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La storia della mafia tra Tomasi di Lampedusa, Sciascia e Camilleri

Cassano Magnago, 27 novembre

La storia della mafia tra Tomasi di Lampedusa, Sciascia e Camilleri

Cassano Magnago, novembre ’19

Devo premettere che non sono un esperto di storia della mafia ma ho letto “Il Gattopardo”, “Il giorno della civetta” e “La concessione del telefono” e quindi qualcosa posso dire. Prima di tutto ottima scelta: tre grandi autori per tre grandi romanzi collocati in due secoli diversi, l’Ottocento e l’unità italiana (Gattopardo), la fine dell’Ottocento con “La concessione del telefono”, l’Italia della II metà del Novecento con Sciascia. Tre romanzi fondamentali per riflettere tra storia e società siciliana e italiana. Il Gattopardo Nel “Gattopardo” è contenuta una delle frasi forse più famose di tutta la letteratura italiana: “Bisogna che tutto cambi, affinchè tutto rimanga com’è”, pronunciata dal giovane Tancredi Falconieri allo zio Principe di Salina. Siamo nei giorni concitati della conquista garibaldina della Sicilia e Tancredi è uno dei non pochi giovani aristocratici che ha capito tutto: è necessario dare l’idea che tutto cambierà con la vittoria di Garibaldi e dell’Italia unita per continuare a mantenere i privilegi dell’aristocrazia di cui fa parte. All’inizio il principe di Salina è affascinato dall’intelligenza di Tancredi e dalla prospettiva che nulla cambi in Sicilia e turbi la sua esistenza. Non sarà così e se ne accorgerà presto. Garibaldi in Sicilia e la prospettiva dell’annessione della Sicilia e di tutto il Sud al Regno d’Italia porta al potere una nuova classe dirigente fatta di crispini e “garibaldini” che hanno seguito Garibaldi per interesse personale contro una statica monarchia borbonica all’interno della quale non c’erano prospettive di ascesa sociale. Il “nuovo” nel “Gattopardo” è don Calogero Sedara, umile popolano, nato dal nulla, sindaco di Donnafugata, ambizioso, intelligente, cinico, arrivista e pronto a qualunque maneggio ora che si stavano aprendo nuove prospettive all’ombra della monarchia sabauda. Sappiamo come androno le cose: promette la bellissima figlia Angelica (Claudia Cardinale nel film di Visconti) al bel Tancredi per allearsi con il principe di Salina e con lo stesso ambizioso e cinico Tancredi: affari, maneggi, affari sporchi, influenza politica in tutta la Sicilia fino ad essere eletto in Parlamento. Questa è la nuova Sicilia nata dal Risorgimento! Quel senso di decadenza e di morte nel principe Salina, nonostante gli scintillii dei gioielli delle belle dame dell’aristocrazia palermitana nel famoso ballo, sono l’espressione della fine irreparabile di un mondo di cui lui stesso fa parte, che è il mondo nobiliare ora insidiato mortalmente dai tanti Calogero Sedara in tutta la Sicilia: violenti, goffi, ignoranti, privi di qualunque ideale che non sia far denaro e sempre più denaro con ogni mezzo. E’ inutile dire che Sedara è il tipico mafioso a capo di numerosi interessi intessuti con altri individui senza scrupoli, capace di utilizzare il mondo della politica e scaltro tanto da ricorrere al crimine se necessario. Potremmo dire che per mafia siciliana e camorra napoletana l’unità italiana fu un vero vantaggio perché poterono pensare in termini di estensione degli affari all’intera Italia così come l’emigrazione italiana verso gli USA fu un altro indubbio vantaggio con la radicazione degli affari di Cosa Nostra nel promettentissimo mercato americano. “Libertà” L’unità d’Italia poteva avere esiti migliori? Molto probabilmente no. Pensiamo alla novella di Verga “Libertà”, ambientata nelle settimane della conquista di Garibaldi della Sicilia (estate 1860). I contadini e braccianti di Bronte fanno un massacro dei “cappelli” del paese, ossia dei “galantuomini”. E’ la rivolta delle coppole contro i cappelli di feltro e delle scarne contadine contro le rosee carni delle aristocratiche. Ma dietro il fiume di sangue che inonda le strade di Bronte ci sono secoli di oppressione da parte dei proprietari terrieri con i loro mazzieri sui contadini senza terra, secoli di infamie contro di loro. In fondo l’arrivo