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I cannoni in piazza: 6-10 maggio 1898 a Milano

I cannoni in piazza: 6-10 maggio 1898 a Milano

Appunti

Non possiamo limitarci a leggere gli avvenimenti del 1898 come se fossero avulsi dal contesto storico di fine Ottocento.

E’ necessario prendere in considerazione almeno i 4 anni che vanno dalla sconfitta di Adua (1896) fino alla uccisione del re Umberto I nell’anno 1900 con la svolta politica in senso liberale attuata dal duo Giolitti-Zanardelli.

E’ un quadriennio convulso e tumultuoso che secondo Sergio Romano ricorda per molti aspetti il primo dopoguerra fino all’avvento del fascismo (1918 – 1922).

Adua, 1 marzo 1896

L’evento da cui partire è la grave sconfitta che l’esercito italiano subisce ad Adua (1 marzo 1896) di fronte all’esercito abissino dell’imperatore Menelik.

L’opinione pubblica è sconvolta sia per le perdite umane (7.000 soldati) sia dalla fine ingloriosa del colonialismo italiano dopo tanti sogni di gloria militare e di sfruttamento benefico delle terre africane per le popolazioni italiane che emigravano in America.

Ma soprattutto crolla il mito della “Terza Roma” (Roma imperiale, Roma rinascimentale) e i sogni di grandezza imperiale dell’Italia umbertina (Carducci, Crispi).

La sconfitta era in gran parte da attribuire ai vertici militari del tempo, in particolare alle rivalità del duo Baratieri e Baldissera, ma rivelava in filigrana tutta la debolezza dello Stato italiano, della sua economia e rivelava anche drammaticamente la distanza rispetto alle altre nazioni europee.

La principale vittima di questa ondata di sdegno fu Francesco Crispi, politico siciliano, garibaldino ai tempi dei Mille, colui che aveva più fortemente voluto la campagna di Etiopia come occasione per forgiare l’”italiano nuovo” con una guerra vittoriosa.

Ma cadendo Crispi, venivano abbandonati anche quei tentativi di riforma dello Stato e della società che Crispi aveva cercato di attuare, anche contro il parlamento, negli anni precedenti.

A Crispi bisogna attribuire il più coerente tentativo di riformare lo stato e gli italiani prima di Mussolini. Ma con Adua tutto cade.

Sonnino, “Torniamo allo Statuto”

Non a caso il 1897 si apre con un articolo che fece molto discutere. Sidney Sonnino, uomo politico di lungo corso, proprietario terriero toscano, scrive “Torniamo allo Statuto” ed è un articolo che appare sulla “Nuova Antologia” il 1 gennaio del ’97.

La tesi di Sonnino era chiara: bisognava riformare profondamente lo Stato ridando al re quelle prerogative che lo Statuto albertino gli attribuiva ma che erano state prese dal Parlamento.

In sostanza era un invito al re a intervenire per attuare tutti quei cambiamenti che partiti e parlamento non apparivano in grado di attuare.

Il re tacque e il sistema dei partiti insorse contro Sonnino, ma i problemi rimanevano sul tappeto.

Crisi economica e “proteste dello stomaco”

In quegli anni i problemi a livello economico erano molto gravi:

– dal 1887 erano attive tariffe doganali che proteggevano gli agrari del sud e i primi industriali del nord ma le tariffe aumentavano i costi di produzione a tutto svantaggio delle classi popolari.

– nel 1890 una grave crisi finanziaria a livello mondiale aveva provocato il famoso scandalo della Banca Romana (1893) rivelando una palese collusione tra politici, banchieri e affaristi. La crisi aveva addirittura travolto Giolitti e rivelato le responsabilità di Crispi

– nel 1897 un pessimo raccolto di grano in Italia aveva fatto salire notevolmente il prezzo del pane. Nello stesso tempo la tariffa doganale non era stata abolita.

– nel 1898 la guerra tra Spagna e Stati Uniti per Cuba aveva fatto salire ancora di più il prezzo del pane provocando tumulti e proteste già dall’aprile. Le “proteste dello stomaco” le definì Napoleone Colaianni.

