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Tubercolosi, malattia della povertà

Tubercolosi, malattia della povertà

Il tema di questa sera è come sapete la storia del sanatorio “Regina Elena” nel parco ILA a Legnano.
Parlare di questo sanatorio e dei sanatori in generale che nacquero in grande quantità all’inizio degli anni Venti e Trenta del Novecento in Italia vuol dire parlare della tubercolosi, una malattia oggi in Italia sotto controllo ma che nel corso dell’Ottocento e Novecento ha prodotto in Italia e nel mondo un numero di morti difficilmente quantificabile.
Cominciamo con un breve video.

 video – Traviata

Vi sarete sicuramente chiesti che cosa c’entra la Traviata di Verdi con il tema tubercolosi. La risposta è semplice: Violetta muore di tubercolosi così come era morta dello stesso male Marguerite Guatier, la “Signora delle camelie” di Alexander Dumas, da cui trasse spunto Verdi per la sua opera.
L’Ottocento e il Novecento sono pieni di riferimenti alla tubercolosi: muoiono di tisi, chiamata anche “mal sottile”, Silvia di Leopardi (“chiuso morbo”), Mimì nella Boheme di Puccini. Morirono non solo personaggi di fantasia ma anche artisti veri: Chopin, la scrittrice Emile Bronte, i poeti Gozzano e Corazzini (aveva 20 anni), lo scrittore Camus. Dovettero convivere con la tubercolosi altri grandi scrittori come Checov, Kafka, Keats, i fratelli Modigliani, Goethe, Orwell e tanti altri.
Thomas Mann ambienta in un sanatorio forse il romanzo più interessante di tutto il Novecento, “La montagna incantata”. Riferimenti espliciti alla tuberolosi, chiamata anche “mal di petto”, si trovano in tantissimi scrittori come Verga, Maupassant, Zola, Pirandello, Tolstoj…

Sembrava la malattia tipica degli artisti romantici e poi decadenti di fine Ottocento e inizio Novecento, ossia artisti poveri e sfortunati, spesso sradicati a livello sociale: in loro c’era un particolare pallore mortale sul volto, poi la lunga degenza negli ospedali, la debolezza quotidiana e la morte quasi innevitabile per consunzione.
Nel corso dell’Ottocento e dei secoli precedenti nessuno conosceva le vere origini della malattia: oggi sappiamo che l’origine è batterica, si trasmette per via aerea e ha accompagnato la storia dell’uomo dalla preistoria all’Ottocento fino a quando Robert Koch isolò il batterio e iniziò la lotta contro il virus (1882).
Cento milioni di morti fu il bilancio della tbc nel corso dell’Ottocento in tutto il mondo. Non sono pochi 100 milioni pensando a una malattia cronica poco conosciuta e poco visibile allora rispetto al colera, al vaiolo o la peste nei secoli precedenti.
Semplificando potremmo dire che se il ‘600 fu il secolo della peste (Manzoni), il ‘700 il secolo del vaiolo (provocò paurosi vuoti fra le popolazioni amerinde), l’800 fu il secolo della tbc. Si diffondeva semplicemente con gli starnuti, con i colpi di tosse, con le goccioline di saliva emesse mentre si parlava. Quindi una malattia infettiva particolarmente temibile nelle grosse agglomerazioni urbane e in particolari condizioni di miseria. Da qui la persistenza del morbo in quegli ambienti bohemien da cui provenivano molto artisti fra Ottocento e Novecento.

