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Considerazioni sul Risorgimento

“E’ doveroso riaprire una nuova analisi del Risorgimento

a condizione però che non si delegittimi lo Stato unitario”

Galli della Loggia

Il 17 marzo 1861 a Torino il Parlamento proclamava Vittorio Emanuele II re d’Italia “per grazia di Dio e volontà della nazione”. Era la conclusione di due anni turbinosi (1859-60) dai quali era nato lo Stato italiano.

L’Italia cessava di essere“un’espressione geografica”, secondo lo sprezzante giudizio di Metternich oppure “una terra di morti”, così definita dal poeta Lamartine.

Probabilmente all’inizio del 1859 neppure i patrioti più ardenti avrebbero immaginato che poco più di ventiquattro mesi dopo i loro sogni unitari si sarebbero avverati.

La Seconda guerra di indipendenza con le vittorie di Magenta, San Martino e Solferino aveva permesso l’annessione della Lombardia asburgica al Regno di Sardegna; la spedizione dei Mille di Garibaldi aveva unificato il Sud borbonico al Regno sabaudo mentre Toscana ed Emilia nel marzo del ’60 avevano chiesto l’annessione allo Stato piemontese.

Nasceva così una nuova entità statale in Europa gravata da limiti strutturali e contraddizioni evidenti ma che da subito si poneva come la sesta potenza europea dopo Gran Bretagna, Francia, Impero russo, Impero austro-ungarico e Prussia.

Nel marzo del ’61 non tutta l’Italia era unificata: mancavano ancora il Veneto con Venezia (1866, Terza guerra d’indipendenza), Roma con il Lazio (20 settembre 1870, Porta Pia), Trento e Trieste (1918, vittoria nella Grande guerra).

Ma non erano solo la Questione Romana, i rapporti turbolenti con l’Austria e i rapporti difficili con la Francia di Napoleone III a impensierire Cavour a poche settimane dall’unità. A mano a mano che l’Italia si formava emergevano problemi tali da sgomentare chiunque, anche un brillante politico quale Camillo Benso conte di Cavour, il vero artefice dell’unificazione.

L’Italia si presentava all’appuntamento con la storia come un Paese con una classe dirigente fragile circondata da enormi masse contadine in condizioni di vita miserabili.

Nel 1861 su una popolazione di 21.777.000 abitanti solo 418.696 cittadini avevano il diritto di voto, pari all’1,9 per cento e di costoro solo 239.500 esercitarono questo diritto (52 per cento). Nel 1874 l’elettorato era salito al due per cento.

Non si poteva quindi dire che l’Italia postrisorgimentale fosse un Paese di democrazia avanzata visto che milioni di contadini e artigiani, la piccola borghesia impiegatizia e i nuclei di operai presenti nelle città erano tenuti distanti dalla gestione del potere.

Un altro problema tale da far temere che l’Italia appena nata potesse spaccarsi in due o più entità politiche era il cosiddetto “brigantaggio”, particolarmente virulento nei primissimi anni dopo il ’61 e tale da richiedere draconiani provvedimenti di tipo repressivo per evitare che la ribellione contadina potesse saldarsi con i tentativi di Francesco II di Borbone di ritornare sul trono di Napoli.

L’economia italiana in quel frangente si basava quasi interamente sull’agricoltura mentre l’industria moderna era praticamente assente. Ma se in alcune zone delle campagne piemontesi e lombarde erano nati criteri di gestione della terra di tipo capitalistico (forti investimenti in migliorie all’interno di medie e grandi proprietà, presenza di salariato agricolo, logica del profitto), nel Sud e in alcune plaghe del Centro Italia vigeva da secoli il latifondo baronale o demaniale che nessuna legge era riuscito a scalfire.

In queste aree, dominate spesso dalla malaria e dalla miseria senza speranza, vivevano masse di contadini che iniqui rapporti sociali condannavano all’abbruttimento e alla disperazione. Quando le navi a vapore cominceranno a solcare gli oceani, milioni di disperati delle aree più povere anche del Nord si riverseranno nel Nuovo Mondo alla ricerca di condizioni di vita meno barbare.

La miseria contadina appariva allora alla parte più sensibile della classe dirigente nazionale un grave ostacolo all’introduzione di rapporti sociali più dinamici. Il problema maggiore era rappresentato dall’autoconsumo dei contadini che avrebbe impedito a lungo l’espandersi delle attività produttive e del commercio.

Ma anche la condizione dei pochi operai italiani non era migliore. Il salario giornaliero di un’operaia andava da 50 centesimi a una lira, quello di un operaio era fra una e tre lire. E con 25 centesimi si comprava, più o meno, un chilo di farina di polenta oppure mezzo chilo di pane, oppure due etti di carne bovina. Lavorare un’intera giornata per un chilo di pane!

