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Dante uomo del suo tempo

Dante uomo del suo tempo (ma anche del nostro)

La prima nazione capitalista fu L’Italia. Il chiudersi del Medioevo feudale,

l’aprirsi dell’era capitalistica sono contrassegni di una figura gigantesca,

quella di un italiano, Dante, al tempo stesso l’ultimo poeta del Medioevo e il primo poeta moderno”

F. Engels, Prefazione all’edizione italiana del “Manifesto del Partito Comunista” (1893)

Troppo spesso in queste celebrazioni si è cercato di attualizzare Dante considerandolo “uno di noi”. In realtà le cose non stanno così. Come cercherò di dimostrare Dante è un uomo del suo tempo, anzi più del ‘200 che del ‘300 (il secolo di Petrarca e Boccaccio). Un uomo totalmente immerso nel suo tempo. Ma anche aperto al nuovo.

Tutto ciò non per sminuire il personaggio, l’uomo e lo scrittore, al contrario per cercare di restituirgli il grande spessore che indubbiamente continua ad avere.

In sintesi potremmo dire che Dante è innovatore e uomo del Medioevo, contemporaneo e medievale contemporaneamente.

Scrive F. Engels in una prefazione al “Manifesto del Partito Comunista” (1893): “Dante, al tempo stesso l’ultimo poeta del Medioevo e il primo poeta moderno”. Giudizio più che pertinente ed efficace sintesi del suo pensiero.

Anche noi siamo persone del nostro tempo. Magari fra cinquant’anni qualcuno metterà in evidenza quali idee balorde ci appartenevano. A noi sembrano “normali” mentre in realtà derivano da quello che i genitori, la scuola e l’intera società ci hanno insegnato.

Cominciamo con tre aspetti forse non del tutto conosciuti

  • Dante in realtà si chiamava Durante. Dante era il diminutivo
  • Non sappiamo che faccia avesse e neppure la grafia con cui scrisse la “Commedia”
  • Non abbiamo neppure l’originale della “Commedia” autografato da lui

Uomo del Duecento

Geri Del Bello, la vendetta come dovere

Nella bolgia dei seminatori di discordie (XXIX Inferno, ottavo cerchio, IX e X bolgia) Dante si ricorda che dovrebbe esserci un suo parente, un cugino del padre, un certo Geri del Bello, uomo violento, seminatore di zizzania.

E’ Virgilio a dirgli (parole mie): “E’ qui il tuo parente. Non lo hai visto? Ti ha fatto un gestaccio (“minacciar forte col dito”) e non ti ha voluto parlare”. Perché? Perché Geri era stato ucciso in una rissa da uno dei Sacchetti e gli Alighieri ancora non lo avevano vendicato.

Stupisce la risposta di Dante: “Ha ragione. Dovevamo vendicarlo, e non l’abbiamo fatto”: “La violenta morte / che non li è vendicata ancor / per alcun che de l’onta sia consorte/ fece lui disdegnoso… / e in ciò m’ha el fatto a sé più pio” (ciò mi ha reso più pietoso nei suoi confronti).

Per capire la risposta dobbiamo sapere che nel Medioevo la vendetta era del tutto legale e considerata un dovere per tutte le famiglie che subivano l’omicidio di un membro. Le forze dell’ordine intervenivano solo quando dopo la vendetta la faida continuava ancora.

Ma dobbiamo anche sapere che in quei tempi la violenza era molto diffusa: i magnati giravano armati di spada e le zuffe e le risse erano all’ordine del giorno.

Il governo borghese di cui Dante era un alto esponente aveva cercato di limitare la violenza con il carcere e l’esilio da Firenze per chi si macchiava di gravi crimini, ma senza apprezzabili risultati.

Sempre per limitare il potere politico dei nobili con gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella (1293) erano stati esclusi tutti coloro che avevano cavalieri in famiglia. Ma anche questo provvedimento fu poco dopo annacquato.

La risposta di Dante a Virgilio è un altro tassello del suo essere uomo del suo tempo.

Il mutamento del concetto di nobiltà

Anche in questo caso misuriamo la differenza rispetto al nostro modo di vedere le cose.

