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Una donna in un lager

Una donna in un lager

come una rana d’inverno

un racconto

Le leggi razziali

Il mio nome è Sara, ma potrebbe essere il nome di altre centinaia di bambine e ragazze ebree che prima vennero allontanate dalle scuole e additate da tutti, e poi con la guerra  vennero deportate ad Auschwitz per essere eliminate.

La mia storia non inizia nel 1927, l’anno in cui sono nata, ma un giorno del 1938, precisamente il 26 settembre del 1938, quando entrando in classe la mattina la mia maestra, con una strana luce di perfidia negli occhi, mi disse: “Tu da oggi non puoi stare qui. Devi tornare a casa!”.

Ero esterrefatta, non capivo che cosa stesse succedendo. Quella era la mia scuola, era l’ultimo anno della scuola elementare che frequentavo da più di quattro anni.

Non mi fece neppure sedere al banco, la mia maestra, e neppure salutare le mie amichette. Nessuna di loro però disse nulla e neppure le mie amiche migliori alzarono gli occhi dai libri aperti davanti a loro per guardare i miei.

I miei genitori sicuramente sapevano quello che stava accadendo, ma forse per non spaventarmi non mi dissero nulla nei giorni precedenti e così quella mattina scoprii che non ero più un’alunna, non avevo diritto a un gesto di pietà e neppure a uno sguardo di commiserazione. Semplicemente dovevo essere allontanata il più in fretta possibile.

Ricordo che nei giorni successivi ebbi modo di vedere per strada alcune mie compagne ma fecero finta di non conoscermi. Oppure accadeva che le bambine di altre classi dicevano tra loro, quasi bisbigliando: “Guarda, quella lì è la Mortara. E’ un’ebrea, non può più frequentare la scuola”.

Anche i vicini di casa cambiarono umore nei nostri confronti: in precedenza erano gentili con me, quando mi vedevano per le scale mi davano carezze e caramelle. Ma in quel mese di settembre le cose cambiarono. Ora erano sfuggenti anche con i miei genitori e raramente si fermavano a parlare con me.

In quel grande condominio di Milano eravamo soli. Lo capivo dalle facce sempre più tristi dei miei genitori.

Anche loro, come tanti ebrei italiani, persero il lavoro in quei giorni: mio padre era insegnante in un liceo e adorava stare con i ragazzi, mia mamma invece era impiegata alle poste.

Prima lei e poi mio padre persero il lavoro e improvvisamente la nostra condizione economica peggiorò.

Per continuare a pagare l’affitto bisognava economizzare su tutto, soprattutto su quello che mangiavamo a tavola. Per fortuna c’erano i miei nonni che ci aiutavano, ci incoraggiavano e ci volevano un gran bene.

Poi venne la guerra

Poi venne la guerra con il giugno del 1940 e alle nostre difficoltà di sopravvivenza dovemmo sommare i tanti disagi provocati dalla guerra: i prezzi salivano sempre più, in quanto ebrei non potevano avere la tessera del fascio e quindi usufruire del razionamento alimentare.

I primi bombardamenti su Milano, anche se il peggio doveva ancora venire, gettarono tutti i milanesi in una condizione di paura e di precarietà. E noi, che eravamo in fondo a tutto, soffrivamo ancora di più.

Durante l’inverno del ’42, uno dei più tristi che io ricordi, morì improvvisamente mia madre. Una polmonite improvvisa ce la portò via in pochi giorni.

Ricordo ancora il suo sguardo smarrito durante gli ultimi giorni di vita: non temeva per lei, aveva paura per noi e del nostro futuro.

Ricordo le ultime parole che pronunciò: “Scappate! Fuggite via di qua!”.

Ma dove potevamo andare? Non avevamo soldi, c’era la guerra, mio papà non conosceva le lingue e temeva una miseria ancora maggiore all’estero.

Ricordo che mio padre, per dare coraggio a tutti noi, compresi i miei due nonni, diceva: “Vedrete, non ci capiterà nulla; in Italia c’è il re, c’è il Papa! Noi siamo ebrei, è vero, ma non ci faranno nulla, vedrete!”