Altro grave problema era la debolezza delle infrastrutture che sembrava condannare nel tempo l’Italia alla condizione di Paese agricolo poco o nulla integrato con l’Europa che allora contava.

La realtà dell’epoca appare oggi sorprendente: 1.621 villaggi su 1.848 non avevano, intorno al ’60, alcuna strada di comunicazione. Vi erano poco più di un migliaio di chilometri di strada ferrata in tutta l’Italia, di cui solo 100 chilometri nello Stato della Chiesa e altri cento nel Sud borbonico. Le comunicazioni verso il Sud si arrestavano a Bologna (Milano-Bologna) e Venezia era isolata dall’Emilia. In Sicilia e Sardegna le ferrovie erano inesistenti.

Diciassette milioni di italiani nel 1861 erano analfabeti su una popolazione che allora raggiungeva quasi i ventidue milioni. Nel ’66 solo il 2,4 per cento è in grado di padroneggiare la lingua italiana: sono cinque italiani su mille.

Si fece poco per combattere questo grave ostacolo alla modernizzazione del Paese: la Legge Casati del ’59 rendeva obbligatori solo i primi due anni di insegnamento elementare mettendo però a carico dei comuni la gestione delle scuole con il pagamento degli stipendi dei maestri. E poi, in quale lingua avrebbero insegnato i maestri in Italia? Vedremo fra poco quanto fosse poco parlato l’italiano dopo il ’61 tra le masse popolari che conoscevano solo i rispettivi dialetti, ma anche tra la classe dirigente l’italiano era spesso una lingua ancora da imparare o usata con qualche affanno.

Potremmo continuare a lungo nell’elenco delle contraddizioni più stridenti dell’Italia del 1861 ma potrebbe bastare, per concludere il discorso, questa sola considerazione di Carlo Cattaneo di pochi anni prima: “Non conosciamo ancora le svariate forme naturali del nostro paese, e nemmeno i nostri dialetti e le riposte loro derivazioni; non conosciamo i segreti nessi che collegano questa lingua nostra alla civiltà precoce della Serbia e dell’India, e alla lunga barbarie dell’antico settentrione. Di molte letterature europee non abbiamo trattato alcuno; ci mancano persino i loro dizionari; siamo poveri affatto di cronologie, e delle istorie delle scienze, e d’altri libri che sian fatti per noi, per le cose nostre, e per le nostre menti. E però siamo costretti a giurare sulla fede di libri stranieri, nei quali l’ignoranza e il livore, o la boria nazionale ci cavilla ogni nostro onore… “.

“Un paese senza grammmatiche né vocabolari, senza storie, senza atlanti, senza cioè nessuno degli strumenti elementari per conoscere e capire se stessi e il mondo”, commenta amaramente Galli della Loggia la riflessione di Cattaneo (L’”Identità italiana”, Il Mulino 1998, p. 96).

Così si presentava l’Italia alla vigilia della sua nascita. A questo punto però vorrei sgombrare il terreno da ogni possibile equivoco.

La nascita dello Stato italiano, nonostante tutto, fu un fatto sicuramente positivo che tutti dovremmo riconoscere.

È difficile oggi immaginare quello che voleva dire l’esistenza di sette Stati sovrani più il Lombardo-Veneto asburgico all’interno della penisola italiana. Sette Stati volevano dire sette barriere doganali, sette sistemi monetari diversissimi tra di loro, pesi e misure non coincidenti, apparati legislativi frutto di tradizioni municipali, infrastrutture solo locali o regionali. Non a caso nel ’61 la rete ferroviaria italiana era di soli 2.000 chilometri (considerando anche il Lombardo-Veneto) rispetto ai 17.000 dell’Inghilterra e ai 9.300 della Francia.

Prima dell’avvento della Lira con la legge del 20 agosto 1862 esisteva una vera e propria “babele monetaria”: baiocco, carantano, carlino, doppia, ducato, fiorino, franceschino, francescone, lira, lirazza, marengo, onza, paolo, papetto, piastra, quattrino, scudo, soldo, svanzica, tallero, testone, fino agli zecchini di Pinocchio. E non bastava perché la “doppia” di Genova valeva quattro volte la “doppia” di Milano,  la vecchia lira di Modena una volta e mezza quella di Parma.

In totale nei territori che formano nel 1861 il Regno d’Italia circolavano 236 diverse monete metalliche che diventano 282 se consideriamo le terre ancora “non redente”.

