Dante nostro contemporaneo.
L’esilio, il profugo
“Povero assai, trapassò il resto della vita dimorando in vari luoghi
per Lombardia e Toscana e per Romagna sotto il sussidio di vari Signori”
Leonardo Bruni
Cercheremo di capire quanto le esperienze di Dante negli ultimi vent’anni della sua vita ci parlino del mondo a noi contemporaneo.
Il provvedimento dell’esilio, la condanna a morte, l’essere precipitato in una nuova e destabilizzante condizione di vita quotidiana, il distacco da tutto quello che gli era più caro, la miseria, il dover chiedere … fanno di lui settecento anni fa un profugo come ce ne sono a decine di milioni oggi nel mondo. Un profugo per ragioni politiche o di guerra.
Dante nella “selva oscura”
Non è possibile ricostruire per filo e per segno l’attività politica di Dante negli ultimi anni del Duecento a Firenze. Possiamo dire però che fu il totale coinvolgimento con la parte bianca all’origine della sua cacciata e condanna a morte.
Nelle lotte sempre più cruente tra Bianchi e Neri, Dante è un uomo di parte; non riesce a dominare gli avvenimenti, al contrario è dominato da essi fino al punto di sentirsi perso in una “selva oscura” dove rischia di perdere l’anima.
I provvedimenti dei Neri, ora al potere (dal novembre 1301), contro di lui da un certo punto di vista sono ineccepibili: Dante è condannato per “baratteria” (accusa sicuramente pretestuosa) perché nella “città partita” è stato un “uomo di parte” dotato di acume ma anche di aspra intransigenza nei confronti degli avversari.
L’esilio
Le due date cruciali per il Dante profugo sono il 27 gennaio 1302 quando venne decretato il confino per “baratteria” e il 10 marzo dello stesso anno quando venne condannato a morire sul rogo.
Iniziava così per lui e per tanti fiorentini di parte bianca (circa seicento) l’esilio, tra di loro c’era anche ser Petracco, il padre di Francesco Petrarca.
Le speranze di un rapido ritorno in patria non erano morte perché tra i fuggiaschi bianchi c’era molta animosità. Il progetto sembra fattibile perché venne stretta rapidamente un’alleanza con i ghibellini fiorentini che erano stati cacciati dopo la battaglia di Benevento del 1266 (!). Per i Neri a Firenze questa alleanza è la prova che gli esiliati sono tutti ghibellini che hanno gettato la maschera.
In questo periodo Dante non si allontana più di tanto dal territorio di Firenze seguendo passo passo l’evolversi della contesa.
All’interno della “Universitas Partis Alborum de Florentia” (Consorteria dei fuoriusciti Bianchi fiorentini) svolge le funzioni di segretario e uomo di punta dell’organizzazione. Il capo riconosciuto è Vieri de’ Cerchi.
Con questo ruolo scrive più volte al Cardinale Niccolò da Prato, inviato dal nuovo Papa Benedetto XI, per mettere pace a Firenze.
Il tono di Dante con il cardinale è aspro e guerresco: “Rosseggiavano le spade e le lance nostre” nella guerra portata nei domini fiorentini incendiando castelli e casolari di contadini.
In questo momento Dante ha trentotto anni. Potremmo immaginarlo come a Campaldino e alla Caprona in armi e a cavallo a combattere contro un nemico a cui non concede alcuna attenuante. In ogni caso è un linguaggio che non ci aspetteremmo in un poeta come il nostro autore.
Tutto finisce con la disastrosa battaglia della Lastra (20 luglio 1304) quando tra le mura di Firenze l’esercito guelfo bianco-ghibellino subisce una disastrosa sconfitta.
Ma è molto probabile che Dante, capro espiatorio delle precedenti sconfitte, avesse già rotto con la “compagnia malvagia e scempia… che tutta ingrata, tutta matta ed empia / si farà contr’a te”. E’ il momento in cui Dante dovrà imparare a fare “parte per se stesso” (“Paradiso”, XVII).
“Florentinus exul inmeritus”
A questo punto è un uomo solo, sempre pù lontano dalla famiglia, da Firenze, senza più amici di partito. Deve cavarsela da solo. Ed è così che conosce la miseria e la precarietà della vita dell’esule.
Dante è un uomo che a Firenze negli anni migliori non aveva sicuramente problemi di denaro e faceva la bella vita tra studio, amori e poesia con gli amici più cari: Guido Cavalcanti, Forese Donati, il liutaio Belacqua, il musico Casella, il “notaro” Lapo Gianni.