Dal 1861 al fine secolo emigrarono dalla sola Lombardia 519.000 persone.

L’esercito in piazza tra violenze e repressioni

Ma era ancora più grave l’atteggiamento dello Stato nei confronti delle proteste operaie e contadine a partire dall’Unità d’Italia.

L’unico mezzo che utilizza la classe dirigente italiana per contenere scioperi e manifestazioni era l’esercito in piazza.

Nel 1893 in Sicilia un forte movimento di contadini era stato represso dallo stesso Crispi con decine di morti (I Fasci siciliani). Prima ancora il cosiddetto brigantaggio dopo l’Unità era stato represso violentemente ammazzando i rivoltosi, incendiando villaggi e deportando i prigionieri.

Dovunque era esplosa la protesta lo Stato era intervenuto con lo stato d’assedio e l’esercito che sparava senza preavviso, come al tempo dei moti del macinato (anni) oppure quando era esplosa la protesta nelle campagne padane, in particolare nel Polesine e nel mantovano con le agitazioni rimaste famose delle “boje” (“la boje, la boie e de boto la va fora” / la pentola bolle, bolle e di colpo trabocca / evidente immagine dell’esasperazione dei contadini ridotti alla fame).

Nel 1892 era nato il Partito socialista dei lavoratori italiani (dal 1895 Psi) / 100.000 iscritti /  che la classe dirigente aveva interpretato come partito rivoluzionario mentre invece aveva una marcata vocazione riformista. Già nel ’94 Crispi pone il Psi fuori legge approfittando della situazione di tensione in Italia.

Intanto gli attentati anarchici aumentavano di intensità dando l’idea di una Italia sull’orlo di una rivoluzione sociale portata avanti da due nemici dello stato liberale: socialisti e anarchici (i “sovversivi”) da una parte mentre dall’altra c’erano le forze cattoliche che dopo Porta Pia erano viste come avversarie dello stato.

Nel 1897 il re era scampato a un attentato compiuto da un anarchico.

Nello stesso anno il Psi aveva aumentato i propri parlamentari da 12 a 20 e questo era stato interpretato come l’annuncio della rivoluzione alle porte: “Non abbiamo assistito a una elezione, ma a una rivoluzione. Dal 1876 non si è più visto in Italia nulla di simile”, titolava un giornale piemontese.

La paura e la fame: il 1898

Insomma, quando inizia il 1898 il dato più chiaro è la paura di un rovesciamento sociale attuata dai “sovversivi”, “paura e sbalordimento” delle classi dirigenti come sintetizzò Colajanni, l’idea di essere sull’orlo del baratro.

Questo può spiegare ma non giustificare la violentissima repressione delle rivolte in tutta Italia e in particolare a Milano nel maggio del ’98.

“Fame da un lato e paura dall’altro” sono le condizioni del ’98 milanese secondo S. Romano.

Non vi poteva essere rivoluzione perché non c’erano partiti rivoluzionari in Italia:

–         gli anarchici non erano capaci di mettersi alla testa delle masse per la loro natura politica

–         la classe dirigente del Psi non era rivoluzionaria e in nessun momento guidò le lotte

–         non erano rivoluzionarie le forze della Sinistra (radicali, repubblicani).

Le masse non furono guidate da alcuna organizzazione e in effetti dovunque furono represse e sconfitte

Crescita impetuosa del capitalismo a Milano

Cerchiamo di capire le ragioni profonde di quanto è accaduto a Milano nel ’98.

Milano, negli ultimi decenni dell’800, con poco più di mezzo milione di abitanti, è la prima città industriale italiana: la percentuale della popolazione impiegata nell’industria è il 29% della popolazione attiva mentre a Torino è del 18% (dati del 1871).

Favoriscono il prepotente sviluppo industriale l’apertura del tunnel ferroviario del Gottardo nel 1882 e poi il tunnel del Sempione nel 1906.

