, Germania e perfino in Italia.
Il capo del governo, Imre Nagy, fu arrestato in quei giorni e subito portato in Urss. Molto probabilmente gli ordinarono di firmare un documento in cui ammetteva gli “errori” del suo governo ma lui si rifiutò. Bisogna dire che Nagy si comportò dopo l’arresto con grande coraggio e determinazione. Infatti oggi in Ungheria è ancora un eroe nazionale.
Venne condannato a morte a Budapest in un processo a porte chiuse e poi nel ’58 fu impiccato. Togliatti chiese a Mosca di impiccarlo dopo le elezioni di quell’anno in Italia: temeva ripercussioni negative al voto. Così fecero.

Le reazioni nel Pci
C’è un’intervista agghianciante (si può vedere in yt) in cui Ingrao, ormai vecchio, ricorda quei giorni. Ingrao era nel ’56 direttore dell’”Unità” e nella girandola di avvenimenti a Budapest “temeva di sbagliare”. Andò a casa di Togliatti (FOTO) nei giorni del secondo intervento sovietico e Togliatti gli disse che quel giorno avrebbe brindato “con un altro bicchiere di vino rosso!”
Ingrao avrebbe potuto dimettersi dall’incarico di direttore. Non fece così. Brillante giovane dei GUF (Gruppi universitari fascisti), vincitore più volte dei Littoriali, sapeva bene entro quali margini doveva agire.
Quando fu chiaro che la dirigenza moscovita aveva deciso l’intervento,Togliatti (che privatamente aveva sollecitato l’intervento militare) non ebbe nessun problema a schierarsi con la repressione e quindi lui stesso e altri autorevoli membri del partito scrissero articoli infamanti nei quali i rivoltosi erano via via definiti “fascisti”, “servi dell’imperialismo americano”, “controrivoluzionari”…
Tutti i 19 membri della Direzione si unirono al segretario. Anche Napolitano, allora giovane dirigente di Napoli, si unì al coro della dirigenza. Di Vittorio nei primi giorni dell’insurrezione prese posizione a favore dei rivoltosi (il suo articolo non fu pubblicato dall’”Unità”) ma poche settimane dopo Togliatti lo obbligò a pubblica abiura.
Solo alcuni intellettuali firmarono il cosiddetto “Manifesto dei 101”, tiepida critica alla direzione moscovita e soprattutto a Togliatti per la conduzione della vicenda. Alcuni politici e intellettuali uscirono dal partito (Antonio Giolitti, Fabrizio Onofri, Delio Cantimori, Renzo De Felice, Lucio Colletti, Piero Melograni) ma il vertice rimase saldo.
Tra la base comunista ci fu molto fermento in quei giorni con i funzionari che faticavano a convincere gli operai della bontà dell’intervento russo. In ogni caso nelle settimane successive non fu difficile recuperare il consenso stante anche la debolezza della posizione ideologica del Psi.

In Italia non c’era a sinistra nessuno, tranne deboli voci, in grado di raccontare agli operai la verità:
– la rivolta a Budapest non era stata organizzata da “fascisti” giunti dalla Germania e dall’Austria (200mila fascisti a Budapest?);
– la rivolta ungherese era una rivolta popolare nel senso migliore della parola; la politica dell’Urss doveva essere condannata in toto in quanto indebita interferenza negli affari di un paese straniero;
– soprattutto l’intervento sovietico smascherava il falso socialismo sovietico;
– il Pci si era schierato con l’oppressione.
Queste erano le verità di fondo.

Solo nell’86 ci fu un ripensamento nel Pci rispetto alle prese di posizione della Direzione del partito: in quell’anno Natta parlò in termini negativi della decisione di accodarsi a Mosca. Nell’89 Fassino presenziò a una manifestazione in onore di Nagy e nel ’90 era presente Occhetto al funerale di Nagy a Budapest.
Perché così tardi? Non poteva essere fatto prima? Il silenzio sulla questione ungherese è una delle tantissime prove che possiamo addurre per mostrare il legame di ferro tra Pci e Urss nonostante la tanto sbandierata “via italiana al socialismo” (Togliatti, ’56).