Della miseria del suo stato ne abbiamo testimonianza in una lettera ai conti di Romena nel Casentino in cui si dice dispiaciuto di non poter presenziare al funerale di un membro del loro casato:
“Né negligenza né ingratitudine (era stato ospitato dalla persona che ora era morta) mi hanno trattenuto, ma l’improvvisa povertà che l’esilio ha determinato. Questa infatti, persecutrice crudele, mi ha ormai cacciato nell’antro della sua prigionia, privato d’armi e cavalli, e pur sforzandomi io di levarmi con ogni forza, fin qui prevalendo, cerca, l’empia, di tenermi”.
C’è anche una pagina del “Convivio” all’interno della quale si coglie la sua sofferenza. Dopo aver scritto che era nato e cresciuto a Firenze all’interno della quale sperava poi di morire, Dante accenna alla sua nuova condizione: “… peregrino, quasi mendicando sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertate”.
Non c’è solo il dolore della povertà e l’affanno di sentirsi in balia del destino. C’è anche l’orgoglio di quanto fatto politicamente a Firenze e delle scelte che aveva fatto: “L’essilio che m’è dato, onor mi tegno… cader co’ buoni è pur di lode degno” (“Tre donne intorno al cor mi sono venute”, 1302).
“Perdonare è un bel vincer di guerra”
Lo stato d’animo nei primi anni dell’esilio (i più difficili) doveva essere per forza di cose contraddittorio perché accanto ad affermazioni di orgoglio e quasi sfida nei confronti del destino, compaiono componimenti e lettere in cui il tono è sicuramente più dimesso fino ad adombrare la richiesta del perdono ai Neri che lo avevano cacciato.
In una celebre canzone invita alla concordia, al perdono:
“Canzone, uccella con le bianche penne (la parte bianca);
Canzone, caccia con li neri veltri (i Neri al potere),
che fugir mi convenne,
ma far mi potèrian di pace dono.
Però nol fan che non san qual che sono:
… chè perdonare è un bel vincer di guerra”
“Popule mee, quid feci tibi”?
Tale stato d’animo appare in una lettera che Leonardo Bruni lesse ma non è arrivata a noi. Tale lettera ai Neri di Firenze così iniziava: “Popule mee, quid feci tibi?” (“Popolo mio, che cosa ti ho mai fatto?”) nella quale ricordava i suoi meriti fin dalla partecipazione alla battaglia di Campaldino. La lettera non ebbe risposta.
Secondo Bruni, Dante, dopo la definitiva sconfitta della Lastra, “ridussesi tutto umiltà, cercando con buone opere e con buoni portamenti riacquistar la grazia di potere tornare a Firenze per ispontanea revocazione di chi reggeva la terra”.
Forse non c’è migliore espressione del suo stato d’animo nei primi anni dell’esilio di questa: “Florentinus exul inmeritus” che compare in una lettera del 1305 all’amico e poeta Cino da Pistoia.
Stessi temi ancora nel 1307 nella cosiddetta “montanina”, una canzone dedicata a Moroello Malaspina, signore della Lunigiana e protettore di Dante tra il 1306-1307.
In questa poesia Dante racconta di un improvviso amore per una “bella montanina” e scrive che ora Amore lo tiene avvianghiato a sé, tanto che se i fiorentini volessero finalmente permettergli di tornare in città non potrebbe liberarsi dalle catene d’Amore che lo tengono avvinghiato. Il messaggio a Firenze è chiaro: “Omai non vi può far lo mio fattor più guerra”.
Stesse espressioni, quasi le stesse parole quando si rivolse con grande enfasi all’imperatore del Sacro Romano Impero germanico Enrico VII (1311) invitandolo a scendere presto in Italia e a Firenze per portare la pace. Così si firmò: “l’umile italiano Dante Alighieri fiorentino ed esule senza colpa invoca pace”.
Il rapporto con i fiorentini può apparire contraddittorio perché mentre da una parte chiede il perdono con atteggiamenti dimessi, dall’altra nella stessa lettera si scaglia contro gli “scelestissimi Florentini intrinsecis” e definisce Firenze la “nuova Roma” (Firenze-Lupa-Cupidigia). Con accenti di grande ira continueranno le dure reprimende nei confronti della sua città nel corso della “Comedìa”.
