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“Quando gli albanesi (e i disperati del mondo) eravamo noi”

“Quando gli albanesi (e i disperati del mondo) eravamo noi.

Storie dell’emigrazione italiana

Appunti per una conferenza

Il titolo è mutuato dal famoso libro di Gian Antonio Stella che 10 anni fa ebbe il merito di ricordare a noi smemorati la nostra imponente emigrazione.

Ventisette milioni di italiani espatriarono in un periodo di 100 anni andando a popolare le regioni più inospitali del pianeta, contribuendo in maniera decisiva allo sviluppo di continenti e singoli paesi lontani. E di questi 4 milioni erano clandestini.

Gli Usa ricevettero 5 milioni e mezzo di emigranti italiani, la Francia 4 e mezzo, la Svizzera 4 milioni, l’Argentina 3 milioni, la Germania 2m. e mezzo, il Brasile 1m. e mezzo, il Canada 600mila, il Venezuela 300mila. Oggi le persone con cognome italiano fuori dall’Italia sono 110 milioni.

Oggi nel mondo ci sono 6 Crotone, 5 Pavia, 4 Siena, 5 Como, 20 Palermo, 33 Firenze, 27 Verona, 44 Roma.

I nostri emigranti lavorarono nelle peggiori condizioni immaginabili, nelle foreste del Nord America, nelle piantagioni di caffè in Brasile, nelle miniere del Belgio e della Svizzera, a posare binari ferroviari negli Stati Uniti… dovunque ci fosse un lavoro malpagato che le popolazioni locali rifiutavano. Non chiedevano molto i nostri emigranti.

Eppure su tante sofferenze e tanto lavoro nel nostro Paese è caduta la dimenticanza, forse per evitare di ricordare che quanto stanno sopportando i cosiddetti “stranieri” o “clandestini” oggi in Italia l’hanno vissuto i nostri emigranti.

Stasera racconteremo qualche storia di migranti italiani. Sicuramente poche rispetto alle dimensioni del fenomeno.

Sono però convinto che è necessario recuperare dal sottosuolo della storia queste vicende che ci appartengono.

Vorrei iniziare con una poesia scritta da Gianfranco Galliani Cavenago (“Erranti nel mondo a cercar fortuna. La vicenda migratoria dei lavoratori italiani”)

“Da questa terra, l’Italia, Un tempo ingrata e matrigna, a milioni partirono. Erano figli di un popolo operoso e negletto. E andavano in Merica, nella nuova terra promessa, ove si pronunciavano parole sconosciute: libertà, uguaglianza, dignità.

Cercavano un riscatto dalla miseria, una vita finalmente rigenerata e con la mente gonfia di progetti, il cuore pulsante di speranze, varcarono il mare Oceano.

Pochi dettero loro il benvenuto e la taccia ingiuriosa di accoltellatore oscurò la fraterna accoglienza. Ma resistettero. Erano sorretti da una forte tempra morale. E da una antica speranza: cercavano lavoro e non disdegnavano fatiche: ebbero quello dei paria. Posarono binari, lasticarono e pulirono città, scavarono miniere e in silenzio costruirono un pezzo d’America”.

Perché si partiva “a cercar fortuna”?

Che cosa spingeva persone che fino a quel momento non avevano mai visto il mare e non erano mai saliti su di un treno ad attraversare gli oceani?

Le condizioni di vita nell’Italia di fine Ottocento appaiono oggi quasi incredibili.

Dall’ “Inchiesta Jacini”, pubblicata nel 1880: “Nelle valli delle Alpi e degli Appennini, ed anche nelle pianure, specialmente dell’Italia meridionale, e perfino in alcune province fra le meglio coltivate dell’Alta Italia, sorgono tuguri ove in un’unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame. E tali catapecchie si contano forse a centinaia di migliaia”. (siamo nel 1880!)

Il mondo è lanciatissimo alla fine dell’Ottocento, l’Europa conosce uno straordinario periodo di sviluppo (ferrovie, la prima lampadina elettrica, il fax, il telefono di Meucci, il primo ascensore a New York….).

In Italia invece dominava la più cupa miseria che oggi dovremmo cercare, per avere un elemento di paragone, nelle aree più povere di Asia, Africa e America latina.

Ancora dall’Inchiesta Jacini: “In Sicilia, tra le tante cause della decadenza morale del contadino siciliano c’è la malsanìa e la ristrettezza delle abitazioni, ove in una medesima stanza convivono persone di ambo i sessi e di diverse età, sdraiati talvolta, per mancanza di letto, sulla paglia (padre, madre, figlie e figli, cognati, fanciulli) in compagnia del maiale o di altre bestie, in mezzo al sudiciume e al lezzo, ed in quella compiono ogni operazione della natura”.

Ma anche Sondrio, Piacenza, Treviso, Parma… dove oggi i livelli di vita sono molto alti e la gente è orgogliosa del proprio benessere, le condizioni di vita non erano dissimili dalla Sicilia.

Oggi come sappiamo la “speranza di vita” in Italia è di circa 75 anni, al pari dei paesi più evoluti.

Sapete quale era la “speranza di vita” nel 1861, al tempo dell’Unità d’Italia? 6,58 anni…., che vuol dire leggermente di più di 6 anni e mezzo.

Arriva a 14 anni alla fine del secolo e a 30 anni nel 1920.

Non che nel 1861 si morisse tutti a 6 anni…. Si poteva arrivare a volte a 40–50 e anche oltre, il problema era la spaventosa mortalità infantile che abbassava drasticamente la media.

Il calcolo di 6 anni e mezzo si può fare escludendo i nati e considerando solo i morti. Per 40 anni, fino all’anno 1900, la metà dei morti annuali in Italia erano bambini con meno di 5 anni.