Poi alzando la voce continuava: “Mio padre è stato decorato al valor militare al tempo della Grande guerra (e ogni volta ci faceva vedere la medaglia d’oro del nonno); mia madre – alzando sempre più la voce – aveva preso la tessera del fascio già nel 1924  quando molti italiani la stracciavano al tempo del delitto Matteotti… Vedete, non ci faranno nulla! Siamo solo italiani di serie B, ma siamo pur sempre italiani!”

Noi lo ascoltavamo, povero papà, non lo interrompevamo mentre cercava di convincere noi per convincere se stesso.

I miei nonni scuotevano sempre la testa quando lui parlava dopo cena, ma non avevano il coraggio di contraddirlo.

L’arresto

Ma il peggio doveva ancor venire. L’8 settembre del 1943 fu un giorno di festa in tutta Italia. Dovunque i simboli del fascismo erano abbattuti e la gente urlava la propria gioia per la fine della guerra. Nessuno poteva sapere quale bufera si sarebbe abbattuta sull’Italia e avrebbe travolto noi ebrei.

I tedeschi dopo l’armistizio italiano invasero l’Italia imponendo dovunque la loro legge.

Per noi ebrei furono giorni di paura: i tedeschi ci lasceranno stare o ci deporteranno? E poi, verso dove?

Si parlava di campi di lavoro in Germania. Nessuno poteva sapere che erano già operanti i lager il cui scopo era l’eliminazione di tutti gli ebrei.

Mio padre e i miei due nonni volevano lasciare l’Italia per nascondersi in campagna oppure fuggire all’estero. Ma dove andare? Non conoscevamo nessuno, avevamo pochi soldi e poi espatriare era impossibile.

Finimmo per rimanere in Italia, nella nostra casa sempre più triste, sussultando ogni volta che qualcuno bussava.

Una sera, era il 18 ottobre del ‘43, due funzionari italiani della Questura si presentarono a casa nostra e con fare gentile ma fermo ci dissero che avevamo a disposizione pochi minuti per prendere le nostre cose ed essere accompagnati alla Questura.

Che cosa prendereste voi dalle vostre case se vi dicessero che avete 10 minuti e poi la vostra casa non la rivedrete più?

I miei nonni erano accasciati in poltrona e non si muovevano. Mio padre correva da una camera all’altra senza combinare nulla. Io cercavo, nonostante la mia giovane età, di essere utile.

Dopo 15 minuti due pesanti valigie contenevano tutto quello che ancora ci legava alla nostra casa. Quando scendemmo in strada trovammo un camion per noi e dentro c’erano altre famiglie ebree al completo. Riconoscemmo i Levi di Corso Sempione, i Sacerdote di Porta Ticinese, i Morpurgo e altre persone, ma nessuno aveva voglia di parlare.

Il freddo di quella sera gelava l’anima. Nessun milanese si affacciò neppure dalle case di fronte, per vedere che cosa stava accadendo e magari per darci un saluto.

Molte luci erano spente e la via  era deserta.

Il camion non prese la direzione della Questura ma fece altre strade. Dopo alcuni minuti vedemmo con raccapriccio che entrava nel cortile del carcere di San Vittore.

Nelle mie fantasie di bambina San Vittore era il luogo in cui tenevano ben chiusi i ladri, gli omicidi, coloro che giocavano d’azzardo… ma che cosa c’entravano i miei nonni con il carcere, così gentili con tutti; e mio padre che piangeva sempre quando ricordava mia mamma, perché doveva dividere la cella con veri delinquenti?

Per fortuna misero me e mio padre in una cella con altri ebrei mentre i miei nonni erano in una cella quasi di fronte a noi. Potevamo sentirli, parlare con loro anche se i secondini ci urlavano di tacere. Ma lo facevano per dovere.

Qualcuno di loro fu gentile con me e con i miei nonni e ci procurò altre coperte per la notte.

In quella cella rimanemmo tre mesi e mezzo. Non ci fu alcun colloquio con i funzionari di polizia, non fu mossa alcuna accusa contro di noi. Eravamo ebrei e questo già bastava per la nostra condanna!

