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“Spagnola” e Coronavirus. Alcune riflessioni tra passato e presente

Spagnola” e Coronavirus – maggio ‘20

Capitoli della relazione:

  • Qualche considerazione sulla pandemia di cento anni fa conosciuta con il nome “Spagnola”
  • Altre riflessioni di stretta attualità sul Coronavirus

La “Spagnola”

Cominciamo subito con il dire che la pandemia influenzale conosciuta come “Spagnola” fece più vittime dell’intera Grande Guerra. A fronte di 9.300.000 morti più 20 milioni di feriti, ammalati cronici e mutilati, la “Spagnola” fece tra i 30 e i 40 milioni di morti in tutto il mondo con 500 milioni di infettati su una popolazione allora di due miliardi (un abitante su quattro al mondo). Ma mi è capitato di leggere cifre ancora più alte, fino a 50 e anche 100 milioni di morti!

In Italia abbiamo avuto circa 650.000 morti tra i soldati. L’influenza provocò almeno altri 400.000 tra soldati e civili.

Insomma, una grande tragedia.

Le cifre che vi ho dato non bisogna prenderle alla lettera perché per vari motivi un conto preciso delle vittime non fu fatto tenendo conto che l’epidemia si scatenò soprattutto in Asia con India e Cina tra le aree più colpite. Si trattava come abbiamo capito di un ceppo influenzale particolarmente patogeno.

La pandemia non nacque per ragioni legate alla guerra (fame, malattie, deprivazioni…). Si sviluppò per ragioni proprie imperversando però nel momento più duro della guerra dopo quattro anni dall’inizio.

Quando nacque?

Quando nacque? Siamo nel febbraio del 1918 in una contea del Kansas ed è probabilmente qui che nacque l’influenza con il passaggio di un virus da un allevamento di pollame o di maiali all’uomo. Dall’allevamento a un vicino campo di addestramento per soldati americani e poi da lì verso Boston da cui partivano le navi americane per Brest, il principale porto europeo per l’esercito Usa.

Per essere più precisi è probabile che il virus fosse all’origine di tipo aviario (uccelli migratori), lo sterco infetto degli uccelli finì in qualche pozza dove bevvero dei maiali già infettati con un loro virus suino. Questa “bomba virale” passò all’uomo con un ulteriore “salto di specie”.

Quindi è molto probabile che l’influenza pandemica fu portata in Europa dall’esercito americano che proprio nella primavera-estate del ’18 diventa operativo con più di un milione di soldati.

Già nel mese di marzo del ’18 ci sono i primi casi negli Usa e poi nell’estate abbiamo la prima vera ondata epidemica che colpisce sia le truppe alleate ma anche infetta i soldati tedeschi accelerando la resa tedesca che avviene l’11 novembre del ’18.

L’ondata più devastante apparve nell’inverno tra il ’18 e il ’19. Nel ’20 il virus si spegne da solo senza alcun intervento da parte dell’uomo.

In un anno la Spagnola” uccise più uomini della Peste Nera lungo un secolo, anche se in proporzione la Peste Nera del 1348 ebbe una maggiore incidenza (fino a 1 su tre persone morte).

Almeno un quinto della popolazione delle potenze belligeranti fu colpito, tra di loro soprattutto i soldati e le popolazioni nelle zone in cui si è combattuto. Ma non solo, tra i contagiati e causa a loro volta di contagio, i milioni di operai e tecnici che nelle fabbriche continuarono ad alimentare la guerra con la produzione di armi.

Responsabilità dei governi belligeranti

Quindi responsabile del contagio e dei milioni di morti è la guerra o meglio furono i governi che nell’ultimo anno di guerra nascosero la circolazione del virus, non ascoltarono gli appelli dei medici e si preoccuparono solo della vittoria finale.

Quindi i governi furono doppiamente criminali:

  1. per aver voluto la guerra
  2. per non non aver detto nulla alle varie opinioni pubbliche di quanto stava accadendo

Alla fine avremo 675mila americani morti, 500mila tedeschi, 400mila francesi, 400mila italiani, 250mila inglesi. In India probabilmente 18 milioni di morti.