A uccidere di più i bambini era la “malattia delle mani sporche”, cioè la gastroenterite, poi c’erano le malattie polmonari: la bronchite, la polmonite, la tubercolosi. Poi il “male blu”, ossia il colera (34mila morti tra il 1884 e il 1887); poi c’era la malaria, endemica in molte regioni italiane.

Non c’era prevenzione, la sporcizia era terreno di coltura di tante infezioni, l’analfabetismo era la regola e la classe dirigente non faceva nulla per lenire questa situazione.

Si viveva nella stalla, si stava con gli amici nella stalla, soprattutto d’inverno, si mangiava nella stalla accanto agli animali e naturalmente ci si ammalava.

Noi che a volte abbiamo nostalgia delle antiche veglie serali di tutta la famiglia nella stalla, delle filastrocche raccontate ai bambini negli inverni interminabili, dovremmo renderci conto che quando i mulini erano tutti bianchi la gente faceva la fame e moriva come mosche.

Si poteva rimanere in queste condizioni?

I primi a partire furono i settentrionali. Dal 1876, che potremmo considerare l’anno primo dell’emigrazione italiana, partirono principalmente dal Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Veneto. Il Sud è quasi assente.

Poi arrivò il turno dell’Italia del Sud, dal 1901. Sicilia, Campania, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata e Calabria arrivano a poco meno della metà dei partenti. Le medie annuali dalla Campania furono di 63mila persone, 75mila dalla Sicilia, 40mila dalla Calabria.

Quanto ha pesato il Risorgimento?

Le condizioni delle masse del sud peggiorano molto con l’unificazione:

L’unità peggiorò le condizioni dei contadini con i nuovi carichi fiscali / tasse più forti al Sud es. tassa sul macinato

– la coscrizione militare obbligatoria di tre-cinque anni (con i Borboni le tasse erano relativamente basse e il servizio militare era facoltativo)

–  il peggioramento dei contratti agrari, a vantaggio di una nuova borghesia agraria

– l’introduzione del libero-scambio

– scolarità obbligatoria (!)

– lo sviluppo delle ferrovie nei decenni successivi paradossalmente porterà altra miseria

– svolta protezionistica del 1887 che penalizza molto l’agricoltura del sud per proteggere l’industria nascente nel Nord. Quando arriva il grano americano favorito dai bassi costi dei trasporti, il Sud sarà fortemente penalizzato

– la conseguenza fu l’emigrazione di massa verso le Americhe e lo spopolamento di intere zone

Una società povera divenne ancora più povera.

In ogni caso l’Unità d’Italia fu positiva ma non nell’immediato.

Le “navi di Lazzaro”

Il distacco dalla famiglia provocava traumi, lacerazioni, contrasti perché a partire erano i più giovani e lasciavano genitori anziani oppure mogli con tanti figli piccoli.

Poi c’era il lungo viaggio per raggiungere il porto d’imbarco che poteva essere Trieste, Genova, Napoli, ma anche Le Havre, Bordeaux, Marsiglia, Brema o Amburgo.

Per arrivare nel continente americano era necessario viaggiare per circa un mese sulle navi a vela, 15-18 giorni con le navi a vapore (alla fine del secolo).

L’oceano era affrontato su quelle che erano chiamate “navi di Lazzaro”, meglio “navi carretta” (come diciamo oggi), sempre a rischio di incidenti o naufragi, stipati in terza classe in condizioni che non possiamo neppure immaginare.

Basti pensare che fino ai primi anni del secolo sui piroscafi per gli emigranti non era neppure prevista una sala mensa, si mangiava seduti dove capitava con la scodella tra le gambe e il pane messo per terra.

Quando andava bene c’era un medico per + di mille emigranti con poche medicine e pochissimo spazio di infermeria per epidemie che puntuali scoppiavano in quelle drammatiche condizioni di vita.

Era normale che raggiunta la meta ci fossero 30-40 decessi per tifo, malattie broncopolmonari, morbillo, influenza, incidenti vari e addirittura morti per asfissia, stipati come bestie in spazi insufficienti.

Se poi scoppiava un’epidemia di colera, il bilancio poteva essere di più di 150 morti su un trasporto di 800 – 1000.

Come il Carlo Raggio, partito da Genova il 29 luglio del 1894 con a bordo l’epidemia di colera. Il comandante avrebbe dovuto tornare indietro dopo 300 miglia quando si manifestò il primo caso. Non lo fece, per non pagare i biglietti agli emigranti.

Con l’infezione a bordo prima l’Argentina e poi il Brasile rifiutarono l’attracco della nave. Il Carlo Raggio dovette tornare indietro. Arrivò all’Asinara per la quarantena il 27 settembre (2 mesi dopo, era da due mesi che stavano sull’acqua). Erano morte 141 persone per il colera, altre 70 per malattie varie, in totale 211, ossia 4 al giorno.

E’ inutile dire quale fu il risultato del processo a carico dell’armatore e del comandante. Nulla! Sono solo esempi di stragi dimenticate, cancellate, rimosse.

In questi “lazzaretti viaggianti”, chiamati anche “piroscafi-cimitero”, se c’era mare mosso, e puntualmente arrivava in una navigazione di alcune settimane, in terza classe succedeva il finimondo e si riduceva in un letamaio dove era impossibile pulire fino all’arrivo perché tra persone e fagotti non si poteva muoversi.

Arrivati al porto di destinazione si dava una sommaria pulita ai locali e si facevano salire altre persone.