In gioventù al tempo del “dolce stil novo” Dante era convinto che la vera nobiltà è nel cuore delle persone. Si è nobili perché si è gentili, perché si ama la poesia, si è capaci di amare spiritualmente come cantano i Provenzali e gli Stilnovisti… Ne deriva che la nobiltà non coincide con la stirpe, la “schiatta”, ossia la nobiltà di sangue. Anzi, scrive il giovane Dante, questa nobiltà non esiste!

Dante era indotto ad assumere queste posizioni perché Firenze è una città borghese e anche chi reclama la nobiltà familiare due-tre generazioni prima veniva dal contado e in città ha fatto i soldi con il mercato e l’usura.

Quando invece Dante, a causa dell’esilio, comincia a frequentare le corti dei nobili, come quella dei Malaspina in Lunigiana e soprattutto quella di Cangrande della Scala a Verona si rende conto che è importante avere natali nobili. E così “inventa” la figura del trisavolo Cacciaguida, fatto cavaliere dell’imperatore Corrado II al tempo della II Crociata.

“Inventa” perché non ci sono riferimenti documentali. Cacciaguida potrebbe essere un lontano ricordo di famiglia amplificato di generazione in generazione. Da notare che a Cacciaguida Dante dedica tre canti del “Paradiso” dove lo venera come antenato che ha dato la nobiltà e il nome a tutti gli Alighieri discendenti.

Dante è così emozionato dall’incontro che a un certo momento esclama che in Paradiso queste vanità terrene non dovrebbero avere alcun peso, ma a lui in quel momento piaceva tanto sentirsi nobile.

E’ inutile dire che la nostra sensibilità è molto cambiata rispetto a quel tempo. Qualcosa oggi però è rimasto. Non diciamo forse che la vera ricchezza non è quella ereditata dal padre o data del conto in banca ma è interiore? Sono le posizioni del giovane Dante, non del Dante maturo.

Dante a Campaldino

Dante addirittura partecipa a una battaglia vera e propria, particolarmente sanguinosa secondo i cronisti del tempo. E’ la battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), presso Arezzo, combattuta da Firenze contro Arezzo. Ma è anche la battaglia dei guelfi contro i ghibellini di Toscana.
Dante è in prima fila nell’esercito guelfo-fiorentino tra i “feditori” (feritori). Sono coloro che devono attaccare per primi oppure subire per primi l’assalto iniziale del nemico.

Leonardo Bruni ebbe in mano una lettera di Dante (poi andata perduta) in cui il poeta narrava della paura che provò mentre avanzavano al galoppo i cavalieri aretini e i “feditori” di Firenze furono investiti dalla carica e dovettero arretrare notevolmente. Chissà, forse Dante a Campaldino ha ferito o addirittura ucciso un cavaliere nemico o qualche fante.

Poi la battaglia andò nel modo migliore per i fiorentini i quali approfittarono della carica troppo lunga degli aretini e poterono attaccarli di lato (guidati da Corso Donati) e sbaragliarli.

La battaglia terminò con la sconfitta di Arezzo e i cavalieri fiorentini sotto le mura della città a irridere gli aretini.

Sappiamo che Dante partecipò pochi mesi dopo all’assedio di Caprona (agosto ’89), anche questa volta l’ebbero vinta i fiorentini. Forse fu ancora uomo d’arme nei primi tempi dell’esilio da Firenze quando le spade dei guelfi bianchi “rosseggiavano” di sangue (1302-04) contro i neri di Corso Donati.

Perché il giorno di Campaldino Dante è tra i “feditori”? Perché appartiene a una delle migliori famiglie di Firenze (anche se non è nobile). Padre, nonno e bisnonno si sono arricchiti con il commercio e l’usura. Ha ventiquattro anni. Un patrimonio che gli consente di non lavorare e di dedicarsi alla poesia e alle armi. Nel Medioevo le due cose non erano dissociate. Infatti più volte nella “Commedia” ricorrono battaglie, scontri con lancia e spada, armi… di cui possiamo avvertire passione e amore da parte dell’autore.

Da notare che il corpo dei “feditori” era una sorta di élite nell’esercito fiorentino. Partecipavano giovani di famiglie che pagavano ingenti tasse, che possedevano uno o più cavalli da guerra (particolarmente costosi), erano capaci di giostrare con le armi e passavano parte del tempo quotidiano ad addestrarsi.