Il virus si diffuse da Polo Nord alle regioni meridionali del mondo. A Samoa portò via il 30 per cento della popolazione. Fu infettato il 25 per cento della popolazione mondiale (500 milioni).

Perchè “Spagnola”?

Venne chiamata “Spagnola” perché la Spagna era una delle poche nazioni non in guerra e la stampa ne parlò molto, anche perché il virus infettò lo stesso re Alfonso XIII.

Una curiosità. In Spagna il virus fu chiamato “Soldato di Napoli” perché in quelle settimane della primavera del ’18 a Madrid furoreggiava uno spettacolo teatrale dove il pubblico ascoltava una nuova canzone “Il soldato napoletano”.

In tutto il resto dell’Europa e nei paesi belligeranti non si fece cenno a quanto stava accadendo al fronte e nelle città. La censura proibiva di diffondere notizie tali da deprimere lo spirito pubblico. Ma in questo modo non si faceva neppure quel poco che poteva servire per rendere meno virulento il virus, tipo stare lontani gli uni dagli altri, lavarsi spesso le mani (in molte case non c’era l’acqua corrente), evitare assembramenti. Infatti ristoranti e cinema continuarono a funzionare, almeno fino alla fine della guerra.

Virus tedesco”

Vediamo un primo aspetto che ci riporta alla realtà di oggi. Di fronte all’imperversare dell’epidemia, nella totale impossibilità di capire i meccanismi di trasmissione e nella totale mancanza di cure mediche, nasce tra la gente il bisogno di trovare il capro espiatorio. Fu facile in campo alleato parlare di “virus tedesco” così come oggi l’America di Trump cavalca la tigre del “virus cinese”, chiamato anche il “virus di Wuhan”.

Si diceva che il virus era stato creato dalla Bayer ed era stato diffuso attraverso le aspirine oppure portato notte tempo dai sottomarini tedeschi sul territorio alleato e poi sparso negli acquedotti oppure disperso nell’aria nei cinema o durante le manifestazioni patriottiche. E’ probabile che anche nel campo avverso si dicessero cose simili.

La paura collettiva nasceva dal fatto che l’influenza si portava via soprattutto i giovani tra i 20 e i 40 anni. I vecchi e i bambini in ogni caso morivano di bronchiti o polmoniti. Furono parecchi quindi i soldati delle due alleanze che morirono in un ospedale militare talvolta senza aver visto il nemico in faccia come fu il caso di molti soldati americani appena arrivati in Europa oppure anche prima della partenza.

Perché soprattutto i giovani?

Il sistema immunitario è più sviluppato in un trentenne rispetto a un settantenne o bambino di 10 anni. Nel caso del trentenne, nel momento dell’aggressione virale, il sistema immunitario si mobilitava con una reazione abnorme rispetto ai rischi già alti. La reazione immunitaria scatenava una serie di gravi complicazioni polmonari che portavano rapidamente il nostro trentenne alla morte nel giro di pochi giorni.

Sintomi della “Spagnola”

Quali erano i sintomi della Spagnola? Il virus provocava all’inizio cefalea, bruciore agli occhi, brividi di freddo. Poi arrivavano la febbre e, nei casi più gravi, il delirio.

Se l’infettato non guariva comparivano macchie bluastre o violacee e il respiro diventava sempre più affannoso. I piedi diventavano neri, come capitò a Guillaume Apollinaire, che morì a Parigi nel dicembre del ’18.

L’aspetto dei malati destinati a morire era inquietante. Scrisse Isaac Star, giovane studente di medicina, osservando alcuni malati negli Usa: “Man mano che i loro polmoni si riempivano i pazienti perdevano il fiato e diventavano sempre più cianotici. Dopo aver dato segni di soffocamento, per parecchie ore venivano presi dal delirio e diventavano incontinenti, molti morivano lottando per liberare le vie respiratorie da una schiuma venata di sangue che a volte usciva dal naso e dalla bocca”.