“Scesi nel corridoio. Dio mio! Quale tanfo! C’era da perdere il respiro – scrisse Ferruccio Macola, un giornalista del tempo – “Figuratevi 500 persone ammassate in uno spazio di altrettanti metri cubi d’aria, con una ventilazione insufficiente nelle condizioni normali, + insufficiente allora, perché gli oblò a murata erano rasenti la linea d’acqua, e gli altri con il mare agitato non si potevano aprire… io inorridivo, mentre il sudore mi colava da tutti i pori, allargati quasi istantaneamente in quella temperatura asfissiante e corrotta…. Si fece il giro delle corsie. Che orrore! Ci tenevamo ben stretti alle traversine di legno, perché il suolo imbrattato un po’ qua un po’ là di materie ignobili, rendeva pericoloso qualunque movimento. Non mi sono mai spiegato come tante creature umane potessero vivere là dentro, qualche volta 20, qualche volta 30 e + notti, respirando le esalazioni più pestifere in un’aria umida, vischiosa, corrotta dai gas acidi sviluppati dal cibo mal digerito e rigettato”.

I naufragi

E poi sui lazzaretti viaggianti, tra epidemie e morti scaricati in mare, c’erano anche i naufragi.

Naufragò l’”Ortigia” nel 1880 con 149 morti, naufragò il “Sudamerica” nel 1888 con 80 morti, affondò il “Principessa Mafalda” nel 1927 con 657 morti al largo dell’Argentina e tante altre navi naufragarono, come l’”Utopia” (!), con 576 annegati nel marzo del 1891 presso Gibilterra.

Erano in genere vecchie navi destinate al disarmo ma ancora usate per gli emigranti e se morirono in tanti è perché gli armatori facevano salire il doppio delle persone che dovevano far salire, con la complicità delle autorità portuali italiane.

Il naufragio del  “Sirio”

Il naufragio forse più famoso è quello del “Sirio”, avvenuto il 4 agosto del 1906, vicino alle coste spagnole dopo la partenza da Genova.

Il “Sirio” naufragò perché mancavano carte nautiche dettagliate della costa spagnola e quindi la nave urtò pesantemente alcuni scogli mentre si dirigeva a forte velocità in una zona pericolosa.

Non sarebbe stato meglio allora navigare lontano dagli scogli, visto che per risparmiare non c’erano a bordo le carte nautiche? Ma così sarebbero aumentate le spese di combustibile.

La mancanza di scialuppe (solo 10) e la fuga immediata del comandante e dei suoi uomini, i + lesti a salire sulle scialuppe di salvataggio, fecero il resto.

Morirono a centinaia, tra le 440 e le 500 (il numero non poté mai essere precisato perché l’armatore aveva fatto salire più passeggeri rispetto alla cifra ufficiale), e nessuno pagò…. come sempre!

Parliamo un attimo di attualità

A proposito di naufragi, si calcola che dal 1996 ad oggi (quindi in 13 anni) nelle acque italiane siano annegate 1.291 emigranti clandestini, che diventano 3.230 se consideriamo le acque di Libia, Egitto, Tunisia e Italia. 3.230 persone sono sei-sette “Sirio” che si inabissano con il loro carico umano in 13 anni….

I linciaggi

In assoluto, gli italiani hanno il triste primato mondiale del popolo più linciato. Alcuni esempi.

Aigues Mortes, 21 agosto 1893: un massacro mai scritto sui libri delle scuole in Francia e tanto meno in Italia. Fu il peggior linciaggio che subirono gli italiani all’estero e il più grave mai accaduto in Francia.

Aigues Mortes è una bella cittadina nella Francia meridionale, nella selvaggia Camarque (il regno dei cavalli liberi), una delle zone ancora oggi incontaminate dell’Europa occidentale.

Oggi decine di migliaia di italiani visitano ogni anno questa simpatica cittadina racchiusa nelle mura medievali e cercano di vedere a distanza quel mare da cui il Re Santo, San Luigi, partì nel 1270 per la settima e ultima crociata.

Dall’alto delle mura si vedono bene le saline che allora costituivano l’unica ricchezza della zona, una delle più depresse della Francia alla fine dell’Ottocento.

Un lavoro pesantissimo, quello nelle saline, effettuato con temperature di 40-50 gradi, sotto un sole che prosciugava ogni fibra dei lavoratori.

Da tutta la Francia arrivavano lavoratori che in 15 – 20 giorni avrebbero messo da parte un bel po’ di denaro. Ma ormai da diversi anni arrivavano anche gruppi numerosi di siciliani e piemontesi che si accontentavano di poco e lavoravano + dei francesi. I padroni preferivano gli italiani.

La concorrenza italiana aumentava i carichi di lavoro e diminuiva i salari scontentando i francesi.

È quindi una lotta tra poveri, tra morti di fame di qua e al di là delle Alpi, fomentata non dagli azionisti del sale, ma dalle autorità locali di Aigues Mortes.

Un settimanale della zona scrisse dopo l’eccidio: “Gli italiani cominciano a esagerare con le loro pretese. Presto ci tratteranno come un paese conquistato. Fanno concorrenza alla manodopera francese e si accaparrano i nostri soldi a vantaggio del loro paese. La presenza degli stranieri in Francia costituisce un pericolo permanente, spesso questi operai sono delle spie: generalmente sono di dubbia moralità, il tasso di criminalità è elevato: del 20 per mille, mentre nei nostri non è che del 5”.

Avrete notato come queste frasi sembrino scritte oggi: gli stranieri in Italia vogliono conquistare il nostro paese, ci tolgono il lavoro, sfruttano il nostro paese inviando tutto il denaro guadagnato a casa loro, sono terroristi, vendono le loro donne e tendono tutti o quasi a delinquere.

Scrive Gian Antonio Stella che tutto quanto in Italia si scrive di razzista e xenofobo contro gli immigrati é stato scritto con gli stessi toni contro di noi quando eravamo noi gli albanesi, i rumeni, i montenegrini, oggi i libici.