Dante faceva tutto questo perché era parte dell’educazione che tanti giovani come lui ricevevano nei comuni medievali.

Dante che combatte, sfiora i colpi e forse uccide gli avversari e irride il nemico festeggiando la vittoria… tutto questo contrasta con la nostra visione dello scrittore oggi: appartato, dedito tutto alla scrittura, poco nulla legato alla politica.

Dante e la politica

Dante fa politica eccome! Dal 1295 fino all’esilio e condanna a morte (febbraio-marzo 1302) Dante fa parte dei vari organismi che sovrintendevano la politica a Firenze e dal 15 giugno al 15 agosto del 1301 è uno dei sei Priori, massima carica a Firenze. Così immerso nella politica fino a farne derivare la causa delle sue successive sventure: l’accusa di “baratteria”, l’esilio da Firenze, la perdita dei beni, l’allontanamento dalla famiglia e la successiva condanna a morte se avesse tentato di rientrare a Firenze.

La “selva oscura”

Quando Dante scrive “Nel mezzo del cammin della nostra vita / mi ritrovai in una selva oscura / ché la diritta via era smarrita” sta pensando a se stesso nell’anno 1300 e in particolare al marzo dello stesso anno quando viveva la politica con totale dedizione fin ad arrivare pochi mesi dopo al Priorato.

Perché in quell’anno si sente perso in una “selva oscura”? Perché Firenze allora era la New York di oggi, la Shanghai di oggi, ossia la maggiore città europea per popolazione (100.000 abitanti) e circolazione della ricchezza.

Gli interessi in gioco erano innumerevoli: gli appalti, le cariche politiche, i favori agli amici, le leggi che dovevano passare… più la politica “estera” della città in rapporto alle altre città toscane guelfe e soprattutto in rapporto con il potente Bonifacio VIII che stava tramando contro il governo dei Guelfi bianchi al potere per portare al governo della città suoi amici neri (i Donati). Una situazione estremamente impegnativa ma soprattutto difficile da reggere viste le pressioni che sicuramente Dante subì mentre era Priore nei due mesi del suo incarico.

Dopo l’arrivo di Carlo di Valois a Firenze (autunno del 1301) e il colpo di stato dei neri Dante (che forse si trovava a Roma in quei giorni) fu bandito da Firenze con l’accusa di “baratteria”. Così nel Medioevo si indicavano reati a noi oggi molto comuni quali: corruzione, peculato, appropriazione di fondi pubblici…

Non credo che Dante si sia intascato dei soldi per sé. Sicuramente è stato costretto a prendere decisioni sofferte perché in quei mesi Dante è un uomo di partito, schierato con i Guelfi bianchi (capeggiati dalla ricchissima famiglia dei Cerchi) in odio contro i ghibellini (tutti fuori da Firenze) e molto sospettoso nei confronti dei Guelfi neri, esclusi o quasi dal potere, i quali tramavano con Bonifacio VIII il loro trionfo politico con un colpo di mano.

Le cose andarono così e Dante da un giorno all’altro si trovò nelle condizioni dell’esule che deve bussare a molte porte per trovare ospitalità, perdendo il suo patrimonio, separato dalla sua famiglia (la moglie con i figli piccoli non lo segue in esilio), nell’incertezza del suo avvenire.

In una lettera, poi purtroppo persa, Dante scrive: “Dalli infausti comizi del mio Priorato deriveranno tutti li mali e gli inconvenienti miei”

Dante tra Beatrice e Gemma

Dante ha scritto migliaia di pagine ma non c’è mai un riferimento al padre, al nonno e neppure al bisnonno. Neppure allo zio. Solo al trisavolo Cacciaguida dedica ben tre canti del “Paradiso”.

Anche della madre di Dante non sappiamo nulla o quasi. Sappiamo solo che morì giovane quando Dante aveva pochi anni (forse addirittura di parto) e il padre si risposò subito. Quindi Dante ebbe una matrigna di cui abbiamo nome e cognome ma anche in questo caso Dante non ci dice niente.