In queste condizioni ogni progresso economico sarebbe stato impossibile per l’oggettiva difficoltà a commerciare e a viaggiare. Per andare da Milano a Roma o Napoli era preferibile imbarcarsi a Genova sia per lo stato pietoso delle strade ma anche per evitare i briganti che infestavano le poche vie di comunicazione.

Solo l’Italia unita, che era unità del mercato e delle attività produttive, poteva assicurare il rapido sviluppo di strade, canali, ferrovie, porti; solo l’unione di tutti gli ex Stati poteva assicurare una sola moneta, un unico sistema di pesi e misure (il sistema metrico decimale); solo un unico ministero dell’Istruzione poteva far nascere una scuola laica in un Paese dove per secoli le uniche scuole erano state quelle religiose.

E poi l’Ottocento fu il secolo delle nazioni in cui le aspirazioni nazionali ebbero una parte preponderante. Come poteva l’Italia rimanere lontana dalle speranze e dagli ideali che animavano belgi, polacchi, croati, sloveni, serbi, ungheresi, tedeschi fino a quel momento divisi tra di loro oppure fagocitati in grandi imperi multinazionali?

Un’ultima considerazione tra realismo e ironia: nel mondo globalizzato di oggi, in cui ci sono Paesi che hanno popolazioni che hanno superato il miliardo di individui, che cosa penseremmo del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla se esistesse ancora? E del Ducato di Modena e di Massa e Carrara? Oppure del Granducato di Toscana? Sarebbero lo zimbello dell’Europa.

Quindi l’Italia doveva nascere e svilupparsi in un’Europa dove accanto alle idealità nazionali già si affacciavano pericolosi nazionalismi che si sarebbero poi accaniti contro le nazioni più deboli o contro entità statali e regionali residuo del Medioevo e dell’età comunale.

Sarebbe sbagliato tuttavia vedere solo in chiave positiva lo sviluppo della storia unitaria. Le terribili condizioni in cui versava il Sud Italia nei primi anni dopo il 1861 sarebbero ulteriormente peggiorate con i decenni successivi.

Il Regno borbonico si presentava all’appello del 1861 come una grande area di sottosviluppo ben lontana dall’Europa dell’epoca. E se Garibaldi ebbe un facile compito durante la conquista del Sud, uno dei motivi fu lo sgretolamento dello Stato borbonico non imputabile, come dicono i neoborbonici, ai soli maneggi della Massoneria, degli inglesi e alla corruzione diffusa dagli uomini al soldo di Cavour tra i generali e i burocrati del Regno di Francesco II.

In realtà il Regno delle Due Sicilie era profondamente malato, anche se pochi allora ne erano consapevoli, e bastò lo scossone dei Mille per farlo cadere rovinosamente a terra.

Non c’è dubbio che l’unità peggiorò le condizioni dei contadini del Sud con i nuovi carichi fiscali, la coscrizione militare obbligatoria di tre anni (con i Borboni le tasse erano relativamente basse e il servizio militare era facoltativo), il peggioramento dei contratti agrari, l’introduzione del libero scambio che sgretolò la debole economia meridionale.

Il fenomeno del Brigantaggio postunitario fu un’aperta ribellione del Sud contadino di fronte a un effettivo peggioramento delle condizioni di vita unito a una profonda delusione per l’esito del processo risorgimentale che non aveva portato nè la terra in proprietà né un miglioramento delle condizioni di vita.

Non rimase altro che l’emigrazione di massa da una terra avara e aspra. Dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino all’inizio della Grande Guerra emigrarono dal Sud nove milioni di persone!

Nonostante tutte queste considerazioni la differenza tra le condizioni in cui il Sud soffriva centocinquanta anni fa e la realtà di oggi appare più che evidente.

C’è una fotografia che credo sia emblematica del grande cambiamento che il Sud ha vissuto negli ultimi decenni: siamo ad Africo (Reggio Calabria) ed è stata scattata nel 1951. Si vede un ambiente poverissimo in cui nello stesso spazio angusto vivono alcuni bambini sporchi, una madre e sul pavimento di terra battuta razzola un maiale.

Oggi ad Africo non esistono più simili situazioni di degrado e abbandono. Il vecchio borgo, simbolo di miseria millenaria, è stato abbandonato per la nuova Africo vicina al mare, le belle spiagge attirano frotte di turisti in crescita. Una nuova società civile e culturale ha ormai preso il posto del vecchio fatalismo e della atavica miseria.

Sicuramente esistono problemi di disoccupazione e di occupazione precaria, le prospettive per i giovani di Africo possono essere poco rosee, l’emigrazione al Nord una triste necessità. Ma quella fotografia di sessanta anni fa, specchio del profondo malessere del Sud che neppure il Risorgimento aveva scalfito, oggi è solo storia.

Giancarlo Restelli