Ricordo che all’interno della cella eravamo in ventidue. C’era pochissimo spazio per muoversi, però c’era molta solidarietà: tutti aiutavano le altre persone soprattutto con incoraggiamenti e frasi di speranza. A volta i secondini lasciavano uscire noi bambini a giocare nei corridoi.

Dopo più di cento giorni dal nostro arresto, una mattina di fine gennaio ‘44, un poliziotto in borghese lesse molti nomi scritti su un foglio, tra i quali c’erano anche i nostri.

L’indomani saremmo stati portati in Germania per lavorare. Qualcuno era contento. Diceva: “Sarà dura, lavoreremo fino a sfiancarci, ma almeno là mangeremo meglio e i tedeschi ci rispetteranno”.

Gli altri annuivano, qualcuno scuoteva la testa ma non aveva il coraggio di dire che le cose non potevano andare così.

L’indomani mattina, era ancora buio, prendemmo le nostre valigie e uscimmo dalle celle.

Ricordo che gli altri detenuti ci urlarono frasi di speranza e molti altri ci diedero la mano. Chi aveva una mela o del cioccolato li diede ai bambini. Fu l’unico gesto di solidarietà che ricevemmo a Milano.

Non potrò mai più dimenticare quei detenuti che fino all’ultimo ci accompagnarono con i loro sguardi e con parole di fiducia. Forse sapevano quale sarebbe stato il nostro destino.

Fummo di nuovo caricati sui camion e ci portarono alla Stazione centrale dove c’era un treno per noi. Anche in questa occasione nessun milanese ci salutò o ci guardò dalle finestre e dai balconi. La città sembrava sorda e vuota.

Il Viaggio

Era il 30 gennaio del 1944 il giorno in cui da San Vittore ci portarono alla Centrale per la partenza. I camion erano coperti e il tragitto avvenne di mattina presto.

Faceva freddo, il buio penetrava in noi e non c’era in giro nessuno, ma anche se fosse stato giorno nessuno ci avrebbe guardato e magari compatito: un gruppo di ebrei trasferito da un posto all’altro non interessava nessuno. C’era la guerra, i bombardamenti su Milano, la fame, il carovita… e poi…  eravamo ebrei.

Alla Centrale ci caricarono su un treno che aspettava nei sotterranei. I nazisti non volevano che i milanesi vedessero il carico di uomini, donne e bambini su vagoni-bestiame, vagoni utilizzati per trasportare merci, cose, animali.

Nel mio vagone fummo caricati in cinquanta. Chiusero i portelloni solo quando tutto lo spazio era saturo.

Ricordo il rumore sinistro, di ferraglia arrugginita dei portelloni chiusi e la certezza che sarebbero stati riaperti molto tempo dopo. Ma io non ero spaventata più di tanto: c’era mio padre, mi stava vicino e mi proteggeva.

Ricordo che era tenero con me, era affettuoso più del solito. Si preoccupava se avessi avuto fame, sete, freddo. Non aveva nulla da darmi, però era sempre gentile, sorridente, protettivo. Voleva che le ore del viaggio verso la Germania non fossero penose per me.

Non poteva sapere che andavamo in Polonia e appena scesi dai vagoni non ci saremmo più visti.

Il viaggio verso Auschwitz durò quattro giorni e tre notti che mai dimenticherò.

All’inizio tutti parlavano, forse per scacciare la paura, e tutti sembravano gentili e premurosi con gli altri. Poi, solo dopo poche ore, la situazione peggiorò perché non tutti potevano stare seduti e pochi riuscivano a stare straiati. C’era freddo, l’aria gelida entrava dovunque.

I bisogni fisici furono un motivo di forti litigi perché lo spazio inesistente non permetteva di isolarsi, e per gli uomini e soprattutto le donne richiusi lì dentro era un’umiliazione indicibile fare i propri bisogni di fronte agli altri.

Con il secondo giorno tirammo una tendina in uno degli angoli del vagone e la situazione un poco migliorò, però l’odore nel vagone era insopportabile e rendeva ancora più penoso lo stare lì fermi, in piedi o seduti, a piangere e a lamentarsi.