Non c’è mai nella sua opera neppure la moglie, Gemma Donati, di cui non sappiamo praticamente nulla o quasi. Non conosciamo neppure con precisione l’anno del matrimonio. Perché?

Mentre fa di Beatrice la protagonista indiscussa de “La vita nuova”, poi guida di Dante dalla cima del “Purgatorio” fino agli ultimi canti del “Paradiso”, la moglie è praticamente assente.

Del suo rapporto con Beatrice sappiamo tutto o almeno crediamo di sapere tutto. La incontra quando Dante ha nove anni mentre lei ne ha otto e mezzo durante una festa organizzata da Folco di Manetto Portinari, che è il padre di Beatrice. Quel giorno Dante se ne innamora perdutamente e non la dimenticherà neppure dopo la morte di lei nel 1290 (aveva 24 anni!).

In questo caso possiamo parlare di innamoramento. Anche a noi è capitato di innamorarci perdendo la testa durante l’adolescenza. Il matrimonio era tutt’altra cosa. Era un affare di due famiglie (motivi economici, politici, di buon vicinato…) dove i due giovani non c’entravano nulla. Era un dovere da rispettare. Poi potevano anche essere felici ma non avevano deciso loro chi sposare.

Per il padre di Dante era una buona occasione per imparentarsi con la potente famiglia Donati. Gli Alighieri erano di minore importanza. Insomma nel Medioevo amore e matrimonio quasi sempre erano due cose diverse.

Come fu la vita coniugale di Dante? Non sappiamo nulla a parte Boccaccio che ci dice che quando Dante fu esiliato da Firenze (febbraio 1302) quasi quasi fu contento, così non doveva più rivedere la moglie.

Eppure ebbe da lei cinque figli (tre maschi e due femmine), forse qualcuno in più visto l’alta percentuale di bambini che morivano durante il parto o in tenera età.

È inutile dire che oggi le cose non sono più così. Senza misconoscere le situazioni in cui il marito o la moglie è imposta dal padre, oggi i giovani sono liberi di scegliere la persona con la quale condivideranno molti anni della loro vita.

Dante e la sua famiglia

Sembra incredibile ma in migliaia di pagine Dante non ricorda mai il padre Alighiero, il nonno Bellincione, il bisnonno Alaghieri mentre al trisavolo Cacciaguida (se è esistito davvero!) lascia un notevole spazio nel “Paradiso”. Neppure gli zii o il fratellastro Francesco sono mai citati. Perché?

Dobbiamo sapere che la famiglia di Dante non è nobile come quella degli Uberti, degli Ubaldini, dei Della Tosa, Cavalcanti, Donati… era una famiglia “mezzana”, ossia a metà tra la nobiltà e il “popolo minuto”, i piccoli artigiani e i salariati delle botteghe.

Con un termine moderno la famiglia di Dante potremmo definirla “medio borghese”. I suoi antenati “avevano fatto i soldi” con i traffici, il commercio, l’usura, con modalità che Dante conosceva e verso le quali si sentiva a disagio. Forse si vergognava di loro e di sé stesso.

Infatti il giovane Dante aveva ricevuto l’educazione di un giovane nobile: vestiva bene, si dedicava alla poesia, amava i cavalli e le armi, credeva nell’amore… e non voleva assolutamente ripercorrere, come farà il fratellastro Francesco (frutto del secondo matrimonio del padre), tutta la carriera dei suoi avi.

La vita del Dante giovane ricorda molto da vicino Francesco d’Assisi, prima della conversione. Anche in lui c’è un certo disprezzo per le attività mercantili del padre e il desiderio di vivere come i nobili con cavalli, armi, tornei, feste…

In questo Dante da “Fiorenza” e Francesco d’Assisi sono uomini del loro tempo. Il disprezzo per le attività imprenditoriali e il desiderio di vivere senza maneggiare lo “sterco del diavolo” sono tipici del Medioevo. E’ inutile dire che non sono “valori” oggi diffusi. Non dimentichiamo anche gli anatemi della Chiesa contro il prestito ad usura.

Il suo pensiero politico

E’ difficile inquadrare il suo pensiero politico quando faceva politica quotidiana a Firenze (1295-1301). Non ci sono scritti in tal senso. Conosciamo invece il suo pensiero politico durante gli anni dell’esilio perché sia nel “De Monarchia” sia nella “Commedia” la politica ha molto spazio.