Le grandi aziende milanesi

– Nel 1884 si costituisce la Edison  per valorizzare la nuova energia: l’elettricità. Nel 1887 Milano è la prima città a essere elettrificata (sostituendo le lampade a gas).

– Nel 1898 Milano ha assicurato il fabbisogno energetico con il trasporto di energia elettrica da Paderno d’Adda

– Nel 1894 si costituisce la Comit (Banca commerciale italiana) con prevalenti capitali tedeschi

– Nel 1885 si costituisce il Credito Italiano

Ci sono tutte le migliori condizioni per fare di Milano la Manchester italiana.

Infatti Milano possiede l’elettricità, vie di comunicazione verso i mercati europei, possiede i capitali e possiede anche la forza-lavoro da impiegare nel processo produttivo: ogni anno la popolazione milanese aumenta di 10.000 unità che per 4/5 arrivano dalle campagne lombarde, emiliane e venete.

Nel 1898 sono 40.000 gli operai che lavorano a Milano. Centomila pendolari arrivano a Milano ogni giorno.

– Il fulcro dell’industria è il settore tessile e in particolare il settore cotoniero lungo l’asse Milano-Legnano, Busto Arsizio e Gallarate.

Tra le più importanti famiglie ricorderei la Crespi che possiede numerosi stabilimenti di filatura e tessitura.

La Bassetti nasce nel 1885, la Bernocchi nel 1891.

– L’industria siderurgica prende slancio con i forni elettrici che eliminano il problema del combustibile. Nel 1895 viene costruita a Rogoredo la più grande ferriera lombarda, la Radaelli-Falk.

– L’industria meccanica assorbe molti operai come la Helvetica (la futura Breda) nella fabbricazione del materiale ferroviario, la Franco Tosi costruisce macchinario tessile, caldaie a vapore e motori con 500 operai.

– Nel settore elettrico è molto attiva è la Pirelli (2.700 tra operai e impiegati con una lira e mezza al giorno e 11 ore di lavoro), soprattutto nel settore della produzione di cavi elettrici e di pneumatici per biciclette. Nel settore elettrico è destinata a una grande fortuna la Ercole Marelli nata nel 1891

Inizia a formarsi il polo di Sesto San Giovanni.

Nel 1881 il successo dell’expo dà il senso della modernità di Milano.

Le condizioni di vita e di lavoro del proletariato milanese

Alla fine dell’Ottocento Milano è quindi il maggior centro finanziario e industriale italiano, la città che quindi ha raggiunto il maggior sviluppo capitalistico.

Si è sviluppata come conseguenza dello sviluppo delle forze produttive una borghesia industriale, commerciale e redditiera che possiede ¼ dei depositi a risparmio dell’intero paese.

Ma il caotico sviluppo costringe migliaia di proletari a vivere in condizioni precarie.

Secondo il Corriere della Sera dell’epoca, alla fine del secolo 10.000 persone non hanno alcun domicilio su una popolazione di circa 510.000 abitanti.

Milano aveva 269.000 abitanti nel 1861, ora la popolazione è raddoppiata mentre milioni di italiani emigrano.

Il Corriere pubblica le prime inchieste in cui si descrivono la sporcizia e il degrado dei quartieri operai, la miseria delle campagne dove le famiglie vendono i bambini a faccendieri che poi li avrebbero utilizzati per l’accattonaggio a Parigi e Marsiglia: le “petite italiens”.

Insomma a Milano si erano create le stesse condizioni di sub-umanità che erano apparse agli albori della rivoluzione industriale a Londra, Manchester, Liverpool.

Nascono nuovi quartieri popolari

I quartieri operai erano cresciuti in modo disordinato al di fuori della cerchia dei Navigli, soprattutto verso l’area a nord est della città in direzione Milano-Monza-Lecco: Turro, Crescenzago, Greco, Gorla, Musocco e Sesto san Giovanni sono i quartieri con il più alto indice di crescita.