Il 16 agosto del 1893 ad Aigues Mortes la situazione è incandescente: gli imprenditori preferiscono gli italiani mentre fuori le mura bivaccano 2.000 francesi in attesa della chiamata.

Chi sia stato il primo ad attaccar lite non è chiaro, ma credo che non sia importante. Ci sono in ogni caso continue provocazioni da una parte e dall’altra, i primi scontri con lanci di sassi e qua e là compare qualche coltello.

Mentre la situazione potrebbe ancora essere posta sotto controllo dalla polizia locale, alcuni francesi corrono ad Aigues Mortes gridando che les italiens ! (era un insulto) avevano aggredito e ucciso alcuni connazionali. Non era vero, al massimo qualche ferito.

L’odio, il caldo, il vino fecero il resto e iniziò la caccia all’italiano. Iniziò la caccia ai babì (eravamo chiamati rospi), ai macaronì (mangiatori di pasta), ai Crihstòs (avevamo la fama di bestemmiatori) al grido di Viva la Francia! E Fuori gli stranieri!

Gli italiani erano 500 circa e contro di loro si scagliarono in migliaia armati di forche, fucili, pistole, armi da taglio.

L’esercito arrivò tardi e la polizia locale fu impotente.

Il bilancio ufficiale fu di 9 operai morti e 16 dispersi. Si raccontò che questi 16 avevano preferito tornare in patria o emigrare ulteriormente in Brasile, invece furono ammazzati a bastonate, affogati nei canali, uccisi con armi da fuoco e calpestati dalla marea urlante.

Il giorno del funerale le 9 bare erano seguite da due persone, tutti gli operai italiani erano stati rimpatriati in fretta.

Siamo in Francia ma il processo finì all’italiana: quattro giorni dopo il massacro (!) tutti gli imputati furono assolti. Le vittime non ebbero alcun avvocato e lo Stato italiano non si costituì neppure parte civile. Una vergogna, sintetizza tristemente Gian Antonio Stella.

Non era la prima volta che emigranti italiani erano ammazzati come cani in Francia. Tra il 1881 e il 1883 gli italiani uccisi i Francia furono una trentina, soprattutto a Marsiglia, dove gli italiani nel 1881 erano un quinto del totale.

Ma gli italiani vennero linciati in Argentina nel 1872, in Algeria nel 1871, in Australia nel 1934, negli Stati Uniti più di una volta; perfino nella civile e ordinata Svizzera, a Zurigo nel 1896. Tutte storie che abbiamo rimosso e che invece dovrebbero essere raccontate, una a una.

Il linciaggio di New Orleans

Tra i peggiori linciaggi antiitaliani vi fu quello accaduto a New Orleans nel 1890.

Tutto inizia quando la sera del 15 ottobre del 1889 qualcuno sparò al capo della polizia di New Orleans, il tenente David Hennessy, il quale prima di spirare ebbe il fiato per dire solo “Latini”.

Latini voleva dire italiani, ma anche spagnoli, messicani, greci, francesi….. ma bastò questa parola per scatenare una violenta repressione anti italiana.

Il sindaco ordinò di “arrestare tutti gli italiani” di New Orleans. Due ore dopo l’omicidio erano centinaia nelle carceri. Tre ore dopo la polizia aveva già accusato di omicidio 18 italiani.

Non c’erano prove e due settimane dopo il giudice fu costretto ad assolvere tutti gli imputati.

Mentre si attendeva la scarcerazione degli imputati la classe dirigente di New Orleans chiamò a raccolta l’intera comunità della città per il giorno 14 marzo del 1890 alle 10 del mattino.

20mila abitanti non fecero mancare la loro presenza. Si tennero discorsi infiammati in cui gli italiani erano quelli della “mano nera”, ossia la mafia.

Non solo, “gli italiani” – disse il sindaco – “di rado acquistano una casa, si radunano sempre in bande, non imparano la lingua e non hanno rispetto per il governo o obbedienza per le leggi. Sono sudici nella persona e nelle abitazioni e le epidemie, qui da noi, scoppiano quasi sempre nei loro quartieri. Sono codardi, privi di qualunque senso dell’onore, di sincerità, di orgoglio, di religione e di qualsiasi altra dote atta a fare di un individuo un buon cittadino. New Orleans potrebbe permettersi (se fosse legale) di pagare per la loro deportazione”.

Il seguito è facilmente immaginabile. Mentre le urla delle 20mila persone accalcate crescevano, 60 persone armate fecero irruzione nel carcere mentre altre 40 impedivano ai più di entrare.

Alcuni italiani furono ammazzati come cani in carcere, altri, liberati dal direttore, furono lo stesso ammazzati inermi mentre si addossavano all’ultimo muro del carcere. In totale furono 11 gli italiani linciati.

Ma la mattanza non finì qui. I cadaveri e qualcuno ancora agonizzante furono appesi ad un albero e crivellati di colpi fino a sussultare.

E poi il macabro: nelle celle per qualche ora ci fu un lungo pellegrinaggio di uomini, donne con i loro bambini, con le mamme che imbevevano i loro fazzoletti nel sangue dei dago.

Dago è il nomignolo più diffuso e insultante negli Stati Uniti contro gli italiani. Veniva da dagger, che vuol dire coltello, quindi accoltellatore. “Italiani, popolo dello stiletto”, si diceva.

Ma spesso erano chiamati “Black dago” (dago negri) mettendo in risalto la presunta origine africana degli italiani.

La classe dirigente americana fece quadrato intorno a quello che era accaduto. “Un’ottima cosa”, commentò Theodore Roosevelt, allineandosi ai commenti del New York Times e del Washington Post.

E che lo dicesse lui che 11 anni dopo sarebbe diventato il 26 presidente degli Usa, rivela quanto profondo fosse l’odio degli americani contro gli italiani.