Una pandemia che non rispetta i confini

Le popolazioni europee erano preparate da alcuni secoli ad affrontare altre terribili malattie del passato: la peste, il vaiolo, il colera, morbillo, rosolia… ma non questo virus. Nelle trincee si moriva di tifo, di dissenteria, febbre tifoidea che derivavano dall’acqua infetta; si moriva a causa dell’umidità con polmoniti e bronchiti… ora invece il virus pandemico colpiva anche le persone lontane migliaia di chilometri dalle trincee in Europa.

I soldati furono le prime vittime perché l’epidemia si diffuse in organismi già deprivati da tre anni di guerra. Epicentro della diffusione del virus gli enormi ospedali militari nei quali ogni forma di distanziamento era quasi impossibile.

Gli abitanti delle città europee furono altre vittime predestinate perché la guerra aveva provocato fame, razionamenti, mancanza di medicine e freddo lungo i primi tre inverni di guerra.

Prevenzione?

Come si cercò di contrastare il virus? La quarantena ne risultò l’unico metodo efficace nella totale mancanza di rimedi sul piano farmaceutico. Chi poteva come l’Australia chiuse le frontiere. Poi si diffusero le mascherine, la vaporizzazione dei disinfettanti nelle strade, l’isolamento dei contagiati nella totale impotenza dei medici degli ospedali dove le cure erano poche, a parte le bombole d’ossigeno, e alta la trasmissione dei contagi.

Insomma il flagello era fuori controllo e il virus sembrava un killer inarrestabile, come un “ladro che viene nella notte” si diceva cento anni fa.

Vittime illustri

Uno dei testi che meglio ha raccontato la “Spagnola” è quello di Riccardo Chiaberge del 2016 (“1918. La grande epidemia”) nel quale vengono raccontate 15 storie di personaggi famosi allora che hanno contratto il virus morendo o uscendone fuori.

Tra gli scomparsi famosi possiamo ricordare Guillaume Apollinaire mentre tra i contagiati il presidente americano Wilson proprio durante la conferenza della pace di Versailles oppure ricordiamo anche il giovane Walt Disney che contrasse il morbo quando aveva 16 anni, però sopravvisse. Abbiamo rischiato di non avere Topolino e Paperino!

Tra coloro che rischiarono di morire il futuro presidente americano Franklin Delano Roosevelt, ufficiale dell’esercito americano, tornato in patria nel 1918 più morto che vivo.

Morirono Gustav Klimt nel febbraio del ’19 a Vienna. Morirono Egon Schiele con la moglie Edith. Morì il grande storico e sociologo Max Weber nel giugno del 20 (segno che la pandemia dopo due anni non era ancora finita). Guarirono Hemingway e Dos Passos. La “Spagnola” contaminò anche Franz Kafka, anche se poi morì qualche anno dopo per tubercolosi.

Morì nel maggio del ’18 negli Usa un emigrato tedesco. Aveva 49 anni. Si chiamava Friedrick Trump ed era il nonno dell’attuale presidente americano. Era arrivato qualche decennio prima negli Usa come “minore non accompagnato”!

Una pandemia dimenticata troppo facilmente

Così come era venuto il virus altrettanto facilmente se ne andò nel corso del 1920 lasciando dietro di sé paurosi vuoti demografici parzialmente colmati poi negli anni Venti e Trenta prima dell’altra grande catastrofe del Novecento che fu la II guerra mondiale con i suoi 50 milioni di morti.

Durante la guerra la pandemia fu silenziata per ovvi motivi o fortemente sottodimensionata dalle varie censure nazionali. E poi semplicemente non se ne parlò più. Infatti anche in grandi opere di storia del secolo precedente o nei manuali scolastici ancora oggi la “Spagnola” non è nemmeno citata. Neppure nella letteratura dei primi anni Venti. Sopravvisse la memoria della pandemia di cento anni fa solo nelle memorie familiari.