Le reazioni nel Psi
I socialisti condannarono l’invasione dell’Ungheria in nome sia della libertà del popolo ungherese ma anche perché i tempi erano maturi per un progressivo distacco di Nenni da Togliatti. Infatti in quell’anno i socialisti non rinnovarono il patto d’azione con i comunisti. Sono le prime “prove” di centro-sinistra. I dissidenti del Pci entrano nel Psi, es. Giolitti.

L’affare Suez
L’Urss, il Pc ungherese e il Pci furono fortunati perché proprio nei giorni della repressione ci fu la vicenda complessa della nazionalizzazione del canale di Suez con l’intervento armato anglo-francese contro l’Egitto di Nasser e così il Pci potè dire che così come l’imperialismo occidentale agiva in Egitto, con altre armi agiva a Budapest. Naturalmente l’imperialismo che agiva a Budapest era di marca occidentale.

In sintesi, per capire.
Nasser, leader del governo egiziano, nell’estate del ’56 decise di nazionalizzare il canale di Suez per ricavare denaro necessario per la costruzione della diga di Assuan e rafforzare il Paese. Fino a quel momento il canale era stato gestito dagli inglesi.
Inglesi e francesi (preoccupati per l’inevitabile innalzamento delle tariffe e perdita di prestigio internazionale) agirono militarmente occupando il canale approfittando di un attacco israeliano all’Egitto (fine ottobre ’56). In realtà l’attacco israeliano al Canale era stato concordato con Londra e Parigi.
Dopo pochi giorni gli Usa ordinano il ritiro del contingente militare anglo-francese dando ragione a Nasser. Inglesi e francesi si ritirano dalla zona del canale. I rapporti di forza erano quelli.
La vicenda mostra il declino di Francia e Gran Bretagna a livello mondiale rispetto agli Usa.
Da notare che anche Mosca appoggiava Nasser ma l’Urss impegnata in Ungheria non fece sentire la sua voce. Quindi ci fu la convergenza di interessi tra Usa e Urss sulla vicenda di Suez. Questo spiega anche la politica di non intervento degli Usa a Budapest.

Quali insegnamenti trarre?
E’ vero che la rivoluzione fu sconfitta e da quel momento in poi il popolo ungherese fu costretto al silenzio fino alla caduta del Muro di Berlino (’89). Ma è possibile imparare anche dalle sconfitte.
La rivoluzione ungherese mostrò il volto violento del falso socialismo sovietico ma mostrò anche di quale capacità di lotta sono capaci operai e studenti quando arriva il momento di dire basta all’oppressione, alla mancanza di libertà, allo sfruttamento e alla miseria.
La rivoluzione ungherese mostra anche il cinismo dell’Europa e degli Usa perché l’Ungheria apparteneva a un’area dove gli interessi occidentali non dovevano avere alcuna espressione e quindi gli ungherei potevano benissimo morire senza che l’ONU o le varie cancellerie muovessero un dito.

La rivolta contro il “falso socialismo” sovietico

gli avvenimenti in sintesi

Budapest, 23 ottobre – 9 novembre 1956

Sessant’anni fa proprio in queste settimane veniva repressa dai carri armati sovietici una delle rivoluzioni più importanti dell’intero Novecento: la rivolta ungherese contro il dispotismo sovietico.

Il 4 novembre del ’56 ci fu l’irruzione di 2.500 carri armati a Budapest e nell’intera Ungheria con 200.000 soldati dell’Armata Rossa e per i rivoltosi non ci fu nulla da fare.