Eppure gli italiani dettero un grande contributo alla crescita economica della Luisiana lavorando nelle piantagioni di cotone, dove prima lavoravano gli schiavi neri, nelle fabbriche dove si produceva lo zucchero e la melassa.

A New Orleans erano diventati 30.000 su una popolazione di 242.000 persone. E lavorando sodo e risparmiando tutto il magro guadagno erano riusciti ad acquistare proprietà immobiliari, ad aprire caffè e ristoranti, a monopolizzare il mercato del pesce e della frutta, a produrre ricchezze per 43 milioni di dollari l’anno. Insomma, sintetizza Gian Antonio Stella, “davano fastidio”.

Oggi in Italia, i cosiddetti stranieri producano il 9% del Pil. A breve la quota salirà al 10%.

Nascono in continuazione piccole imprese con titolari immigrati, gli “stranieri” acquistano case, sostengono l’economia, mandano i loro figli a scuola permettendo a tanti come me di poter contare su uno stipendio stabile.

Tutto questo dovrebbe essere messo davanti agli occhi di chi vede nell’emigrazione nel nostro paese solo degrado e malaffare.

Sacco e Vanzetti

Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono due emigranti italiani giunti negli Stati Uniti, tutte e due nel 1908. Sacco viene dalla Puglia mentre Vanzetti è piemontese.

Si conoscono durante la prima guerra mondiale quando giungono in Messico nel 1917 per evitare l’arruolamento nell’esercito americano.

A Boston Vanzetti vivacchia vendendo pesce come ambulante mentre Sacco lavora come operaio in un calzaturificio.

Sono due anarchici, girano con la pistola, anche se fino a quel momento non ci sono reati da imputare a loro tranne la diserzione in Messico.

Il giorno del loro arresto stavano organizzando una protesta per l’uccisione da parte della polizia del socialista di origine siciliana Andrea Salsedo: dopo un brutale pestaggio Salsedo era stato buttato giù dal 14esimo piano dell’edificio della polizia. Motivazione ufficiale: suicidio! Salsedo come Pinelli nel 1969, dopo Piazza Fontana, anche lui “suicidato”.

Il 5 maggio del 1920, come detto, Nicola e Bartolomeo sono arrestati e accusati di due rapine, nella seconda delle quali sono state uccise due persone. Rischiano la sedia elettrica.

La sentenza verrà eseguita sette anni dopo, nel 1927, dopo un processo senza prove e privo della + elementare legalità.

Il processo celebrato contro i due italiani, tra il giugno e il luglio del 1920, acquista un clamore mondiale. La classe dirigente americana vuole approfittare del processo per dare una lezione a tutti i sovversivi mentre molte forze di sinistra nel mondo difendono i due operai immigrati.

Per capire l’attenzione internazionale intorno a questo caso bisogna riflettere sul fatto che solamente tre anni prima dell’arresto dei due, in Russia, nel 1917, c’è una rivoluzione comunista, che minaccia di dilagare in tutto il mondo.

Anche negli Stati Uniti c’è molta paura dei “rossi”: socialisti, anarchici, sindacalisti, non c’è differenza.

Contemporaneamente c’è molta paura nella classe dirigente americana nei confronti degli italiani”: se all’inizio del secolo gli italiani venivano usati per azioni di crumiraggio ai danni dei lavoratori americani ora, in prima linea, ci sono proprio gli italiani, che si segnalano tra i lavoratori più sindacalizzati e politicizzati.

Gli anarchici italiani sono i più attivi e decisi nella loro politica di terrore. Da Patterson, un fiorente centro industriale del New Jersey, era partito Gaetano Bresci per uccidere il re Umberto Primo. Il regicidio accade il 29 luglio dell’anno 1900 a Monza.

Ancora da Patterson era partito Michele Angiolillo, un altro “tirannicida”, e aveva assassinato nel 1897 in Spagna il primo ministro Antonio del Castillo.

Sempre da Patterson parte l’anarchico polacco Leon Zolgosz che uccide il 6 settembre 1901 addirittura il presidente degli Stati Uniti, William McKinley.

Insomma gli anarchici italiani non si limitavano a far politica solo con le parole ma amavano decisamente di più quella che era definita la “propaganda con i fatti”.

Prima ancora di Osama Bin Laden, Wall Strett venne colpita da un attentato devastante, nel 1920, quando Mario Buda, un altro anarchico italiano, fece esplodere un carretto pieno di esplosivo davanti alla Banca Morley e Stanley, colpita ancora l’11 settembre del 2001. Quel giorno del 1920, il 16 settembre, l’attentato di Mario Buda provocò 33 morti e 200 feriti.

Possiamo immaginare la reazione della stampa americana a tutti questi attentati sanguinosi: italiani uguale anarchici! così come oggi si dice spesso islamici uguale a terroristi.

Il razzismo e la xenofobia nascono quando si attribuisce a un intero gruppo etnico comportamenti delittuosi che appartengono solo a una minoranza.

Gli italiani negli Usa al tempo del processo a Sacco e Vanzetti sono + di 5 milioni. Quanti erano  i terroristi? Sicuramente pochi, anche se micidiali.

Quanti sono i terroristi islamici oggi in Italia rispetto ai milioni di mussulmani che lavorano e producono nel nostro paese? eppure lo stereotipo del clandestino islamico e terrorista è duro da estirpare.

Scrive Gian Antonio Stella che la vera differenza tra noi emigranti allora e loro immigrati oggi in Italia è solo temporale: noi abbiamo vissuto l’esperienza prima (es. l’accusa di essere tutti terroristi e mafiosi), loro dopo.

Nicola e Bartolomeo erano innocenti: non avevano né rapinato né ucciso. Furono in sostanza i capri espiatori di una campagna di stampa anti italiana così virulenta e insultante che avrebbe spinto anche Benito Mussolini e il Papa a chiedere la grazia.