La pandemia fu dimenticata facilmente anche perché finita la guerra il culto dei morti fu dedicato solo ai caduti nella Grande Guerra, agli “eroi”, secondo il linguaggio retorico dell’epoca.

Potrebbe essere significativo il fatto che l’unica donna sepolta a Redipuglia morì non sotto un bombardamento austriaco (come dice la leggenda) ma in un ospedale contagiata dalla Spagnola il 1 dicembre del ‘18. Si chiamava Margherita Kaiser Parodi. E’ chiamata la “crocerossina di Redipuglia”.

Ecco perché l’esperienza della “Spagnola” non ci ha aiutato per combattere soprattutto all’inizio il coronavirus. Un motivo è la distanza temporale (cento anni) ma soprattutto il rapido declino della sua memoria dopo il 1920.

Il virus dell’imprevidenza

Per arrivare all’oggi dobbiamo dire che l’attuale pandemia non è la prima del XXI secolo. E’ la seconda a livello mondiale dopo la cosiddetta “suina” che nell’aprile del 2009 iniziò in Nord America e si diffuse nel mondo causando tra i 100mila e i 400mila morti nel corso di un anno per poi regredire a influenza stagionale.

Efficienza e previdenza?

Che cosa avrebbero dovuto fare i maggiori stati europei in questi ultimi anni consapevoli della letalità di queste improvvise pandemie? Efficienza e previdenza sarebbero state auspicabili. In realtà si è fatto esattamente l’opposto di quanto era necessario fare.

Il caso della sanità italiana

Vediamo il caso del nostro Paese. In questi ultimi anni la sanità italiana è stata ridimensionata nel quadro del contenimento della spesa pubblica. Facciamo qualche esempio.

Nel nostro paese i posti letto sono passati dai 298mila del 2000 ai 192mila di oggi con una riduzione del 35 per cento. Potremmo dire che tutti gli stati europei hanno fatto così, ma alcuni più di altri.

In Germania i posti letto per 1000 abitanti sono passati da 9.1 a 8; in Francia da 7.9 a 5.9; in Italia da 4.7 a 3.8; nel Regno Unito da da 4 a 2.5.

Come mai tanti morti in Italia?

Vediamo altri dati eloquenti per capire come mai tanti morti in Italia. Un altro indicatore utile sono i posti letto per malattie infettive.

Nel 2017 in Italia i posti letto erano 5300 (pubblico e privato). La Germania sempre nel 2017 ne dichiarava 28mila che equivalgono a 0.3 letti per mille abitanti ma l’Italia ne aveva 0,09 come la Spagna mentre la Francia 0.12.

Al contrario a Wuhan all’inizio dell’epidemia c’erano 7,2 letti per 1000 abitanti e 3.3 medici sempre per 1000 abitanti, sensibilmente di più rispetto a qualunque paese europeo.

Perché tutto questo? Perché i cinesi hanno fatto tesoro delle precedenti epidemie dopo lo spavento della Sars nel 2003 (indice della letalità intorno al 10 per cento) e la “Suina” del 2009.

Altro dato inquietante: tra il 2009 e il 2017 la sanità italiana ha tagliato 12mila infermieri. Ora sono 5.8 per mille abitanti mentre in Germania sono 10.5 per mille abitanti e hanno retribuzioni superiori del 20% rispetto agli infermieri italiani.

Sanità italiana sottodimensionata

Potremmo dire con sicurezza che le strutture sanitarie italiane erano dimensionate per l’ordinaria amministrazione, non per le situazioni di crisi.

Ed è così che la tanto sbandierata sanità lombarda, “una delle migliori al mondo”, si scoprì incapace di difendere anche medici, infermieri, personale sanitario e alla fine gli stessi malati.

Facile dare la colpa a Berlusconi e Formigoni. In realtà emerge la responsabilità di un ceto politico che rincorrendo il facile consenso elettorale non si è mai posto con forza e serietà l’obiettivo di combattere l’evasione fiscale, le spese improduttive, le spese parassitarie o derivanti da precisi calcoli elettoralistici.