La rivolta era durata una decina di giorni. Era iniziata il 23 ottobre e nonostante l’intervento immediato dei carri sovietici nei primi giorni il bilancio sembrava positivo con i russi disposti a trattare dopo aver subito una sonora sconfitta nelle strade di Budapest. In realtà stavano preparando la controffensiva, che scatterà nella notte tra il 3 e il 4 novembre. La sproporzione delle forze decretò la vittoria di Mosca pochi giorni dopo. Come si disse allora: “Una mosca aveva sfidato un elefante”.

Seppure sconfitta la rivoluzione ungherese mostrò al mondo la falsità del socialismo in Urss e in Ungheria: i rivoltosi erano in gran parte operai, studenti e intellettuali che chiedevano vera giustizia nel paese e a loro si rispose con il fuoco. Un socialismo che spara sugli operai che chiedono pane e rispetto deve essere per forza un falso socialismo!

La vicenda ungherese mostrò anche l’indifferenza delle maggiori potenze, soprattutto gli Usa, le quali non mossero un passo per venire incontro alla richiesta di intervento da parte dei rivoltosi dopo aver promesso per anni che avrebbero aiutato i “fratelli” al di là della “cortina di ferro”. Il fatto è che gli USA consideravano l’Ungheria e tutto l’Est europeo il “cortile di casa” dell’Unione Sovietica e non un’area dove il diritto internazionale dovesse essere difeso.

Così la cricca di Crushev potè sconfiggere la rivoluzione, processare e condannare a morte centinaia di rivoltosi, anche i membri del legittimo governo ungherese, senza che nessuno alzasse la voce in Occidente.

In Italia la stampa del Pci di Togliatti portò avanti un’oltraggiosa campagna diffamatoria sui cosiddetti “fascisti” di Budapest.

Tra il 23 ottobre e fine anno in Ungheria morirono negli scontri 2652 persone (cifre ufficiali), in realtà furono almeno 5000, la maggioranza a Budapest. I feriti quasi 20.000. Non ci sono dati ufficiali sulle condanne a morte anche negli anni successivi. Per l’Urss i morti furono 669 con 1500 feriti, le perdite più alte per l’Urss tra la II guerra mondiale e l’Afghanistan. L’intervento sovietico spinse circa 200.000 ungheresi a lasciare il loro paese rifugiandosi in Austria, Germania e perfino in Italia.

Quali insegnamenti trarre?

E’ vero che la rivoluzione fu sconfitta e da quel momento in poi il popolo ungherese fu costretto al silenzio fino alla caduta del Muro di Berlino (1989). Ma è possibile imparare anche dalle sconfitte.

– La rivoluzione ungherese mostrò il volto violento del falso socialismo sovietico ma mostrò anche di quale capacità di lotta sono capaci operai e studenti quando arriva il momento di dire basta all’oppressione, alla mancanza di libertà, allo sfruttamento nelle fabbriche e alla miseria. Capitalismo privato o capitalismo di stato per chi lavora in una fabbrica non c’è differenza!

– Giovani operai e studenti non volevano il capitalismo o la proprietà privata (il consumismo occidentale). Volevano quello che fu poi definito un “socialismo dal volto umano”, quindi il vero socialismo perché il socialismo non è sinonimo di oppressione, dittatura, violenze, gulag … ma è invece espressione di democrazia, potere dei lavoratori nelle fabbriche e crescita del benessere sociale e individuale.

Vorrei concludere con le parole di uno dei capi della rivolta, condannato a morte dopo la repressione militare. Si chiamava Istvan Angyal, ed era un operaio ebreo scampato da Auschwitz. Sappiamo che era un appassionato lettore di Lenin, quindi era un comunista ma era convinto che il comunismo fosse libertà e non oppressione. Accanto alla bandiera ungherese volle sulla sua tomba la bandiera rossa.

Leggiamo nel suo testamento:

Voglio una grande pietra grezza,

a memoria della massa anonima da cui proveniamo e per cui siamo diventati quello che siamo,

con cui siamo stati una cosa sola e con cui ritorneremo”