Durante gli anni a Firenze è molto probabile che condividesse appieno gli ideali di libertà e indipendenza di Firenze rispetto ai nemici interni (ghibellini e magnati) e soprattutto ai nemici esterni: Papato, Regno di Francia e Impero.

Nel “De Monarchia”, nel “Convivio” e soprattutto nella “Commedia”, che sono opere dell’esilio, mutano i suoi rifermenti. Ora le libertà comunali gli sembrano foriere di anarchia interna e di guerre all’esterno di tutti contro tutti, mentre Chiesa e Impero sono invece chiamati ad un alto compito voluto da Dio: portare la pace al popolo cristiano.

E’ la teoria dei “due soli”: Chiesa e Impero non devono farsi la guerra ma invece collaborare perché compito dell’Impero è portare la pace e quindi la felicità terrena mentre la Chiesa deve assicurare agli uomini la felicità celeste.

Fino a quel momento invece valeva la teoria del “sole e della luna”: ciascuna entità pensava a se stessa come un ideale “sole” raggiante mentre il potere rivale era solo “luna” che vive di luce riflessa. La posizione di Dante è nel solco di questa tradizione

Non c’è più quell’anelito di libertà e giustizia che animava il Dante cittadino e borghese a Firenze. I comuni italiani devono solo sottomettersi alle due entità cedendo molte quote di potere.

Anche qui è facile vedere quanto Dante ragionasse come tutti gli intellettuali, filosofi e teologi argomentavano a cavallo tra Duecento e Trecento.

Dante e l’intolleranza

Maometto – gli ebrei – gli omosessuali – la “gente nova”

Dante non avrebbe sicuramente condiviso le nostre idee di tolleranza che facevano dire a Voltaire “Io combatto la tua idea che è diversa dalla mia, ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, possa esprimerla liberamente”. Al contrario Dante era molto intollerante così come era intollerante in materia di fede l’intero Medioevo.

Nell’ “Inferno” Dante incontra Maometto e il genero Alì nella bolgia dei “seminatori di discordie”. Maometto è responsabile agli occhi di Dante di avere separato quanto prima era unito, ossia il cristianesimo fondando non una religione nuova ma una nuovo scisma intollerabile agli occhi di Dio (“seminator di scandalo e di scisma”, XXVIII “Inferno”).

Per la sua colpa Maometto ha la testa spaccata dal mento ai capelli. Anche il corpo è rotto e storpiato con le budella fuori. La visione è raccapricciante. È paragonato a una “botte rotta”, paragone insultante perché nelle botti mettevano il vino.

La Commedia è piena di riferimenti agli ebrei. Il termine Giudecca (9° cerchio) – la parte più profonda dell’Inferno – dove i peccati sono i peggiori, è fortemente insultante. Nel lago ghiacciato Lucifero con le sue tre bocche macina Giuda (un ebreo), Bruto e Cassio.

Caifa (girone degli ipocriti), il sacerdote del Gran Sinedrio, è crocifisso a terra (evidente pena del contrappasso) e tutti lo possono calpestare.

Altro passo significativo: “Se mala cupidigia altro vi grida, / uomini siate, e non pecore matte, / sì che ‘l Giudeo tra voi non rida!”. La cupidigia non deve appartenere ai cristiani. Perdere il senno nell’avidità rende felici gli ebrei, che vivono tra noi.

Da notare che questi ultimi due versi comparivano sul frontespizio della “Difesa della Razza”, la rivista fascista edita al tempo delle Leggi Razziali del 1938 fino al ‘45.

Nessuna tolleranza neppure per gli omosessuali. Il loro peccato è la “sodomia”, da Sodoma, la biblica città del peccato. Nell’ “Inferno” il loro peccato “contro natura” è punito correndo (senza fermarsi mai) sotto una pioggia di fuoco. All’ “Inferno” incontra il suo amato maestro di Firenze, Brunetto Latini. Nel “Purgatorio” compaiono ancora i sodomiti, però hanno fatto in tempo a pentirsi prima della morte.