La tbc nel mondo contadino e industriale
La tubercolosi fu la “malattia della povertà” come venne definita da alcuni medici nel corso dell’Ottocento quando esplose soprattutto nei quartieri proletari cresciuti a dismisura a causa della rivoluzione industriale.
Ma in precedenza la tbc era endemica anche nel mondo contadino ed era causata dall’estrema povertà: affollamento in spazi angusti, cattive condizioni igieniche nelle abitazioni, cattiva alimentazione, diffusa ignoranza dovevano falcidiare moltissime persone delle classi più povere.
Si legge in una relazione medica del 1901 riguardante Fano, ma quanto scritto poteva andare bene per il resto d’Italia:
“E cominciando dall’affollamento e dalle cattive condizioni igieniche delle abitazioni, anche nel nostro comune il maggior contingente di tisici ci fu dato dai rioni molto affollati, costituiti da case in pessime condizioni igieniche, dove si agglomera un’enorme quantità di gente in ambienti ristretti e mal ventilati, dentro i quali raramente o mai i raggi del sole portano la loro azione sterilizzante. Ciò che è successo nel nostro comune va di pari passo con quello che succede generalmente in tutti i paesi, dove il numero dei decessi per tisi varia grandemente secondo che gli abitanti sono sparsi in piena campagna o racchiusi nelle case ristrette della città. Fra questi estremi vi sono poi tutti i gradi di passaggio, tanto che partendo dalla campagna per arrivare alla città, la mortalità per tubercolosi va gradualmente crescendo col crescere della densità della popolazione… ormai è dimostrato che il contagio è dovuto essenzialmente dalla maggior facilità dai contatti maggiori in ambienti nei quali c’è insufficiente aerazione”.
Negli ambienti urbani si creavano quindi le migliori condizioni al propagarsi dell’infezione a causa anche delle fatiche del lavoro non compensate da una buona alimentazione in organismi debilitati spesso dall’alcolismo, da una generale debolezza e dall’incapacità da parte dell’organismo di reagire alle minacce esterne.
Così concludeva l’autore:“E’ vero che la tubercolosi non risparmia alcuna classe sociale; ma uccide a preferenza la classe dell’operaio spossato dal lavoro eccessivo e protratto, specialmente se esercitato in ambienti confinati e spesso non troppo igienici”.
In termini più semplici così sintetizzava un medico sul finire dell’Ottocento la componente sociale della tbc:“Vi sono due tisi, quella dei ricchi che qualche volta guarisce e quella di poveri, che non guarisce mai”.
Quindi più che la malattia degli artisti emarginati socialmente, la tbc era la malattia tipica sia del mondo contadino ma ancora di più dei lavoratori nelle grandi città cresciute a dismisura a causa dei ritmi dell’industrializzazione. Infatti più che in Asia o America latina o Africa, la tbc fu tipica dei continenti sviluppati quali l’Europa e l’America settentrionale.

Il terribile quadro della sanità nelle classi popolari
Ma a falcidiare il mondo contadino e poi gli ambienti operai non c’era solo la tubercolosi. Il colera comparve in Italia dal 1835 con alcune epidemie localizzate nel corso dell’Ottocento provocando mezzo milione di morti. Le cause erano nelle pessime condizioni igieniche e in particolare l’acqua inquinata.
E poi c’erano la scrofola, lo scorbuto (mancanza di vitamina C), la malaria, l’epilessia, il gozzo, il rachitismo (“mancanza di statura”, un giovane su due è riformato alla visita di leva, mancanza di vitamina D), il morbillo, la scarlattina, la varicella, la polmonite, la pleurite, la pertosse, la pellagra (alimentazione solo con polenta scondita), la difterite, la gastroenterite (la malattia delle “mani sporche”), l’alcolismo, le malattie veneree, la meningite, le febbri puerperali, il tifo esantematico o petecchiale (infezioni portate dai pidocchi), la dissenteria (alimentazione prevalentemente fatta di liquidi), la scabbia (mancanza di pulizia personale).
Tanti bambini nascevano gracili perché le mamme erano a loro volta debilitate dal lavoro e dalla cattiva alimentazione. E poi c’erano le malattie infettive dovute all’acqua sporca dei pozzi (spesso costruiti vicino a stalle o concimaie) o negli acquedotti si infiltravano le acque dei pozzi neri, delle latrine ecc.
A farne le spese sono soprattutto i bambini la cui mortalità di massa contribuiva a tenere bassa l’aspettativa di vita nel corso dell’Ottocento. Un solo esempio. Nel 1897 Legnano ha 14.500 abitanti. I morti in quell’anno sono 397 di cui 153 adulti mentre i bambini sono 244!