dello Stato unitario poteva essere l’occasione per una riforma terriera che desse la terra ai contadini produttivi strappandola alla proprietà aristocratica parassitaria e spesso assenteista. Non si fece nulla e i contadini furono rigettati indietro. Complici Garibaldi e i suoi uomini (Nino Bixio e la terribile repressione di cui è protagonista). Oltretutto i contadini di Bronte minacciavano di mettere le mani sulla famosa “ducea di Nelson” che i reali borbonici avevano regalato all’ammiraglio Nelson e ai suoi discendenti dopo la vittoria di Trafalgar su Napoleone. Occupare la ducea voleva dire rischiare di non avere più la protezione del governo britannico che fino a quel momento aveva seguito con simpatia l’impresa di Garibaldi. E così fucilazioni sommarie, ergastoli e lunghe pene detentive furono la risposta a quell’anelito di “Libertà” che era nel cuore del contadino siciliano. Anche in questo caso con il movimento contadino siciliano represso e risospinto indietro si creano condizioni favorevoli alla nascita di interessi politici-economici dove la mafia gioca un ruolo fondamentale nella latitanza degli organi dello Stato. – Garibaldi. Napoli. Settembre 1860 L’arrivo tranquillo di Garibaldi a Napoli è reso possibile da bande di camorristi che escono dalle carceri e assicurano l’ordine pubblico in cambio della ripresa alla grande del malaffare “La concessione del telefono” di Camilleri Questo è il senso di un testo sorprendente quale “La consessione del telefono” di Camilleri. Sorprendente per l’acume e la capacità di parlarci di un’intera realtà sociale partendo da un documento trovato nelle carte di famiglia in cui si parlava di cavillosi documenti da produrre per avere, appunto, la “concessione” di un telefono. Sotto accusa in questo e in altri romanzi e racconti di Camilleri è l’unità d’Italia così come le cose sono andate in Sicilia. Memore della lezione di Verga, De Roberto, Pirandello e Sciascia, Camilleri pone l’accento sulle macrodeficienze storiche della Sicilia e in particolare degli organi dello Stato. La citazione iniziale da “I vecchi e i giovani” di Pirandello è emblematica: Lettura Sicilia, terra martoriata da forme di corruzione senza precedenti dove la mafia prospera. La mafia, alleanza tra “uomini di rispetto” con interessi in tutte le direzioni, politici affamati di voti e potere, picciotti del sottoproletariato siciliano pronti a tutto per i loro padroni. La storia la conosciamo. Filippo Genuardi, imprenditore di modesta fortuna, vuole installare una linea telefonica per comunicare con il suocero, apparentemente per affari, in realtà per sapere quando il suocero non c’era e incontrare senza problemi la bella moglie di lui. Che fa Vittorio Marascianno, napoletano, prefetto di Montelusa, quando riceve la lettera di Genuardi per ottenere la linea telefonica? Si mette testardamente in testa, senza alcun serio motivo, che il richiedente sia un pericoloso sovversivo che avrebbe utilizzato la linea telefonica per portare la sovversione in Sicilia. Con lui i Regi Carabinieri, anche loro convintissimi che il Genuardi fosse un pericoloso socialista o anarchico. Solo la Polizia vede bene: Genuardi è un poco di buono, che frequenta strane amicizie, ma di sovversione politica niente! E così assistiamo per tutto il romanzo a un’accanita persecuzione dei carabinieri contro Genuardi mntre il mafioso di turno, Calogero Longhitano (“don Lollò”), manipola stampa, politici, privati portando avanti i propri interessi uscendone bene, anzi benissimo. Un mondo alla rovescia quello di Camilleri dove l’ignoranza, la tracotanza, il malaffare dominano mentre al contrario uomini che operano a vantaggio dello Stato vengono alla fine trasferiti in Sardegna. Cesare Mori Le cose non cambiano con il fascismo quando Mussolini avrebbe avuto l’occasione di dare una bella ramazzata alla Sicilia e non lo fece. Però arrivò abbastanza vicino. La vicenda è nota. Nel 1925 Mussolini incaricò il prefetto Cesare Mori (il “prefetto di ferro”) di combattere la mafia in Sicilia avendo dalla sua parte la forza dello Stato. Mori si mise all’opera e nel giro di pochi anni la mafia vide sempre più ristretta la sua