Nessuno si è preoccupato a livello di politici e di amministratori di ospedali di avere a disposizione strutture e attrezzature rapidamente adattabili in caso di emergenze, di assicurarsi scorte di elementari dispositivi di protezione come mascherine, guanti e disinfettanti. Dietro la demagogia dei tagli agli sprechi si è lesinato sul personale sanitario, sulle strutture mediche e i risultati li vediamo giorno per giorno.

Moniti inascoltati

Eppure le autorità sanitarie mondiali non sono state sicuramente zitte.

Dopo l’epidemia della SARS l’Organizzazione Mondiale della Sanità scriveva (siamo nel 2003): “Se oggi scoppiasse una pandemia, gli ospedali sarebbero sopraffatti dal numero dei pazienti, tanto più che anche una parte del personale medico si ammalerebbe. La produzione di vaccini rallenterebbe, perché anche molti dipendenti delle industrie farmaceutiche verrebbero colpiti. Le scorte di vaccini si esaurirebbero rapidamente, lasciando esposta all’infezione gran parte della popolazione. Mentre tutto il mondo spende miliardi di dollari in armamenti, non si investe neppure un centesimo di questa somma per accumulare riserve di medicinali allo scopo di combattere l’influenza. La comunità scientifica ha il dovere di convincere i governi a prendere queste misure; il costo per i paesi sviluppati sarebbe irrisorio in confronto ai disastri sociali ed economici che accompagnerebbero una pandemia”. Mai monito non fu mai ascoltato!

Sgomenta la chiusura del discorso: i costi per prevenire le pandemie sono irrisori rispetto al costi sociali ed economici che dovranno essere pagati per una pandemia fuori controllo. Eppure è accaduto questo!

L’imprevidenza dei maggiori stati al mondo sta provocando disoccupazione di massa, aumento delle distanze sociali nel senso di un maggior divario tra ricchi e poveri, foschi scenari a livello sociale, fortissimo incremento del debito pubblico di tutti gli stati, fallimenti aziendali, pesante futura ristrutturazione dei grandi complessi industriali. Saranno necessarie risorse immense: investimenti per 8000 miliardi di dollari nel mondo, 740 miliardi di euro nell’area europea, più altri 1500 miliardi nei prossimi anni in Europa.

Eppure sarebbe bastato poco. Ogni anno vengono spesi qualcosa come 2000 miliardi di dollari per spese militari nel mondo. Se una scheggia di questa spesa mostruosa fosse stata destinata alla prevenzione per la prossima inevitabile pandemia influenzale non saremmo ridotti così male. Ma non è nella natura di una società capitalistica essere così previdente e preveggente.

Altro monito non ascoltato: l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) scriveva nel settembre del ’19: “ Ci troviamo di fronte alla minaccia molto reale di una pandemia fulminante, sommamente letale, provocata da un patogeno respiratorio che potrebbe uccidere da 50 a 80 milioni di persone e liquidare quasi il 5 per cento dell’economia mondiale. Una pandemia globale di queste proporzioni sarebbe una catastrofe e scatenerebbe caos, instabilità e insicurezza generalizzati. Il mondo non è preparato”. (fonte “Il Manifesto”).

Che cosa facevano i nostri politici mentre l’OMS lanciava questo appello al mondo? Il solito teatrino quotidiano per qualche voto in più.

Il capitalismo non è preveggente

Ma tutto ciò non ci deve sorprenderci perché viviamo in un sistema sociale dove domina il profitto immediato e dove le previsioni a lunga scadenza non vengono neppure prese in considerazione. Sto parlando del capitalismo dove l’unica legge operante è il profitto a scapito della salute individuale e collettiva.