La voce dell’esule nel “Sacrato Poema”
Tutti noi ricordiamo a memoria la famosa profezia di Cacciaguida nel “Paradiso”. Solo un esule poteva scrivere versi simili!
“Tu lascerai ogni cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”
Ma Dante si sente “tetragono (neologismo dantesco, stabile come il cubo) ai colpi di ventura”, ma le percosse della fortuna sono meno violente se in qualche misura previste (“Paradiso”, XVII).
Romeo da Villanova
Stessi accenti nella figura di Romeo da Villanova (Romieu de Villeneuve, 1170-1250), che Dante incontra tra i suicidi.
Romeo, persona integerrima, era diventato l’uomo di fiducia del conte di Provenza Raimondo Berengario IV. Aveva incrementato il patrimonio della contea ma le maldicenze dei cortigiani erano arrivate fino al conte il quale lo allontanò dal suo regno.
E così Romeo dovette andarsene povero e ramingo:
“… indi partissi povero e vetusto; / e se ‘l mondo sapesse il cor ch’egli ebbe / mendicando sua vita frusto a frusto (un tozzo di pane dopo l’altro), / assai lo loda, e più lo loderebbe”. Qui Dante in realtà sta parlando di se stesso.
In effetti vivere nelle corti in cui fu ospitato non fu facile: accanto alla volubile ospitalità dei suoi protettori Dante doveva fare i conti con il chiacchiericcio dei cortigiani, spesso persone di poco conto anche se avevano titoli altisonanti.
L’invidia dei cortigiani si ripresenta nel canto di Pier delle Vigne (Inferno, XIII), suicida perché caduto in disgrazia presso l’imperatore Federico II di Svevia.
L’avo Cacciaguida
Ed è per poter vivere meglio in questi ambienti di nobili sfaccendati e strafottenti che Dante “inventa” una presunta origine nobiliare della sua famiglia introducendo a meta del “Paradiso” il trisavolo Cacciaguida, cavaliere grazie all’imperatore germanico Corrado III e morto in battaglia durante la II Crociata.
Grazie a quest’incontro in cui il trisnonno gli racconta la storia della sua famiglia Dante si ricorda di avere avuto in famiglia un cavaliere di cui farsi vanto negli ambienti nobili delle corti che frequentava.
Dante è così contento di avere un antenato cavaliere che prova gioia addirittura in paradiso! Sa bene quanto è effimera la gloria terrena nel regno dei cieli, ma in quel momento non può trattenere la soddisfazione:
“O poca nostra nobiltà di sangue… nel cielo, io me ne gloriai”.
Il grande rifiuto
E’ un Dante all’altezza della sua fama quando rifiuta sdegnosamente il ritorno a Firenze del 1315 perché costretto a un’umiliante prassi molto consueta in questi casi in cui il “pentito” era costretto ad ammettere le sue colpe.
Scrive a un amico fiorentino che lo invitava caldamente a considerare l’ipotesi del ritorno: “E’ questa la grazia del richiamo con cui Dante Alighieri è richiamato in patria dopo aver patito quasi per tre lustri l’esilio? Questo ha meritato un’innocenza evidente a chiunque? Questo i sudori e le fatiche continuate nello studio? Non è questa la via del ritorno in patria… Né certo il pane mi mancherà”.
Più che il perdono dei fiorentini Dante sperava nel ritorno grazie alla sua opera letteraria. Con se stesso auspicava l’incoronazione a poeta nel suo “bel San Giovanni”:
“Con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta ed in sul fronte / del mio battesmo prenderò il cappello”.
Contraddizioni, oscillazioni, orgoglio ma anche segni di umiltà che fanno del Dante esule un uomo prima che un grande poeta. Un uomo che ha sofferto molto ritenendo sempre immeritata la sua lunga pena.
Settecento anni dopo la sua storia ci restituisce tantissime altre storie di uomini cacciati da loro Paese a causa di guerre o dittature.
A questo punto potremmo dire che quella di Dante è anche un capitolo dell’eterna storia dell’uomo migrante, del profugo, dell’esiliato, dello sconfitto dalla Storia.
“Io che ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare,
benché abbia bevuto all’Arno prima di mettere i denti e tanto ami Firenze da patire, per amor suo, ingiustamente esilio, appoggio le spalle del mio giudizio più alla ragione che al senso”
De Vulgari Eloquentia, I, 6