Secondo alcuni storici subisce le più profonde trasformazioni sono subite da Milano a fine secolo (e fino al 1915) rispetto ai cambiamenti degli anni ’50 e ’60.

L’indice di affollamento (dati 1911) è di 1,25 persone per locale: ma oltre 100.000 persone vivono in alloggi costituiti da una sola stanza e oltre 30.000 in alloggi costituti da 2 stanze. L’indice di affollamento arriva a toccare punte di 4,67 persone per locale nei quartieri più abitati.

Queste condizioni si spiegano con il deficit di abitazioni e con il conseguente alto costo degli affitti (come avviene oggi con i nuovi emigranti a Milano).

Le condizioni igieniche dei quartieri popolari sono disastrose: imperversa la tubercolosi, la mortalità infantile è molto alta (fino al 30% nei quartieri operai), a Sesto San Giovanni la fognatura sarà operante solo dal 1930.

I giornali dell’epoca (Corriere, La Perseveranza, l’Osservatore cattolico) affrontano spesso il tema del degrado di Milano descrivendo quartieri malfamati, dove è opportuno non girare la sera e la notte e cresce la criminalità organizzata.

C’è un dato che illustra meglio di altri le drammatiche condizioni di vita: la vita media degli operai alla fine dell’Ottocento è di soli 47 anni, a Milano è sensibilmente inferiore.

Secondo i dati del 1885 il 50% dei giovani che si presentano alla visita di leva sono scartati.

Un giornale dell’epoca parlò di “barbarie igienica che fa pensare al più remoto medioevo”

La vita media molto bassa è legata soprattutto al precoce inserimento nel mondo del lavoro: nel 1901 nel settore tessile il 30% della manodopera è costituito da bambini e adolescenti tra i 9 e i 15 anni, con turni di lavoro di 11-12 ore e con il lavoro notturno.

E’ inutile dire quanto potevano essere malsani e pericolosi gli ambienti di lavoro e quanto potessero essere alti gli incidenti sul lavoro.

Addirittura nel 1902 una legge impone di regolamentare il lavoro di donne e bambini vietando il lavoro notturno per le donne e portando a 12 il limite minimo per l’assunzione: non si fece nulla perché gli imprenditori continuano ad assumere chi vogliono minacciando il licenziamento per chi non si adegua.

La legge viene aggirata imponendo alle donne di firmare una dichiarazione in cui sceglievano il lavoro notturno mentre il lavoro dei bambini continua facendo scappare i bambini quando di tanto in tanto arrivava l’Ispettorato del lavoro (“porte di salvataggio”).

Dovrebbe essere chiaro che a Milano era nata una situazione esplosiva, fatta di sfruttamento, rancore e miseria, che aveva bisogno solo di un’occasione per scoppiare.

1898: anno orribile

I primi mesi del ’98 sono scossi in tutta Italia da continui e ripetuti scioperi e proteste al grido di “pane, lavoro e abbasso le tasse”. Dalla Sicilia al nord Italia l’Italia popolare è in fermento e dovunque si contano i morti.

Oltre al pane erano aumentati il prezzo del sale, del petrolio da illuminazione, dei medicinali e del vestiario. Ma era l’aumento del prezzo del pane quello ritenuto più iniquo, anche perché permaneva il dazio che incideva del 40%.

In aprile scoppia la guerra ispanica-americana e il governo non diminuisce il dazio sul grano. La protesta divampa in tutto il paese.

In particolare nei primi giorni di maggio un quintale di pane sale da 23 a 34 lire.

Quindi al kg il pane costa 0,34 lire. Un operaio della Pirelli arrivava a 1 lira e mezza quindi poteva comprare meno di 5 kg di pane.

E’ inutile dire che il pane era un elemento fondamentale nell’alimentazione quotidiana. Dai tempi di Renzo e Lucia le cose a Milano e in tutta Italia non erano cambiate.

Un kg di pane a testa era chiamato il “pane da munizione” (il pane era paragonato all’importanza delle munizioni per il soldato).