Eppure la scienza ha fatto passi da gigante negli ultimi decenni, in particolare la medicina nell’ambito dei vaccini e antibiotici. Ma se non si stanziano ingenti risorse lungo tutta la filiera sanitaria formando personale sanitario preparato anche una “banale” epidemia d’influenza stagionale può diventare letale per decine di migliaia di persone. E il Covid-19 non è una banale influenza di stagione.

Il “sacro egoismo” nazionale

Quindi le epidemie sono certe anche nel prossimo futuro. Non è certa invece la capacità delle nostre società di dare adeguate risposte.

Abbiamo visto come le singole nazioni europee abbiamo agito in ordine sparso nel momento in cui il Covid-19 è arrivato in Europa. Abbiamo assistito sgomenti alle tante resistenze nazionali, alle tante frasi del tipo “ci pensiamo noi!” dei singoli stati di fronte a una pandemia che ha superato i confini nazionali con una facilità impressionante e disarmante.

Mai come oggi è necessario per governare queste pandemie mondiali un governo mondiale, ossia un unico governo nel mondo intero capace di prendere le decisioni senza passare attraverso le forche caudine degli stati nazionali e degli imperativi del profitto.

Virus globali

I pericoli per la salute pubblica mondiale sono assolutamente allarmanti. Sono 219 le specie di virus conosciute in grado di infettare l’uomo e tre-quattro nuove vengono scoperte ogni anno. In maggioranza infettano anche animali, principalmente mammiferi da allevamento ma anche pollame e uccelli.

Gli animali quindi costituiscono grandi serbatoi di virus da cui, attraverso continui nuovi “arrangiamenti” genetici, gli stessi virus possono acquisire la possibilità di infettare l’uomo.

Insomma di fronte a virus globali la risposta dell’uomo dovrebbe essere globale. Purtroppo non è così perché le chiusure nazionalistiche hanno il sopravvento.

A un qualcosa di simile ha pensato in questi giorni anche Henry Kissinger (segretario di stato all’epoca Carter). Intervistato dal “Wall Street Journal” dice due cose importanti: prima che “il mondo non sarà più lo stesso dopo il coronavirus” e poi dice che “nessuna potenza, nemmeno gli Stati Uniti, può battere la pandemia con uno sforzo puramente nazionale”.

Sotto accusa è quindi lo stato-nazione che si rivela incapace di far fronte ad epidemie che si fanno beffe dei confini nazionali.

Un governo mondiale contro le malattie epidemiche

Ma la necessità di un governo mondiale è reso necessario anche per combattere virus e malattie che provocano stragi di bambini in molte parti del mondo.

Nei paesi poveri si muore ancora di epatite, rosolia, difterite, varicella, parotite, pertosse, morbillo, tifo, malaria, gastroenterite, poliomielite, scarlattina, salmonellosi… tutte malattie con una bassa letalità intorno all’1% ma molto contagiose. Solo la tubercolosi nel 2018 ha provocato 10 milioni di casi nel mondo con 1 milione e mezzo di morti. L’Ebola ha un indice di letalità del 50%, l’HIV dell’80%, la sifilide del 32%…

Si calcola che ogni anno nel mondo muoiono 10 milioni di persone a causa di malattie trasmissibili attraverso batteri, virus, funghi e parassiti. Ogni anno 4 milioni di morti per malattie delle vie respiratorie mentre le malattie diarroiche uccidono più di mezzo milione di bambini sotto i 5 anni.

Insomma malattie, virus, batteri, parassiti di fronte ai quali le grandi potenze appaiono del tutto indifferenti, concentrate solamente sui propri bilanci, sulle spese militari e sulle guerre presenti e future.

Quale tragedia immane potrebbe abbattersi sui paesi poveri se dilagasse l’attuale pandemia visto che il 30 per cento della popolazione mondiale vive nelle baraccopoli e la percentuale sale al 65 per cento per i paesi a basso reddito! In queste situazioni è realistico il distanziamento sociale?