libertà d’azione e in diversi casi colpita nei suoi interessi maggiori fino a quando Mussolini dichiarò che la “mafia in Sicilia era stata vinta” e il prefetto Mori fu messo d’autorità in pensione (1929), nonostante avesse solo 57 anni e nonostante le sue proteste per la pensione anticipata. Perché? Mori stava arrivando sempre più in alto e aveva già colpito il PNF di Palermo (sciolto per mafia) e alcuni “intoccabili” come l’ex ministro della guerra, generale Di Giorgio. Le numerosissime lamentele spinsero Muassolini a chiudere il capitolo Mori. Meglio chiudere il tutto con la stampa italiana che inanellava un nuovo “successo” per Mussolini e il fascismo. Una testimonianza di Mori. Nel 1916 a Caltabellotta in una notte fece arrestare 300 “picciotti” (comandava squadre speciali per la lotta al brigantaggio). I giornali parlarono di “colpo mortale alla mafia”: “Costoro non hanno ancora capito che i briganti e la mafia sono due cose diverse: noi abbiamo colpito i primi che, indubbiamente rappresentano l’aspetto più vistoso della malvivenza siciliana, ma non il più pericoloso. Il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d’india, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero”. – Luglio ’43. Invasione anglo-americana della Sicilia Per mantenere l’ordine pubblico gli americani si affidano ai mafiosi già duramente colpiti da Mori. Alcuni mafiosi italo-americani ritornano in Sicilia per riallacciare i contatti interrotti dalla guerra – Portella della Ginestra 1 maggio 1947. La banda Giuliano, in accordo con gli agrari, spara alla manifestazione del 1 maggio. 11 morti e numerosi feriti “Il giorno della civetta” “Il giorno della civetta” di Sciascia è ambientato in un’Italia repubblicana dove la Costituzione non è ancora arrivata e mai arriverà, verrebbe da dire. I due personaggi principali sono don Mariano, il mafioso, e il capitano Bellodi. Bellodi, parmense, attivo durante la Resistenza, rappresenta lo Stato nella lotta per il diritto. E’ significativo che Sciascia faccia di un capitano di polizia del nord il protagonista della vicenda. E’ peressimista sulla capacità dei siciliani di operare contro la mafia? E’ probabile. Dall’altra parte don Mariano è il capo della “cupola” mafiosa della cittadina dove è ambientata la storia. E’ lui che tiene in mano gli affari, ora gli appalti, che conosce tutto quello che accade e non accade in città. Ed è lui che gode di un vasto consenso da parte della gente e non solo perché esercita la violenza. Mi ha molto colpito nel romanzo un episodio apparentemente minore quando una vecchietta ferma per strada don Mariano e gli ricorda la sua pensione che non riceveva più per problemi burocratici. Don Mariano le dice che avrebbe risolto lui e sicuramente era così. Grazie alle sue amicizie romane avrebbe risolto il problema in quattro e quattr’otto. In questo caso addirittura la mafia fa giustizia, vera, a favore di una povera donna. E’ un paradosso ma è così. Ma accanto ai bisogni della vecchietta c’è chi deve lavorare ed è disoccupato, chi da anni aspetta una pensione di invalidità, chi aspetta soldi dallo stato per i lavori pubblici e ne ha bisogno anche solo per lavorare come badilante…. Un’intera città di cui lui è il garante del “buon funzionamento”. In questo scambio di favori, di voti elettorali tra don Mariano e i politici di turno eletti a Roma si interpone il capitano Bellodi il quale capisce benissimo i motivi dell’omicidio Colasberna e il sistema delle intimidazioni a carico dei piccoli imprenditori edili costretti a pagare la tangente per poter lavorare. Colasberna non ci stava e fu ammazzato come monito per altri che non avrebbero dovuto farsi venire grilli per la testa. Alla fine, come nel caso del prefetto Mori, anche il capitano Bellodi è trasferito sul più bello quando con le sue indagini è arrivato con il fiato sul collo di don Mariano. Al suo posto arriverà un altro capitano della Polizia, un siciliano, un quaraquaquà. Lo si capisce dalla faccia pacioccona e dagli atteggiamenti di uomo tranquillo e bonaccione, un padre di famiglia attento alla carriera e soprattutto alla vita. E così il romanzo si chiude con la risata sguaiata