Contro i “migranti”

In questo caso i “migranti” sono coloro che arrivavano a Firenze dal contado, ossia dalla vicina campagna. Accusati dall’autore di portare confusione (“Sempre la confusione de le persone / principio fu del mal de la cittade”), di volere guadagnare subito molto denaro (“La gente nova e i subiti guadagni”), di essere rozza e villana (“Oh quanto fora meglio esser vicine quelle genti ch’io dico… che averle dentro e sostener lo puzzo del villan d’Aguglion, di quel da Signa, che già per barattare ha l’occhio aguzzo!”) alterando quello che era, nostalgicamente, la “bella e sana” Firenze alcuni decenni prima.

Nessuna censura da parte nostra, per carità. Ciascuno è figlio del suo tempo. Il nostro compito è quello di evidenziare le differenze con la nostra epoca senza sminuire l’opera e il personaggio.

Almeno Dante non è razzista per il semplice motivo che il razzismo doveva essere ancora inventato. Solo il ‘700 e soprattutto l’800 avrebbero sostenuto che gli uomini non sono tutti uguali perché ciascuno è incasellato in una razza e non c’è possibilità di uscirne.

Nel Medioevo il razzismo non esiste perché le differenze sociali sono già di per sé evidenti (nobili e non nobili) e poi tutti sono “figli di Dio”.

Dante e il geocentrismo

Non dobbiamo dimenticare che tutta la “Commedia” è costruita sulla certezza che la terra è immobile nell’universo e il Sole e i pianeti girino intorno alla Terra. Da quando si è affermata la teoria geocentrica o tolemaica tutti i dotti non hanno il minimo dubbio su cosa si muove e cosa non si muove nell’universo.

La Terra è immobile perché è sede della creazione divina. E quindi è immobile come un re assiso in trono rispetto ai suoi dignitari (il sole e i pianeti).

Dovremo aspettare Copernico e Galilei per ragionare in termini diversi.

Dante e il mondo antico

Dante è uomo del suo tempo anche nei confronti del mondo antico. Dove collocare i grandi scrittori dell’antichità greca e romana che non avevano conosciuto Cristo? Il luogo dove soggiornano è il Limbo, posto nell’Anti Inferno, dove gli “spiriti magni” vivono splendidamente ma sono rattristati per non essere ammessi a godere della luce di Dio.

Soluzione che potrebbe apparire come un torto nei confronti di autori sui quali Dante si era formato e che costituiscono con le loro opere l’ossatura della “Commedia”: Aristotele, Platone, Tolomeo….

Uniche eccezioni Catone Uticense (per il suo ardore di libertà contro Cesare), Virgilio e Stazio perché nel Medioevo si leggeva nella loro opera l’annuncio della prossima venuta del Salvatore. In particolare nella IV Egloga delle “Bucoliche” dove Virgilio parla di un bambino eccezionale che sarebbe venuto presto alla luce. In quel momento Virgilio stava elogiando il bambino dell’amico Asinio Pollione che sarebbe nato di lì a poco.

Nei confronti degli autori classici Petrarca e Boccaccio sarebbero stati più liberi.

Crede nell’esistenza dei tre Regni oltremondani

Non so voi ma io avrei molti dubbi se qualcuno mi chiedesse se inferno, purgatorio e paradiso esistono veramente. Il passare dei secoli, la nascita dell’Illuminismo, lo sviluppo delle scienze tra Ottocento e Novecento… ci hanno portato a essere scettici di fronte a queste tematiche.

Dante invece non ha dubbi e nemmeno gli uomini del suo tempo. Tutti credevano nell’effettiva esistenza dell’inferno e avevano una terribile paura. Essere in punto di morte e avere accanto il confessore era fondamentale. Bisognava pentirsi prima di morire. Così almeno il purgatorio era assicurato.

Nello stesso tempo nessuno nel Medioevo poteva pensare che Dio non esistesse. In ogni caso professare idee atee poteva costare l’inferno.

E’ inutile dire che su tutti questi temi l’uomo di oggi – almeno nel mondo occidentale – ragiona con più libertà confrontandosi con dottrine filosofiche e altre religioni con atteggiamenti che nel Medioevo sarebbero stati assolutamente inconcepibili.