Nonostante la raccolta di milioni di firme e manifestazioni imponenti in tutto il mondo, l’intervento di prestigiosi intellettuali a difesa di Sacco e Vanzetti (Nik end Bart, come erano chiamati), la sentenza venne eseguita nel penitenziario di Boston nella notte tra il 22 e il 23 di agosto del 1927. Nicola aveva 36 anni, Bartolomeo 39.

“Brava America maledetta: hai ucciso te stessa!”, scrisse John Dos Passos, un grande scrittore. “Una macchia indelebile nella storia americana: un  tributo alla follia xenofoba e ideologica”, giudicherà lo storico Arthur Slensinger.

Mezzo secolo dopo, esattamente il 23 agosto del 1977, la memoria di Nicola e Bartolomeo verrà riabilitata dal governatore del Massachusset, Michael (Maicol) Dukakis, anche lui immigrato, il quale riconoscerà che il processo era stato viziato da (testuale) “pregiudizi contro gli stranieri e ostilità contro tendenze politiche eterodosse”.

Poco prima di morire Bartolomeo Vanzetti scrisse: “Volli un tetto per ogni famiglia, un pane per ogni bocca, un’educazione per ogni cuore, la luce per ogni intelletto”.

Così Nicola Sacco si rivolse al figlio adolescente nell’ultima lettera: “Mio caro figlio, ho sognato di voi giorno e notte. Non sapevo più se la mia era vita o morte. Volevo tornare ad abbracciarti, te e la tua mamma. Perdonami figlio mio, per questa morte ingiusta che ti toglie il padre quando sei in tenera età.

Possono bruciare i nostri corpi oggi, ma non possono distruggere le nostre idee. Esse rimangono per i giovani del futuro, per i giovani come te. Ricorda figlio mio, la felicità dei giochi, non tenerla tutta per te.

Cerca di comprendere con umiltà il prossimo, aiuta il debole, aiuta il perseguitato, l’oppresso. Loro sono i tuoi migliori amici. Ricorda figlio mio, la felicità dei giochi….  non tenerla tutta per te…”

Italiani morti in miniera: Marcinelle

Marcinelle, Belgio, 8 agosto 1956: nel Bois du Cazier muoiono 256 minatori, 136 dei quali sono italiani.

Una tragedia che tutti ricordano ancora oggi a Crotone, a San Giovanni in Fiore, a Castelsitrano in Calabria, a Manoppello e Turrivalignano in Abruzzo. Metà dei 136 morti italiani erano abruzzesi.

L’Abruzzo nel 1945 era un paese di fame, c’era la campagna povera e ancora più povera era la pastorizia. Manoppello e la vicina Lettomanoppello erano i due paesi degli scalpellini abruzzesi, abilissimi artigiani che plasmavano la pietra nera e bianca della Maiella. Ma il dopoguerra aveva seppellito questo mestiere e riempito la vita di stenti. Gli uomini emigravano in America, in Australia, in Francia. E in Belgio!

140mila emigranti italiani erano stati attirati in Belgio da manifesti che comparivano in tutte le città italiane. I manifesti dicevano:“Solo 18 ore di treno per arrivare in Belgio”; erano indicati i salari, sicuramente migliori rispetto a quelli italiani. E poi tante promesse: “Assenze giustificate per motivi di famiglia, carbone gratuito, biglietti ferroviari gratuiti, premio di natalità, ferie, vitto e alloggio presso la cantina della miniera, contratto annuale…”. E poi la promessa che faceva decidere per il sì: “Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”.

Tante promesse sui manifesti di color rosa…  ma non era vero niente!

Le condizioni di lavoro erano durissime in cunicoli a volte alti non più di un metro e mezzo dove si respira gas e si vive nel terrore che il gas si incendi; l’alloggio era in baracche che prima erano servite durante la guerra ai tedeschi per i prigionieri russi e poi agli americani per i prigionieri tedeschi. Il lavoro era pericoloso, tanto che dal 1945 al 1963 ci furono 867 morti italiani nelle miniere belghe.

La silicosi era la regola per tutti. La silicosi, prodotta dalla polvere del carbone, uccideva e prima ancora rendeva impotenti. Le maschere servivano a poco.

Nei manifesti rosa della silicosi non c’era traccia. Così come non c’era traccia del terribile grisù, il gas che si sprigionava dalle pareti delle miniere e uccideva incendiandosi.

Contro il grisù i minatori tenevano in tasca dei topolini e portavano a centinaia di metri di profondità dei canarini. Canarini e topi avrebbero avvertito per primi la presenza del gas, morendo.

Il governo italiano aveva incentivato l’emigrazione, dopo il ’45, da un paese sconfitto e umiliato dalla guerra. L’Italia non aveva materie prime ma aveva braccia in eccesso? I nostri governi trovarono la soluzione: da ogni emigrante in Belgio l’Italia avrebbe avuto quintali di carbone a basso costo per le industrie del triangolo industriale.

Ma non c’è solo la fame di energia: il governo italiano stipula con quello belga un accordo di tipo schiavistico: nessuna garanzia per la sicurezza del lavoro, nessuna assicurazione seria sulla salute, sugli incidenti, sulla vecchiaia. I nostri emigranti: un gregge da sfruttare a buon mercato!

L’incidente di Marcinelle avvenne l’8 agosto del 1956 nel Bois du Cazier a 975 metri di profondità. La dinamica dell’incidente mette in evidenza l’assoluta precarietà del lavoro dei minatori.

Due vagoncini colmi di carbone vengono caricati sulla gabbia-ascensore. Il secondo carrello è mal posizionato e mentre sale trancia i fili del telefono e soprattutto trancia i cavi dell’alta tensione e la condotta dell’olio.