Con il terzo giorno il problema della mancanza di acqua diventò drammatico. Ricordo il pianto continuo dei bambini, il loro strazio senza rimedio e l’impotenza delle loro mamme che potevano dare solo qualche parola affettuosa. I vecchi sopportavano in silenzio la mancanza di acqua e di cibo convinti ormai di essere arrivati al capolinea della loro vita.

Prima della partenza c’era stata la distribuzione del pane, pane nero e duro, ma in quel momento tutti lo mangiavano avidamente come se fosse stato bianco pane di farina.

La sete no, non poteva essere soddisfatta: nessuno di noi aveva pensato di soffrire la sete in pieno inverno!

I più giovani, coloro che potevano stare in piedi per più tempo, con la lingua leccavano la rugiada che si formava sulle parti metalliche arrugginite del vagone. Ma la sete non diminuiva.

Di tanto in tanto mio padre, che mi era sempre vicino, mi raccontava qualcosa di buffo che gli era capitato, ma notavo che la sua voce era sempre più fioca. Era evidente lo sforzo che faceva per rendere meno drammatici per me quei giorni.

A volte passavano ore senza che parlasse e il suo sguardo era perso nel vuoto. Poi all’improvviso si riscuoteva… mi guardava… mi sorrideva debolmente… e gli occhi diventavano lucidi.

Il quarto giorno più nessuno parlava, più nessuno pregava. Tutti tacevano, anche i bambini.

Ricordo questo grande silenzio solenne, interrotto solo dallo sferragliare del treno…  eravamo alla vigilia della nostra morte.

Poi improvvisamente il treno si fermò in aperta campagna. Si vedevano all’orizzonte grandi costruzioni, sembrava di essere arrivati vicini a un’enorme caserma.

Intorno a noi si sentivano solo il latrare dei cani e qualche concitato ordine in quel tedesco rauco e cavernoso che ancora oggi risento in me come se fossero passati solo pochi mesi dalla mia deportazione e non sessant’anni.

Rimanemmo fermi all’esterno di Birkenau per almeno dodici ore. Nessuno sapeva spiegare il motivo. Tutti volevano scendere al più presto, soprattutto per bere. Invece aspettammo al freddo tante ore.

Non potevano sapere che le camere a gas di Birkenau erano piene e i convogli dovevano aspettare ore o addirittura un giorno intero.

Nel vagone intanto più nessuno si muoveva e alcuni vecchi erano morti. Nessuno più piangeva, neppure i bambini.

La selezione

Improvvisamente si aprirono i portelloni del treno e subito fummo assaliti da urla e insulti in una lingua incomprensibile.

Ancora risento in me quei suoni duri, aspri, feroci che mi terrorizzarono per quasi due anni.

Senza accorgermi mi ritrovai giù dal vagone spinta da strani individui con vestiti a righe che urlavano senza posa. Io allora ero molto giovane, avevo tredici anni: non fu un problema saltare giù dal vagone. Mio padre no! Non poteva saltare senza conseguenze.

In quella baraonda lo trovai a terra dolorante: era stato scaraventato giù come un sacco di patate, come una roba da niente!. In tanti anni di vita non ho mai visto niente di più orribile. Era l’incredibile dell’incredibile!

Altre persone gemevano a terra, doloranti e sanguinanti, mentre su di noi si avventarono uomini con il bastone e SS con il frustino.

Non capivo nulla, ero strattonata da una parte e dall’altra. Tutti chiamavano a gran voce i propri familiari, i cani abbaiavano, i tedeschi urlavano…

In quella confusione mi ritrovai improvvisamente a destra dove c’erano solo donne. Al mio lato vidi formarsi la fila degli uomini.

Rividi mio padre, sporco, con gli occhiali rotti e un filo di sangue che gli scendeva dal naso. Era qualche fila dietro di me. Eravamo in fila per cinque, non potevamo muoverci.

Ad un tratto mi trovai davanti a tre ufficiali tedeschi. Mi guardarono con attenzione e poi uno di loro mi chiese l’età in un italiano precario. “Quanti anni hai?”. “Sedici”. “Sei sola?”. “No, c’è mio padre”. Fece un cenno e mi misero sulla destra.