Quattro cause della mortalità tra le classi popolari
Alla base di tutto c’erano prevalentemente quattro fattori:
– l’alimentazione cattiva soprattutto tra i più poveri
– il lavoro abbruttente ed esercitato in ambienti malsani (fabbriche tessili, alcuni mestieri artigiani dove il pulviscolo era dominante)
– la mancanza di igiene nelle abitazioni (spesso trasudanti umidità)
– l’ignoranza che non permetteva neppure qualche semplice accorgimento per diminuire l’incidenza di questi fattori

Spesso nelle famiglie contadine c’era l’abitudine di passare l’inverno nelle stalle per difendersi dal freddo. E quindi nelle stalle si dormiva, si mangiava, giocavano i bambini, si ricevevano gli amici… accanto agli animali e ai loro escrementi. Non è un caso che la tbc aveva una recrudescenza soprattutto nei mesi di marzo-aprile quando l’organismo era maggiormente debilitato dopo lunghi mesi passati nelle stalle.
Leggiamo in un’altra relazione:“Nelle valli delle Alpi e degli Appennini, ed anche nelle pianure, specialemte dell’Italia meridionale, e perfino in alcune provincie fra le meglio coltivate dell’Alta Italia (ovunque verrebbe da dire!), sorgono tuguri ove in un’unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame. E tali catapecchie si contano a centinaia di migliaia” (Inchiesta Jacini, 1880).
Nel mondo contadino c’era l’abitudine di raccogliere con grande attenzione il letame animale nelle stalle o per strada e per evitare furti o altro accatastarlo fuori dalla porta di casa oppure all’interno dell’unica stanza in cui viveva la famiglia. Oppure si produceva concime per i campi e gli orti con foglie secche, rifiuti vari, ricci di castagne sempre ammonticchiati fuori o dentro casa.
Se uomini e animali avevano spazi distinti, spesso le stalle erano a pianterreno mentre la famiglia viveva sopra, con le esalazioni degli animali che passavano le pareti.

Potremmo pensare che tutta l’Italia fosse povera e quindi non c’era niente da fare, invece sappiamo che all’inizio del Novecento l’Italia impiegava in spese militari oltre a un quinto del proprio bilancio (20%) mentre per la formazione culturale dei suoi cittadini (scuole soprattutto) l’Italia nello stesso periodo spendeva il 2.7%, la Spagna invece spendeva il 4% fino ad arrivare alla Francia con il 6,6% e la Gran Bretagna con il 10%.

Talvolta sembra emergere nella nostra società del benessere una certa nostalgia del mondo contadino: quando la famiglia era riunita accanto al focolare, quando i vecchi raccontavano ai nipoti storie talvolta paurose e quando l’uomo viveva in apparente equilibrio con la natura. Il quadro sociale e medico invece era diverso con i bambini che morivano come mosche in ambienti che erano il brodo di coltura di una quantità infinita di malattie che falcidiavano anche gli adulti. Basta dire che nel 1881 la vita media era di 33 anni! Quando i mulini erano bianchi, la gente moriva come mosche!

La tbc nel mondo industriale
Con l’avvento del mondo industriale i fattori che rendevano permanente la tbc nel mondo contadino, qui ebbero una vera e propria recrudescenza:
– ambienti di lavoro malsani in cui i bambini lavoravano anche dai sei-sette anni in su e le donne anche alla vigilia del parto
– cattiva alimentazione dovuta a salari infimi
– promiscuità di tante persone in ambienti angusti (le migliori condizioni per il propagarsi dei contagi) e male aerati
– debolezza congenita dell’operaio di fabbrica dovuta a super sfruttamento
Erano tutti fattori che avrebbero favorito la diffusione della tbc nei quartieri operai delle grandi capitali fino ai distretti industriali periferici. Prima in Inghilterra al tempo della rivoluzione industriale e poi nelle città europee dove si diffusero i quartieri operai e l’affollamento era la regola.
Paradossalmente i più colpiti erano i paesi ricchi: Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Germania… e in parte l’Italia dall’inizio del Novecento.