Insomma, la ribellione era prevedibile e i morti annunciati!

Il 1-2 maggio a Bagnocavallo ci sono 6 morti. Il 2 maggio un morto a Piacenza e uno a Fìgline Valdarno. Il 4 maggio 4 morti a Sesto Fiorentino.

Maggio ’98: divampa la “protesta dello stomaco”

Milano: 5 maggio

Le 4 giornate di Milano (6-9 maggio) sono precedute dalla morte il 5 maggio di Muzio Mussi, figlio del vicepresidente della Camera, Giuseppe Mussi. Sono i soldati a sparare su Mussi a Pavia mentre cercava di placare gli animi.

Turati scrive un manifesto che si conclude con queste parole: “Il paese salvi il paese”.

Iniziano le “Cinque giornate di Milano alla rovescia” (Carducci)

6 maggio (venerdì)

A Carducci dobbiamo un’altra celebre espressione nata in queste settimane: “Il fango sale”

La notizia arriva subito a Milano dove Muzio era molto conosciuto e provoca le prime proteste il 6 maggio davanti alla Pirelli quando la polizia arresta un operaio che distribuiva volantini. All’arrivo della polizia ci fu all’esterno della Pirelli un lancio di sassi con l’arresto di un altro operaio.

Fino a qui nulla di grave.

Alla notizia dell’arresto operai di Ponte Seveso si unirono nelle proteste. Al tramonto del 6 Filippo Turati, issato sulle spalle da due operai, tenne all’esterno della Pirelli un discorso in cui in sostanza disse che non era ancora arrivato il momento della rivoluzione e bisognava stare calmi (linea del socialismo riformista).

“Non alla pazienza dell’asino, vi invito. Ma alla prudenza ragionata di cittadini, di operai consci dei loro diritti”.

Dopo il discorso un corteo di operai e di studenti si diresse verso la caserma dove era rinchiuso l’operaio che aveva tirato i sassi. C fu una carica della cavalleria e due tram messi di traverso.

La fanteria, probabilmente intimorita da un migliaio di dimostranti, seppure non armati, fece fuoco e un operaio fu ucciso con un poliziotto colpito per errore dai soldati. In totale saranno due i caduti delle forze dell’ordine.

7 maggio (sabato)

Dopo l’eccidio dell’operaio il giorno 7 fu proclamato lo sciopero generale e furono erette barricate in tutta la zona del centro: da Porta Venezia in via Torino fino a via Orefici, poi in corso Ticinese, Porta Vittoria, via Moscova…

Gli industriali reagiscono chiudendo le fabbriche e aumentando quindi la protesta. I giornali milanesi intanto chiedono l’uomo forte e l’intervento dell’esercito.

E’ Milano a sollecitare a Roma la repressione e non viceversa.

Questore e prefetto ritengono di avere di fronte un vero movimento rivoluzionario organizzato volto a conquistare la città.

Nel pomeriggio del 7 venne da Roma la decisione governativa di proclamare lo stato d’assedio e di nominare Bava Beccaris “regio commissario straordinario con pieni poteri”.

Beccaris può contare su 20.000 uomini e su notevoli rinforzi che affluiranno in città dal 7 maggio. In totale Beccaris poteva contare su 38 battaglioni di fanteria, 13 squadre di cavalleria, 9 batterie di campagna.

È difficile invece calcolare il numero di cittadini che protestano nelle piazze e nelle vie.

Bava Beccaris, che Montanelli descriva come un uomo “grasso, grosso e malfatto” era un ufficiale di 67 anni che aveva fatto una onesta carriera combattendo in Crimea, nella II e III guerra d’indipendenza.

Era un tipico generale piemontese, ottuso e reazionario. Si convinse di essere alle prese con un movimento insurrezionale e decise la linea dura con la riconquista della città.

Il 7 fece arrestare il direttore del quotidiano progressista “Il Secolo” e fece chiudere in città tutte le organizzazioni socialiste e cattoliche.