Pochi secondi dopo anche mio padre fu di fronte ad altri individui impettiti e arroganti che lo guardarono appena. Anche lui disse l’età: 52 anni! Troppi per vivere nel lager. Lo capii la mattina dopo.

Mio padre fu messo a sinistra e salì su un camion con uomini e donne anziani. Mio padre non era vecchio, ma la caduta, il fango sul viso, la ferita, la stanchezza lo facevano sembrare un uomo senza più forze.

Quando era già sul camion incontrai il suo sguardo perso: mi sorrise tristemente e mi fece ciao con la mano.

Mentre il camion si allontanava mi fece ancora dei segni…  Non lo rividi più!

A piedi raggiungemmo un grande camerone dove fecero spogliare noi donne per la doccia. Faceva un freddo insopportabile. Era il 6 febbraio del 1944 e ad Auschwitz la neve e il ghiaccio coprivano di un manto gelato tutto quel mondo orribile.

Aspettammo nude la doccia un tempo che parve interminabile. Intanto guardavo quei poveri corpi indifesi delle altre donne che non avrebbero sopportato la fame, il gelo, il lavoro delle settimane successive. Guardai anche il mio…  e rabbrividii.

Poi finalmente arrivò l’acqua molto calda, qualche minuto di beatitudine che finì subito quando ci fecero uscire all’esterno tutte nude e gocciolanti per andare di corsa verso un altro capannone poco distante. Lì ci buttarono addosso vecchie scarpe sfondate e spaiate e una divisa di brutta lana a strisce colorate.

Ricordo che la divisa appariva sporca e sembrava avere addosso qualcosa di repellente: seppi più tardi che tante altre donne, che in quel momento non c’erano più, se l’avevano messa addosso.

In un altro stanzone altre detenute ci tagliarono i capelli e ci depilarono lungo tutto il corpo provocando tagli e ferite.

Poi altre detenute tatuarono dei numeri sui nostri avambracci: da quel momento ero il 176.501. Non ero più Sara Mortara: ero il 176.501. E lo dovetti imparare subito in tedesco e anche in polacco.

Il mio numero era urlato in tedesco la mattina sulla piazza dell’appello e guai se non rispondevo subito: le Kapò picchiavano anche alla minima esitazione.

Dovetti imparare il mio numero anche in polacco perché le Kapò della mia camerata erano polacche e si divertivano a torturarci in questo modo.

E poi fu una notte terribile tra lamenti, pianti e invocazioni di aiuto nella camerata mentre all’esterno sentivo continui rumori di camion e urla gutturali in tedesco. Intanto un altro treno era entrato nel recinto di Birkenau, altri ebrei per la più grande fornace d’Europa.

Durante quella terribile notte, nel giaciglio che dividevo con altre povere ebree francesi, vedevo un grande camino da cui uscivano alte fiamme. Non capivo: tutto sembrava assurdo e incomprensibile.

La mattina, quando fu il momento di lasciare quel giaciglio, chiesi a una detenuta italiana, che sembrava essere lì da tempo, quando avrei rivisto mio padre.

Mi guardò sorpresa e sorrise scoprendo una bocca senza denti, ricordo… un sorriso cattivo, crudele. Mi fissò e disse brutalmente: “Guarda! Guarda dov’è tuo padre!” E mi indicò il camino.

Vita quotidiana

Dopo l’arrivo, la selezione, l’ultimo saluto a mio padre, il tatuaggio sul braccio e la perdita della mia identità, iniziò una lunga sequela di giorni sempre uguali.

Oggi, a distanza di molti anni, ho l’impressione di aver vissuto a Birkenau non un intero anno ma un giorno lunghissimo, interminabile, eterno.

Forse questa impressione è nata dalla continua ripetizione di giorni sempre uguali, nonostante le stagioni, la pioggia, la neve, il sole, nonostante la fame, la fatica, le malattie che indebolivano il nostro povero corpo.

La giornata iniziava quando era ancora buio. Alle quattro del mattino, dopo una notte passata nel freddo gelido della baracca, alcuni colpi di martello su una rotaia erano il segno che in tutte le baracche bisognava prepararsi per la conta nel piazzale dell’appello.