dei mafiosi che con il cannocchiale spiano il volto del nuovo capitano e il risultato è il dileggio nei suoi confronti. E il lettore a quel punto prova vergogna. “Una storia semplice” Ho riletto qualche giorno fa “Una storia semplice” di L. Sciascia. “Storia semplice non tanto perché in poche pagine, che si leggono in due ore, c’è una storia di droga che provoca tre omicidi. Ma a capo dell’organizzazione mafiosa c’era il commissario di polizia e con un prete come “uomo di fiducia”! Alla fine tutto è aggiustato: la morte del commissario (il brigadiere lo uccide per difendersi) è stata una fatalità! Dobbiamo quindi disperare? Forse no. Sciascia fa del brigadiere dei carabinieri colui che scioglie il mistero dei tre omicidi e spara al commissario per non essere ucciso. E’ rivelatrice la citazione di Durrenmatt con cui si apre il romanzo: “Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia” Quattro romanzi Quattro romanzi che non inducono certo all’ottimismo. Ma è possibile combattere e debellare la mafia? Così come la camorra, l’ndrangheta, la Sacra Corona Unita… la mafia al nord e le tante mafie presenti in Italia? La prima risposta sarebbe no. Non è possibile attualmente (in questi anni almeno) combattere la mafia e ridurla all’impotenza. Anzi la sensazione è che si stia sempre più estendendo verso aree promettenti in termini di affari come la Lombardia. Eppure una soluzione ci sarebbe, ma non è fattibile. Ridurre fortemente il travaso di denaro da Roma verso il sud costringendo la mafia a uscire allo scoperto. Soluzione che nessun governo e nessun partito mai prenderà pena la scomparsa elettorale del partito proponente e situazioni di disordine pubblico e attentati mafiosi con il tritolo. Eppure credo che sia l’unica soluzione da battere: diminuire drasticamente la spesa parassitaria che è la leva degli interessi mafiosi e degli interessi che legano politici, burocrati e imprenditori. E poi leggi eccezionali con ampi poteri agli apparati dello Stato per l’opera capillare di repressione. Ma anche qui l’azione della polizia si scontrerebbe con il diffuso consenso che è alla base dell’impunità in vaste aree del sud dove l’unico “datore di lavoro” o intermediario tra Stato e cittadini è la mafia. Non basta arrestare capimafia e sgominare intere bande: nel vuoto creatosi si infileranno altre organizzazioni che prenderanno il potere ed eserciteranno gli stessi interessi. Verrebbe da dire che la mafia non ama il vuoto pneumatico. Il vuoto di potere è subito riempito. Quindi per combattere la mafia il sud deve cessare di fare il sud e ampie parti del nord devono cessare di essere scambiate con il sud. Mi riferisco a tutti quegli imprenditori del nord che si sono dati all’ ‘ndrangheta in cambio di favori e di tutti quei sindaci e amministrazioni comunali sospesi per attività mafiose. Può la Stato italiano combattere la mafia? Apparentemente sì. Lo stato italiano con i suoi apparati investigativi e di repressione è più forte del malaffare organizzato. Riuscirà lo Stato italiano a debellare la mafia? Non in questi anni. Forse più avanti. Difficile dire quando. Certo che la mafia in quanto organizzazione parassitaria dissuade fortemente qualunque forma di investimento produttivo, nel senso che disincentiva operatori economici-finanziari italiani o stranieri a investire nel sud per ricavare profitto secondo le leggi di mercato. Quindi è il famoso serpente che si morde la coda: la mafia paralizza il tessuto produttivo imponendo la propria legge, gli investimenti produttivi non arrivano, arrivano solo i fiumi di denaro della spesa pubblica parassitaria e la mafia continua a vivere nel proprio brodo di coltura. Insomma, non se ne esce. I politici sanno queste cose? Chi ha interessi elettorali in queste aree è meglio che eviti simili discorsi. La prova è che dalle agende di tutti i partiti politici l’espressione “lotta alla mafia” è uscita da tempo dai programmi… e non è un caso. Note Oggi l’ndrangheta è la maggiore importatrice in Italia di cocaina cn ramificazioni in Europa e nel mondo Su quali azioni si basa la mafia ancora oggi: estorsioni traffico di sostanze illecite corruzione politica