8 maggio: il giorno dei cannoni

Il giorno 8 (domenica) i cannoni da campagna e i mortai che Beccaris aveva a disposizione spararono ripetutamente contro le barricate di Porta Ticinese e Porta Garibaldi provocando le prime vittime anche tra coloro che erano alle finestre o si trovavano lì per caso (persone alla finestra). Gli ordini di Beccaris erano di sparare a vista ed ad “alzo zero”.

La sera dell’8 Beccaris telegrafa a Di Rudinì dicendo che la città era stata pacificata. Ma gli scontri continuano.

9 maggio: il convento sotto bersaglio

Il 9 maggio ci fu un episodio che la dice lunga sull’isterismo che aveva preso il Beccaris.

In corso Manforte c’era un convento di Cappuccini che come ogni giorno a mezzogiorno si stava preparando a fornire cibo ai poveri della città.

Saputo che in corso Monforte c’era un assembramento dei gente, Beccaris fece sparare con un cannone sventrando il muro di cinta e colpendo a morte alcune decine di poveri e monaci.

I sopravvissuti vennero portati in catene in carcere (28). Il quotidiano cattolico “Le Perseveranza” lodò Beccaris e anche il cardinale di Milano, Ferrari, elogiò l’atteggiamento del generale improntato a “ordine e giustizia” (poche parole in difesa dei frati).

10 maggio: l’ordine è tornato a Milano

Di Rudinì telegrafa a Beccaris: “Dalla quiete di Milano da lei così virilmente ristabilita dipende forse la quiete di tutto il regno”.

Il Corriere loda la repressione e chiede di continuare con i provvedimenti straordinari: “I tempi sono mutati, è ora di limitare la libertà di stampa e di associazione garantita dallo Statuto” (12 maggio).

Da notare che durante le tumultuose giornate del 6 – 7 – 8 – 9 maggio ci fu la più totale latitanza dei dirigenti socialisti e della Camera del Lavoro. Nessuno cercò di dirigere la lotta verso obiettivi politici……..

Un altro dato importante da rilevare è l’unità della classe dirigente di Milano nel momento della repressione: i politici, la chiesa, i giornali (es. il Corriere della Sera) sono concordi con la linea dura di cui Beccaris è l’espressione.

Quanti morti?

Secondo le autorità furono 80 con 450 feriti, ma secondo Paolo Valera, socialista, autore di un bel libro su questi fatti che visse in prima persona, i morti furono 118. Secondo altre fonti 300-350. Gli arresti furono 2.000. solo due i morti tra le forze dell’ordine: uno colpito per errore, l’altro colpito da una tegola, le vere “munizioni” del popolo milanese con i sassi delle strade.

Naturalmente non è una questione di numeri: anche 80 sono tanti!

Inizia la repressione indiscriminata: la “guerra di sterminio contro il socialismo” (Benedetto Croce)

L’offensiva di Beccaris a Milano e del governo guidato da Di Rudinì fu contro socialisti, radicali, repubblicani e clericali, tutti ritenuti rivoluzionari ed eversivi.

E’ la “guerra di sterminio contro il socialismo” come scriverà poi Benedetto Croce.

Di Rudinì approfittò dell’occasione per chiudere in tutta Italia un centinaio di giornali di opposizione, tutte le Camere del Lavoro, tutti i giornali socialisti, le Società di Mutuo Soccorso. Inoltre chiuse 70 comitati diocesani e 2500 comitati parrocchiali.

Furono chiuse anche le università di Roma, Firenze, Padova Bologna e vennero eseguiti in tutta Italia migliaia di arresti.

Più tardi i tribunali istituirono 12 processi per 803 imputati e 668 condannati per un totale di 1.488 anni di carcere.