Le kapò strillavano e colpivano con un bastone di gomma chi di noi si attardava nelle baracche perché eravamo già prive di forze all’inizio della giornata.

Avevamo pochi minuti non tanto per vestirci (dormivamo con la divisa del campo addosso) quanto per buttarci un po’ di acqua sugli occhi e raggiungere in fretta l’appelplatz.

Le kapò, sempre urlando e colpendo a casaccio, obbligavano noi a fare tutto in fretta urtando e maledicendo le altre come noi.

Sull’appelplatz dovevamo rimanere spesso un’ora e più immobili, rigide sull’attenti durante la conta e guai se non facevamo un passo in avanti quando il nostro numero era urlato in tedesco. Immediatamente piovevano colpi sulla testa, le spalle, sul viso…

Finita la conta, spesso bagnate fradice di pioggia o irrigidite dalla neve, in fila per cinque dovevamo marciare verso l’uscita al suono di una fanfara.

Sì, avete capito bene: ad Auschwitz c’era una fanfara formata da internati come noi che suonava inni patriottici tedeschi e noi dovevamo marciare a tempo.

Quale contrasto tra l’allegria di quelle marcette e quel cielo di morte sopra di noi!

Lavoravo in una fabbrica a due chilometri dal campo nella quale si costruivano proiettili per i cannoni. Lavoravo al tornio… io, una donna… al tornio! E dovevo preparare centinaia e centinaia di involucri dei proiettili.

Spesso le SS entravano a sorpresa nella fabbrica e controllavano il lavoro. Se i pezzi erano difettosi oppure in numero minore rispetto alla tabella di produzione le SS picchiavano duramente la malcapitata. Per lei, se era ancora in vita, ci sarebbe stata solamente la camera a gas. Eppure noi della fabbrica eravamo invidiate dalla maggioranza delle nostre compagne che erano obbligate a lavorare all’aperto in qualunque stagione.

A mezzogiorno da mangiare c’era solo un pezzo di pane ammuffito dopo aver ricevuto un altro pezzo di pane la mattina presto accompagnato da un poco di caffè.

Caffè?! Una brodaglia che oggi non riuscirei neppure ad avvicinare alle labbra. Però allora ricordo che tutte noi aspettavamo con ansia e sofferenza il momento del pane e del caffè. Il caffè era caldo e durante la giornata non era prevista per noi dell’acqua, neppure d’estate, neppure durante il lavoro.

La sete ad Auschwitz era ancora più tormentosa della fame.

A volte di sera ci davano anche un po’ di marmellata o di margarina così, sulla mano, non era previsto nessun piatto e nessuna posata. La minestra nella gamella dovevamo berla senza cucchiaio e guai a sporcarci! Non potevamo imbrattare la divisa proprietà del Reich!

Ho visto…. ragazze e donne non più giovani battute a sangue dalle kapò perché si erano sporcate mentre bevevano direttamente dalla gamella. Si erano sporcate! … noi che vivevamo in mezzo a pidocchi e cimici!

La nostra ossessione era mangiare: quando lavoravamo, nei pochissimi momenti di ozio, durante le lunghissime ed insonni notti sognavamo di mangiare, muovevamo la bocca come se stessimo mangiando del pane; anche durante il sonno si sognava il cibo.

Ricordo che più volte durante le notti sono stata svegliata da compagne che facevano schioccare la lingua e deglutivano continuamente.

Anch’io durante il lavoro spesso mi scoprivo a masticare qualcosa di inesistente.

Il pomeriggio il lavoro durava fino alle sei d’inverno e alle sette d’estate. Dopo di noi c’era il turno notturno: altre disgraziate come noi che avrebbero lavorato la notte nella polvere e nel frastuono dei macchinari sognando anche loro la più vicina distribuzione del pane.

Al ritorno, quando era buio da un pezzo, almeno d’inverno, c’era un’altra conta, altre due ore al freddo con lo stomaco vuoto.

Ferme, immobili, impaurite, sempre pronte a schivare il pericolo improvviso come animali che non sanno che cosa faranno i loro padroni.