La modernità

L’uso del volgare

Forse la maggiore espressione della modernità di Dante è data dall’uso del volgare nella “Commedia” e in altre opere in un momento storico nel quale i dotti erano molto restii ad usare la lingua della gente comune per scrivere. Perché?

Perché l’uso del volgare sembrava svilire i temi affrontati nelle singole opere, perché solo il latino sembrava dotato della dignità letteraria necessaria per alte opere d’ingegno. C’era anche poca simpatia nei confronti del popolo e di una lingua non precedentemente codificata in grammatiche e lemmari.

Dante invece si rende conto che il volgare avrebbe avuto un fulgido avvenire perché era la lingua che parlavano tutti, soprattutto i ceti più ricchi e più colti, che rappresentavano la nuova classe dirigente che si andava affermando in tutta Italia.

Il volgare era la lingua dei mercanti (i “mercatanti”), degli imprenditori (gli “artifices”), dei banchieri, dei politici, ossia di coloro con i quali politicamente è vicino il Dante che fa politica dal 1295 fino all’esilio sette anni dopo.

La scelta linguistica di Dante non piacerà alla generazione successiva, basti pensare a Petrarca che per vari motivi non ha mai amato totalmente Dante. Ma saranno soprattutto gli umanisti del ‘400 e ‘500 ad avere molte remore a consacrare Dante preferendo il recupero del latino di Cicerone allo stile di Dante ricco spesso di parole che urtavano le loro orecchie. Era quello stile “basso” o “elegiaco” di cui ci sono molti esempi nella “Commedia”, soprattutto nell’ ”Inferno” ma anche nelle altre due cantiche.

Dal fiorentino della “Commedia” nascerà poi la lingua italiana

Scrive bene Boccaccio: “Scrivendo in volgare fece opera mai più fatta mostrando la bellezza del nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e di letto e intendimento di sé diede agli idioti abbandonati per adietro da ciascheduno” (“Trattatello in laude di Dante”)

Dante, dal “Convivio”: “Questa sarà la luce nuova, sole nuovo, la quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce”.

Paolo e Francesca. Ulisse

Nei confronti di Paolo e Francesca (e di Ulisse) Dante è contemporaneamente uomo del Medioevo e un moderno come noi.

Da una parte li condanna all’ ”Inferno”: Paolo e Francesca nel girone dei “lussuriosi”, Ulisse nei “seminatori di discordie”. Paolo e Francesca sono trascinati in un vortice che è il contrappasso del loro peccato: la loro passione d’amore (il turbine” della passione amorosa) non è stata trattenuta dalla ragione e dalle leggi di Dio (condanna dell’adulterio). L’anima di Ulisse brucia continuamente racchiusa in una fiamma lui che ideò il Cavallo di Troia.

Dall’altra parte come non possiamo non vibrare ancora oggi quando l’Ulisse dantesco dice che “Non fummo fatti per vivere come bruti ma per seguire virtute e canoscenza”? E come rimanere indifferenti quando Francesca narra la sua passione per il bello e gentile Paolo, lei costretta a un matrimonio infelice con il deforme e degenere Gianciotto Malatesta, il signore di Rimini?

La condanna e la pietà per i due amanti è una contraddizione inestricabile in Dante stesso. Noi oggi invece saremmo portati a dare pienamente ragione a Paolo e Francesca, soprattutto a lei costretta a un matrimonio “contronatura”, così come ci appare innaturale la punizione a cui è soggetto Ulisse a causa del suo inesausto impulso a conoscere e a fare nuove esperienze nella vita.

Per noi Ulisse è un eroe degno di grande rispetto così come Paolo e Francesca sono due vittime della brutalità del mondo in cui vivevano.

Dante invece li ama e li condanna nello stesso tempo all’ “Inferno”. Anche questo è essere un uomo del suo tempo e contemporaneamente aperto al nuovo.

Sintetizza ottimamente Indro Montanelli nella sua “Storia d’Italia”: “Nessun poeta ha mai incarnato più di lui il proprio tempo con le sue grandezze e miserie, con le sue credenze e superstizioni, con i suoi aneliti e pregiudizi. La sua vita è un documento in cui, sia pure deformate dalla sua passione, si ritrovano tutte le vicende di Firenze e dell’Italia di allora”.