Si sprigiona subito una fiamma che è alimentata dall’olio e dalle tante strutture in legno del pozzo. L’incendio è alimentato soprattutto dalla ventilazione necessaria per portare aria a quella profondità.

L’incendio, di inaudita violenza, si estende in tutta la miniera: un banale incidente di carico si è trasformato in un disastro.

Non esistono condizioni di sicurezza nella miniera: le strutture portanti delle gallerie sono tutte in legno, le porte anti incendio, che separano le gallerie, sono in legno; non esistono porte stagne, non esistono vie di fuga, la maschere anti gas sono poche e inservibili….

In queste condizioni anche un banale incidente diventa una tragedia. Nel Bois di Cazier 272 minatori restano intrappolati nelle gallerie percorse dal fuoco che brucia tutto, un torrente di fuoco alimentato dall’impianto di ventilazione.

Solo sei si salveranno, 263 morirono: alcuni bruciati, molti invece soffocati dal fumo.

Marcinelle non è l’unico incidente grave che funesta l’emigrazione italiana. Facciamo un salto indietro.

Gottardo, Svizzera, 1882. E’ inaugurata l’ “ottava meraviglia del mondo”: è il tunnel ferroviario del Gottardo i cui lavori erano iniziati 10 anni prima nel 1872.

Nel 1882 la Noi Zurcher Zaitung pubblicò i versi di un poeta locale:“In tutta Elvezia suona il giubilo: è finito! Si traforò il Gottardo, bastione di granito. Urrah per gli ingegneri e per la loro scienza che quei giganti alteri vincono con sapienza !”

In questa “poesia” non vengono neppure ricordati per sbaglio i veri artefici del “miracolo della tecnica” (altra espressione mirabolante della stampa svizzera), ossia gli operai del Gottardo.

Il numero dei lavoratori fu sempre di 17.000 durante i dieci anni di perforazione della montagna.

E il tributo di sangue fu gravissimo: 177 morirono nel tunnel e 307 lungo l’intero tratto. Il totale dei morti e dei feriti gravemente fu di 847 persone e molti di loro erano italiani.

Non c’erano solo gli incidenti durante il lavoro, particolarmente numerosi perché la direzione dei lavori non voleva spendere soldi per la sicurezza e voleva rispettare a tutti i costi i tempi di consegna del tunnel.

Molti lavoratori morirono di tifo, polmonite e perfino vaiolo e colera. Le condizioni di vita nelle baracche erano spaventose, uno stesso letto serviva a due o tre operai visto che si lavorava a turni, la sporcizia regnava sovrana.

Italiani morti in miniera: Monongah

Ma il maggiore disastro minerario, in cui furono coinvolti emigranti italiani, avvenne a Mònongah in Virginia, il 6 dicembre 1907. Monongah è ancora oggi il più grande disastro minerario della storia degli Stati Uniti.

Quel 6 dicembre del 1907, 49 anni prima di Marcinelle, ci fu una terribile esplosione a 70 metri di profondità, che fu udita fino a 35 chilometri di distanza. L’esplosione era stata originata da una gran quantità di grisù, gas facilmente infiammabile. Tutti i minatori scesi quella mattina nel pozzo morirono.

Le autorità dettarono un elenco di 350 vittime ma è probabile che il numero fu maggiore. Un giornale locale fece salire le vittime a 957.

Tra le 350 vittime ufficiali, 171 erano italiane.

Erano emigrati da località molisane (un centinaio), calabresi (una quarantina) e abruzzesi (una trentina). Tra i paesi più colpiti i molisani Frosolone (14 vittime), Duronia (36 vittime), Roccamandolfi, Bagnoli del Trigno, Torella del Sannio; i calabresi San Giovanni in Fiore (una trentina di vittime), San Nicola dell’Alto, Falerna, Strongoli, Gizzèria, Castrovillari e gli abruzzesi Atri, Civitella Rovèto, Cìvita d’àntino.

E’ interessante scorrere l’elenco delle vittime perché in realtà non troviamo nomi e cognomi italiani.

Nomi e cognomi dei minatori italiani morti nell’esplosione erano stati americanizzati all’arrivo ad Ellis Island, a New York.

Così accanto ai vari Carl Abatta, French Abatta, John Bonasa, French Garrasco troviamo i James Lerant, i Tony Gall, i Tony Frenck , addirittura un Dominick Richwood, italiano anche lui. A Ellis Island si voleva fare di loro subito degli americani e intanto li si mandava a morire dove gli americani… non volevano morire.

Italiani clandestini: 30mila Anna Franck

Vorrei raccontarvi brevemente la storia di alcune bambine. Non vi dirò per ora in quale paese vivevano.

Lucia viveva con i genitori in una stanza di un appartamento abitato anche da altre famiglie. Quando mamma e papà andavano al lavoro, e questo capitava 6 giorni su 7, la chiudevano dentro a chiave. Uscì fuori per la prima volta di casa quando aveva tredici anni. E solo allora poté andare a scuola.

La storia di Anna è simile. Di giorno resta chiusa in casa. Le rare volte che può scendere in cortile non deve parlare con nessuno: sa solo l’italiano e i vicini possono accorgersi della diversità. Per spaventarla, la madre le racconta che basta una parola, una sola e arriva la polizia a punirla. Non sa cos’è l’altalena. Non ha mai sfiorato la sabbia con le dita. Non riesce a correre perché le manca il fiato. Quando esce dal nascondiglio e può andare a scuola, ha otto anni. La maestra la descrive assente, spesso impaurita. Disegna animali minacciosi di fronte a una piccola bambina.

Rosina invece è ancora piccola. Un giorno cadde in casa e si incrinò due costole: fino al rientro dei genitori non fece un lamento. Davvero strana la storia di queste tre bambine, ma i genitori non sono gli orchi di tante storie.