Al ritorno nelle baracche finalmente avevamo il pane, subito divorato, e la minestra di un litro, tutta acqua con poche verdure. Ma era buona lo stesso, anzi non ho mai mangiato quello che mi davano con tale rapidità come nei mesi di Auschwitz.

Finito il pasto che consumavamo in piedi e rapidamente, anche per evitare che una detenuta più affamata di noi ci rubasse il pane, veniva il momento di mettersi nelle cuccette.

Nessuna di noi aveva uno spazio suo, seppure minimo. Era inconcepibile ad Auschwitz! Eravamo messe testa-piedi e così nello spazio di una- due persone dormivamo anche in tre o quattro.

Al centro stava la più forte delle quattro, colei che ancora aveva le forze per farsi rispettare, ai lati le più deboli. Al centro si era riscaldati dal corpo delle altre e l’unica coperta di lana difendeva dal freddo. Chi stava di lato aveva solo un lembo di coperta ed era esposto al gelo.

E poi i pidocchi, le cimici, il prurito continuo e fastidioso. Non potevamo girarci, imperversava la dissenteria, tutte si lamentavano, chi piangeva, chi soffriva, i frequenti colpi di tosse… le notti ad Auschwitz erano incubi senza fine… e il giorno dopo, tutto ricominciava.

La marcia della morte e la Liberazione

Verso al fine del 1944 ci accorgemmo che qualcosa era cambiato all’interno del lager: vedevamo i tedeschi sempre più nervosi e concitati nel dare ordini.

Non era possibile che la loro tensione rimanesse nascosta perché spesso parlavano in circolo e poi guardavano con apprensione verso Est. Li terrorizzava l’avanzata dell’Armata Rossa di cui noi sentivamo i colpi sordi e fiochi di cannoni lontani.

Ricordo che durante la notte questi rumori erano un poco più udibili ma sembravano venire da distanze abissali, quasi da un altro mondo. Sapemmo poi che l’Armata Rossa aveva invaso la Romania, la Polonia orientale, l’Ungheria marciando verso la Germania.

Noi non ci facevamo illusioni: sapevamo che i nazisti avrebbero perso la guerra ma nessuno di noi sarebbe rimasto vivo per raccontarlo ai propri nipoti.

Io pesavo meno di quaranta chili e vicino a me c’era un esercito di scheletri. Solo chi era arrivato da poco e aveva evitato le selezioni conservava in parte l’aspetto precedente.

Improvvisamente il 18 gennaio del 1945 fu dato l’ordine di evacuare Auschwitz: tutti i prigionieri in grado di camminare autonomamente sarebbero usciti dal lager verso destinazione ignota.

E i malati? Le persone deboli, gli “scheletri” appunto? Non era difficile  immaginare la loro sorte: sarebbero stati uccisi con un colpo di pistola, le camere a gas erano state fatte saltare con la dinamite.

Avevo stretto amicizia con una deportata ebrea francese, Janine, una povera ragazza di diciotto anni a cui avevano strappato i genitori appena arrivati ad Auschwitz. Non li aveva più rivisti: erano stati uccisi subito nelle camere a gas.

Janine sapeva che i suoi genitori erano cenere nel vento di Auschwitz, ma non ne parlava mai. Parlava sempre invece della bella vita che faceva a Lione prima della deportazione: bei vestiti, incontri mondani, viaggi, tavole sempre imbandite.

Nei suoi ricordi, ingigantiti dall’inferno di Auschwitz, sembrava che fosse vissuta come una principessa.

Ora Janine languiva in fondo a una camerata fredda e spoglia, senza coperte e su una branda dove c’erano altre due donne morenti. Non riusciva neanche più a parlare, ma ricordo che i suoi occhi, dilatati dalle malattie, mi dicevano: “Vai… segui le altre… non rimanere…. ti uccideranno!”

Ricordo che un attimo prima di essere buttata fuori dalla camerata da una Kapò,  guardai Janine per poco. I suoi occhi erano ancora più grossi nel viso affilato. Sapeva che di lì a qualche ora sarebbe stata uccisa.

Non riuscii neppure a dirle una parola, non ci fu neppure un gesto da parte mia.