Il trionfo di Bava Beccaris

La degna conclusione di questa desolante pagina di storia patria fu il conferimento al valoroso generale Bava Beccaris della croce di Grande Ufficiale dell’ordine militare di Savoia – come si premurò di telegrafargli da Roma il capo del governo, Di Rudinì: «Ella ha reso un grande servigio al Re e alla patria». E meno di un mese dopo, il 6 giugno 1898, il Re in persona mandava al Bava Beccaris il seguente telegramma: «Ho preso in esame le proposte delle ricompense presentatemi dal ministro della guerra a favore delle truppe da lei dipendenti e col darvi la mia approvazione fui lieto e orgoglioso di onorare la virtù di disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero mirabile esempio. A lei poi personalmente volli offrire di motu proprio la Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia, per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della patria. Umberto»

Bava Beccaris nel giugno 1898 ottenne anche un seggio al Senato. Fu collocato a riposo nel 1902. Aveva 71anni.

I processi

Tra i processi più famosi ci furono quelli contro Filippo Turati e Anna Kuliscioff. All’interno del Castello Sforzesco furono punite più le opinioni che l’effettiva partecipazione dei dirigenti socialisti alle dimostrazioni.

L’imputazione alla Kuliscioff fu di essere “fervente socialista e propagandista efficace” (due anni). Carlo Romussi (direttore del “Secolo”) fu accusato di avere scritto contro l’esercito (due anni). Tre anni furono comminanti a don Davide Albertario, battagliero sacerdote milanese, 6 anni a Gustavo Chiesi.

Nel mese di luglio si aprì il processo ai deputati (rapidamente privati dell’immunità) che si concluse con 12 anni a Turati e De Andreis. Nonostante la difesa di De Amicis, Turati fu condannato ma non emersero prove a suo in quanto organizzatore delle manifestazioni.

Turati fu liberato grazie a un indulto nel giugno del ’99 e rapidamente reintegrato come deputato nelle elezioni amministrative del ’99 che segnarono la vittoria dell’opposizione a Milano (socialisti, repubblicani e radicali).

Continua il dinamismo di Milano

–         nel 1902 è fondata l’università Bocconi

–         nel 1904 è operante la prima linea telefonica tra Milano e Monza

–         nel 1906 un nuovo Expo al Parco Sempione

–         nel 1906 è iniziata la costruzione della Stazione Centrale

–         nel 1906 è inaugurato il traforo del Sempione

L’anarchico che venne dall’America: il regicidio

Gaetano Bresci uccise il re Umberto I con tre colpi di pistola il 29 luglio dell’anno 1900, quindi più di due anni dopo il maggio del ’98. Veniva da Patterson (New Jersey), fiorente centro industriale e anarchico. Disse al processo più volte di aver fatto tutto da solo e per vendetta dopo i morti dei Fasci siciliani e il ’98 a Milano.

Non ci furono repressioni particolari dopo il regicidio: centinaia di anarchici furono arrestati ma subito rilasciati, i socialisti furono insultati dalla folla ma non ci fu nessuna repressione militare.

I tempi stavano cambiando dopo i governi Di Rudinì e Pelloux (un generale piemontese fautore della linea dura, ’98 – ‘99). La classe dirigente, soprattutto del nord, si stava convincendo che sarebbe stata sbagliata una linea politica che privilegiasse lo scontro proprio nel momento in cui le piazze in tutta Italia si stavano svuotando (riflusso dopo i moti del ’98).

Simbolo del cambiamento sarà la scelta di Zanardelli e di Giolitti effettuata dal nuovo re Vittorio Emanuele III subito dopo aver assunto le funzioni di monarca.

Quali risultati politici voleva ottenere Bresci?

“Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso il re. Ho ucciso un principio”

È difficile dire se per baldanza o se fosse veramente convinto Bresci ripeteva spesso che sarebbe stato liberato da una incipiente rivoluzione proletaria in Italia.

E in questa strategia, se è vera, c’è la richiesta di Bresci all’avvocato Turati di difenderlo durante il processo. Turati è messo in una condizione politica difficile: se accetta è complice dell’omicidio, se rifiuta dà spazio alle correnti rivoluzionarie del Psi.