La scienza soggetta al capitalismo

Il paradosso è che la scienza può combattere e tenere sotto controllo gran parte di queste malattie che ho enumerato. Ciò non viene fatto perché in una società capitalistica la scienza non può mettere a disposizione dell’umanità le proprie conoscenze e le proprie risorse. Il comandamento fondamentale è il denaro, il profitto e null’altro.

Con una battuta potremmo dire che nei paesi poveri si muore di fame perché non ci sono mezzi di pagamento così come si muore come le mosche per tante malattie perché i poveri non hanno il denaro per vaccini, medicinali e misure profilattiche. E’ questa l’amara verità.

Conclusioni

Per arrivare alle conclusioni potremmo dire che tutti noi siamo molto realisti e purtroppo dobbiamo considerare che siamo ancora molto lontani dalla prospettiva di un governo mondiale nonostante la globalizzazione dei mercati e la dimensione internazionale della scienza.

Ma se l’umanità non si darà a breve nuovi strumenti politici nell’ottica di un governo mondiale delle cose, l’uomo continuerà a vivere in un’ideale “preistoria” del genere umano dominata da guerre senza fine, carestie, fame, malattie di ogni genere, analfabetismo, disastri naturali, migrazioni epocali e, appunto, pandemie globali.

L’uomo entrerà nella Storia vera e propria (con la lettera maiuscola!), diventando protagonista a tutti gli effetti, solo quando avrà compreso la natura mondiale di tanti problemi che ancora oggi attanagliano l’umanità e si doterà di strumenti politici conseguenti.

Ringrazio Lotta Comunista che mi ha messo a disposizione attraverso il suo giornale gran parte dei dati che ho messo in evidenza.

Appendice

Tutti uguali nella lotta al virus?

A metà marzo Emanuel Macron, con pose da comandante in capo delle truppe francesi in partenza per un’ideale conflitto, ha detto solennemente: “Siamo in guerra!”.

Non dobbiamo esagerare e confondere una guerra vera con l’attuale guerra contro il coronavirus. Qui possiamo discutere.

Non c’è molto da discutere invece su quei toni di “Union Sacrée” che accompagnarono il discorso di Macron e altri leader nazionali, proposti poi tante volte da politici e televisioni nostrane. Più volte si è detto “uniti si vince”, “la lotta all’epidemia è uno sforzo di tutti”, “tutti uniti ce la faremo”…

Non è così. Eravamo diversi socialmente prima dell’epidemia e lo siamo ancora di più ora. Non siamo uguali.

Un discorso è affrontare la quarantena in quattro in un monolocale e invece risiedere in un’ampia villa sulle colline di Nizza. Un discorso è avere disponibilità economiche o non averne affatto. Oppure ritrovarsi senza stipendio mentre dall’altra parte c’è un pingue conto in banca rimpolpato da anni di allegra evasione fiscale.

Il coronavirus ha messo ancora più in evidenza le disparità sociali. In prima linea infermieri, medici, inservienti e tutti i lavoratori della sanità che rischiano la vita ogni giorno. Poi gli operai costretti perfino a scioperare all’inizio della pandemia per non mettere a rischio la propria salute. E non si dice che una parte cospicua dei lavoratori dipendenti durante il look down è stato costretta a lavorare.

Poi non dimentichiamo tutti dipendenti dei servizi essenziali, dalla logistica sino alle cassiere dei supermercati. Poi l’esercito del precariato e del sommerso: due milioni di badanti e colf, altri milioni di dipendenti delle cooperative nel commercio e nell’edilizia. Lavoratori che quando si sono abbassate le serrande si sono trovati senza retribuzioni, senza lavoro, senza ferie e senza assistenza medica. E poi i migranti, i clandestini la cui chiusura delle attività produttive ha voluto dire la fame.

Insomma è l’esercito degli “invisibili” prima della pandemia, oggi invece sono persone che si vorrebbero in attività per non fermare settori importanti quali l’agricoltura e la piccola industria.

Insomma, l’epidemia ha messo in luce e ha aggravato le peggiori condizioni di diseguaglianza e sfruttamento.