Voi sareste capaci di dire qualcosa a una persona che qualche ora dopo sarà uccisa? Come si può guardare negli occhi chi ha già la morte nel suo sguardo?

Il 18 gennaio, intorno alle 11 di sera, un’interminabile colonna di persone, che a fatica stavano in piedi, uscì dal cancello di Auschwitz dove campeggiava l’ignobile scritta “Arbeit mach frei”, il “lavoro rende liberi”. Quella volta la scritta non era illuminata.

Il freddo era insopportabile, il vento tagliava la faccia e assiderava le mani e i piedi. Avevamo addosso non più di una coperta oltre alla divisa del campo. Le gambe e le mani erano nude, la coperta non bastava per riscaldare la testa e il resto del corpo; le scarpe erano sformate e sfondate, entrava la neve e i piedi gelavano.

Era proibito camminare, dovevamo correre! Correre, sì, correre! nella neve alta e scivolosa cadendo ogni pochi passi.

Dopo non molti minuti sentimmo uno sparo, poi due, tre. Non riuscivamo a capire. Non potevano essere i russi, erano ancora lontani.

Poi di fronte a me cadde una donna per sfinimento. Arrivò un tedesco e con voce rauca gridò: “Alzati bestia!”. Quella donna era esausta. Tentò di alzarsi ma ricadde nella neve. Il soldato prese il fucile che aveva a tracolla e sparò alla testa… un rivolo di sangue scuro arrossò la neve nera.

Continuavo a correre nella neve cadendo in continuazione e con il terrore che un tedesco sparasse anche a me.

Solo alle prime luci dell’alba entrammo in un villaggio e ci divisero in gruppi. Noi entrammo in una stalla dove non c’erano più animali.

Là dentro molte di noi mangiarono erba, paglia, qualunque cosa sembrasse calmare la fame bestiale che si agitava in noi.

Chi mangiò quella roba non riuscì poi a muoversi per violenti e improvvisi dolori di stomaco e fu uccisa lì.

Al termine del primo giorno ci misero su un treno merci e ci portarono nel cuore della Germania lontano dai russi e lontano dagli americani che stavano invadendo la Germania da Ovest.

Nella notte raggiungemmo il lager di Bergen Belsen, lo stesso lager dove morì Anna Frank.

Ogni giorno arrivavano prigionieri da ogni parte e la situazione divenne subito insostenibile. Non c’era più acqua, il cibo veniva distribuito di tanto in tanto e provocava forti scompensi allo stomaco. La brutalità delle guardie peggiorava sempre di più.

Rimpiangevamo la dolorosa simmetria di Auschwitz dove regnava un ordine assoluto che permetteva ai più forti qualche speranza di sopravvivenza. Ora tutti eravamo condannati a morte.

Precipitai subito in una condizione di apatia che avevo visto più volte intorno a me. Ero diventata una “musselman”, una “mussulmana”: nel gergo del lager voleva dire che stavo vivendo lo stadio prima della morte.

Così vissi gli ultimi mesi prima della liberazione. Mangiavo perché qualche volta qualcuna mi dava un pezzo di pane, ma io non ero cosciente di nulla.

Ricordo solo il giorno della liberazione. Era il 5 aprile del ’45. Pur nel mio torpore mortale mi accorsi che c’era uno strano movimento intorno a me.

Mi trovavo nel prato del lager ridotto ormai a una distesa di cadaveri e di sporcizia.

Ricordo che improvvisamente venni sollevata da terra. Il movimento fu deciso, venni presa da braccia robuste.

Aprii gli occhi e incontrai gli occhi buoni di un uomo che mi sorrideva: era un largo sorriso che mi destò dalla mia sonnolenza.

Mi diede un bacio sulla guancia e in quel momento capii di essere libera.

Non ho mai più provato una tale sensazione di dolcezza e di felicità.

Quell’uomo, un soldato americano, purtroppo non l’ho mai più rivisto.

Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte

ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia,

vario nei particolari e unico nella sostanza:

di essere tornati a casa, di raccontare con passione

e sollievo le loro  sofferenze passate

rivolgendosi ad una persona cara,

e di non essere creduti, anzi neppure ascoltati”

Primo Levi

Giancarlo Restelli