Scriveva nel 1908 il deputato socialista Badaloni. Dopo aver detto che la tbc era responsabile di 1/5 della mortalità in Italia in quel periodo, così concludeva il suo discorso alla Camera:“Anche la tubercolosi è una malattia della miseria. E’ la povertà con tutte le sue conseguenze… è la povertà con l’alimentazione insufficiente, con le abitazioni malsane dove, nel breve spazio di una stanza buia sono addensate otto, dieci, dodici persone, come ho visto a Roma… è la povertà con l’ignoranza e l’impossibilità di ogni pratica di igiene”.

C’è un altro documento importante (1906) che dimostra quanto i medici potessero solo diagnosticare la tubercolosi senza assolutamente poter contribuire alla guarigione:“Ecco qua. Il medico è chiamato nella stamberga di un uomo esausto di fatica. Uno sguardo alla scena, poche interrogazioni. Comprende. Ma come riparare? Come contendere alla morte quel povero essere stremato di forze, denutrito da prolungati digiuni, sferzato, anche nel giaciglio doloroso, dalle preoccupazioni più urgenti per la famiglia, che aspetta il pane dal lavoro di due braccia capaci? Come? Il medico – oh! È bene il medico di condotta – non può ordinare un congruo nutrimento riparatore, vita all’aperto ecc., soggiorno di riposo e di ristoro. Ogni ordinazione consimile è ironia fischiante. E’ teoria che si frange e va in cocci davanti alla povertà del -diciamolo pure – cliente. E allora?”.

Il nostro bravo medico avrebbe dovuto ordinare per il povero tubercolotico quanto mangiavano i degenti del sanatorio della “Montagna incantata” di T. Mann: “sei pasti al giorno”, dalla prima colazione con “coppe di marmellata e di miele, piatti di riso cotto col latte, piatti di uova frullate e di carne fredda” al “latte della sera che alle nove viene portato in camera”. Senza contare il riposo assoluto, i bagni di sole, il sanatorio di alta quota, l’assistenza medica accurata e così via.

Altra testimonianza sull’impotenza dei medici è quella del poeta Guido Gozzano: “Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni. Mi auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro. E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi. A che scopo? Sorriderei quasi, se dopo non bisognerebbe pagarli”.

Favorì la diffusione della tubercolosi anche l’impossibilità per lungo tempo di trovare spazio negli ospedali operanti in Italia all’inizio del Novecento: non c’erano reparti di isolamento e scarseggiavano le medicine. La denuncia della tbc è obbligatoria solo dal 1901. Fino al ’27 gli ospedali privi di reparti di isolamento respingevano i tubercolotici.
Esistevano solo i lazzaretti dove le condizioni di degenza erano così paurose che la gente ammalata preferiva dissimulare la malattia contagiando così tutte le persone vicine.

Più che i sanatori a rendere la tbc meno virulenta furono gli antibiotici dopo la seconda guerra mondiale e soprattutto il miglioramento generale delle condizioni di vita e di alimentazione.
Giovarono anche altri fattori quali l’emigrazione di massa dall’Italia nel mondo con una minore pressione sulla terra e quindi salari più alti e più disponibilità di cibo.

Se in Europa la Tbc è stata combattuta efficacemente rimane sempre endemica nelle zone del mondo di tradizionale povertà ora investite dallo sviluppo industriale, quindi ampie zone di Asia, Africa e America Latina.
Oggi i decessi sono tra 1 e 2 milioni nel mondo. Insomma, la Tbc non è stata sconfitta.