Rosina, Anna e Lucia sono bambine italiane che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta vivevano in Svizzera illegalmente. Fuorilegge. Clandestine. Come Anna Franck, chiusa nella soffitta di Amsterdam, per sfuggire le retate dei nazisti. Solo che qui non siamo in Olanda durante la guerra ma nella civile e pacifica Svizzera, spesso presa come modello di federalismo e convivenza.

Di bambini come loro, ancora a metà degli anni Settanta, ne avevamo in Svizzera almeno trentamila. Portati dai genitori calabresi e veneti, siciliani e lombardi, violando la legge che impediva qualunque forma di ricongiungimento familiare, anche quando i genitori lavoravano da anni nella Confederazione Elvetica. Piccoli fatti entrare di straforo e sepolti vivi, per anni, in un appartamento di periferia. Senza poter uscire, andare ai giardini, farsi qualche amichetto.

Nel film “Pane e cioccolato”, interpretato da un indimenticabile Nino Manfredi, il protagonista, un cameriere italiano stagionale, dice che negli armadi degli italiani in Svizzera ci sono + bambini che vestiti.

Marina Frigerio e Simone Burgherr, due studiosi elvetici, hanno scritto un libro sui nostri bambini in Svizzera costretti a vivere chiusi in casa come Anna Frank. Si intitola “Bambini nascosti”. È un testo scritto nel ’92.

Da notare che quando esce questo libro le prime navi cariche di profughi albanesi sono già arrivate a Brindisi da pochi mesi. E in Svizzera avevamo ancora migliaia di bambini clandestini!

Nel 1990 vivevano in Svizzera 121.704 stagionali e 69.404 erano sposati. Immaginando che ogni famiglia aveva due bambini, si può pensare che circa 140.000 figli di stagionali vivevano o nascosti o separati dai genitori.

Erano così tanti quei bambini, racconta la Frigerio, che «qua e là, protette in genere da qualche parrocchia o qualche comunità religiosa, esistevano perfino delle scuole clandestine. Elementari. Anche medie. E sono andate avanti fino agli anni Ottanta».

Mai stati clandestini!?

Una delle leggende legate alla nostra emigrazione è che noi non siamo mai stati clandestini, magari siamo stati insultati, disprezzati e calunniati, anche linciati…  ma mai clandestini!

Non è affatto vero, scrive Stella nel suo libro: accanto a un’enorme emigrazione legale c’è stata, parallela, un’emigrazione illegale con milioni di persone che passavano in tutti i modi in Svizzera, Francia, Germania, anche Stati Uniti.

Per un intero secolo gli emigranti italiani hanno rischiato la vita per passare clandestinamente in Francia e in Svizzera attraverso il Piccolo San Bernardo, la Fenetre Durand, il cammino di Rochemolle in Savoia o il pericoloso ghiacciaio del Col Colon (Valle di Susa).

Oppure tentavano di raggiungere la Francia, nottetempo, al di là di Ventimiglia, alle spalle di Mentone, lungo il famigerato Passo della Morte, un terribile strapiombo dove oggi si sfracellano ancora slavi, rumeni, curdi e cinesi, mentre ieri erano gli italiani a morire.

L’ultimo clandestino italiano morto presso Mentone si chiamava Angelo Trambusti, aveva 26 anni e faceva il panettiere a Bagno di Ripoli. Il negozietto non gli permetteva di vivere e così tentò di passare in Francia per fare lì il panettiere. Cadde nel vuoto nel 1962… solo l’altro ieri.

Il fenomeno dei clandestini italiani è stato così imponente da entrare di prepotenza nella letteratura e nel cinema. I transiti notturni sulle Alpi lasciarono la loro impronta nel “Mondo dei vinti” di Nuto Revelli, scritto 40 anni fa.

Leonardo Sciascia è autore di un racconto che nelle battute finali fa davvero sorridere il lettore. Il titolo è “Il lungo viaggio”: è la storia di un gruppo di clandestini siciliani, che vogliono raggiungere New York partendo dalla Sicilia e si mettono nelle mani di un trafficante, anche lui siciliano.

“Nel Nugiorsi vi sbarco, a due passi da Nuovaiorche!” (testuale). Dopo 12 giorni in mare (il lungo viaggio) furono sbarcati sulla spiaggia ancora sicula di Santa Croce Camarina. Quindi, dalla Sicilia alla Sicilia.

E poi vorrei ricordare “Il cammino della speranza” di Pietro Germi, uno dei nostri film più belli sull’emigrazione, forse il più toccante.

È la storia questa volta di 50 siciliani abbandonati nella bufera nel dicembre del ’46 e soccorsi dalle guardie francesi di frontiera, che quella volta non li respinsero. Ma non andava sempre così.

E’ interessante notare che le organizzazioni che si occupavano di far passare il confine ai clandestini erano sempre di italiani, soprattutto del nord ma anche del sud. Erano i passeur, contrabbandieri ma spesso veri delinquenti, che si facevano pagare lautamente il passaggio e poi consegnavano alle guardie di confine i clandestini o peggio li abbandonavano al loro destino in cima ai passi d’inverno oppure in prossimità di crepacci e burroni.

Esattamente come gli scafisti oggi, che ci riempiono di sdegno quando si sbarazzano del loro carico umano buttandolo a mare.

Queste mie considerazioni sono dedicate a uomini e donne che per sfuggire la fame in Italia affrontarono lunghi viaggi in condizioni che destano raccapriccio ancora oggi, uomini e donne di tutte le regioni italiane che vennero sfruttati ignobilmente da governi, imprenditori e uomini d’affari…. uomini e donne che avrebbero sicuramente qualcosa da dire a tutti gli smemorati in Italia che oggi rifiutano le persone come loro.

Giancarlo Restelli