Turati incontra in carcere Bresci e colloquia con lui due ore: “Oggi Filippo è stato per due ore di seguito con Bresci. E’ tornato a casa perfettamente smontato. L’impressione di Filippo è che Bresci sia un microcefalo, una testa non sviluppata, un incosciente. Immagina che egli non si preoccupa della sorte che l’attende: aspetta gioioso la rivoluzione dopo l’attentato; l’aspetta ora, fra qualche mese o anno”.

Può anche darsi che in questa speranza di rivoluzione ci fosse anche il mettere Turati alle corde. Turati rifiuta l’incarico e su suo suggerimento viene data la difesa a Saverio Merlino, avvocato anarchico, preparato e intelligente.

Merlino condannerà personalmente l’attentato di Bresci ma cercherà di giustificarlo con la miseria e la dura repressione del governo.

Bresci: condanna e “suicidio” (22 maggio 1901)

Bresci fu condannato all’ergastolo nell’isola di Santo Stefano (Ventotene) all’interno di una cella di tre metri per tre.

Dopo solo quattro mesi a Santo Stefano e 10 mesi in totale di reclusione Bresci si suicidò il 22 maggio del 1901. E’ lecito qualche dubbio. Come poteva suicidarsi con le catene ai piedi e utilizzando un asciugamano? Bresci era guardato a vista giorno e notte da 6 secondini.

Perché ucciderlo?

Giolitti era molto allarmato dalle notizie che riceveva da Parigi dove viveva Maria Sofia di Borbone (“La grande vecchia”), ultima regina di Napoli e moglie di “Franceschiello”.

Secondo Arrigo Petacco, “L’anarchico che venne dall’America”, fu lei a capo del complotto per uccidere il re dopo avere favorito il brigantaggio negli anni Sessanta.

Dalla sua villa a Parigi entravano e uscivano anarchici e personaggi misteriosi. Il suo agente in Italia fu Errico Malatesta con altri uomini di una certa importanza. Probabilmente Bresci non seppe mai di essere l’agente di un complotto più vasto.

Giolitti, probabilmente allarmato da alcune voci insistenti di azione anarchica per liberare Bresci, diede l’ordine di uccidere il regicida. Sapeva che se Bresci fosse stato liberato sarebbe stata la fine della sua carriera politica.

I giornali italiani accettarono la versione del suicidio e non si posero domande.

Come giudicare il gesto di Bresci?

Prato ha dedicato una strada, Carrara un monumento a Bresci. In quel momento poteva sembrare il regicidio un gesto liberatorio, una giusta reazione davanti ai tanti“morti pallidi e sanguinanti” come diceva Bresci.

In realtà Bresci non si era reso conto, stando a Patterson fino a due mesi dall’attentato, che molte cose stavano cambiando in Italia: si stavano creando le condizioni per una relativa libertà politica di cui il Psi e i lavoratori avrebbero beneficiato.

Il regicidio minacciava di nuovo i cannoni in piazza, un Di Rudinì al governo con il rischio che il movimento socialista fosse ricacciato indietro di anni.

Quindi il suo gesto fu un errore, non sul piano umano ma su quello politico. In circostanze diverse la classe dirigente ne avrebbe approfittato per reprimere il movimento dei lavoratori.

Nasce l’età giolittiana

I tempi stavano cambiando. Alla metà del 1898 il generale Pelloux sostituisce Di Rudinì. Per tutto il ’99 c’è una forte opposizione parlamentare (radicali, repubblicani, socialisti, nasce). Nelle elezioni del 1900 Pelloux ottiene una debole maggioranza.

Il 24 giugno del ‘900 il re Vittorio Emanuele III lo sostituisce con Giuseppe Saracco, una scelta interlocutoria per favorire l’ascesa di Zanardelli con Giolitti.

Dopo pochi mesi il nuovo re dà l’incarico di primo ministro a Zanardelli e Giolitti è ministro dell’Interno. Dopo la morte di Zanardelli (1903), Giolitti diviene capo del governo fino al 1914 (tre governi e otto anni complessivi).

Una nuova epoca sta per nascere.

Giancarlo Restelli