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Introduzione a Dante e alla sua opera

Eco Istituto di Cuggiono – 11 novembre ‘21

Buonasera… come potete immaginare non è per niente facile introdurre Dante e condensare in pochi minuti la sua opera, la sua personalità, insomma… parlare di un grande personaggio a 700 anni dalla morte.

Cercherò di farlo partendo dalla migliore definizione dell’opera di Dante – almeno a mio parere – che sia stata mai elaborata.

Scrive Frederich Engels: “Dante, al tempo stesso l’ultimo poeta del Medioevo e il primo poeta moderno”.

Perché ultimo poeta del Medioevo?

Perché la “Commedia” è la sintesi mirabile di tutto il pensiero medievale. E’ come se Dante fosse riuscito nei 14.000 versi della “Comedìa” a inserire tutto il migliore sapere del Medioevo facendo della sua opera una sorta di enciclopedia dello scibile del Basso Medioevo.

Infatti nelle tre cantiche c’è di tutto: astronomia, matematica, medicina, filosofia, il dialogo con gli scrittori dell’antichità greco-romana, il passato storico, la storia dell’impero romano; ma anche giudizi perentori sulla corruzione della chiesa romana e sulla degenerazione della politica ai suoi tempi. E poi una quantità incredibile di personaggi leggendari e mitologici (Ulisse), personaggi del passato, del suo tempo con i quali dialoga e non di rado litiga.

Dante aveva una cultura sterminata: conosceva a memoria la Bibbia, l’Eneide di Virgilio, conosceva a fondo Aristotele, San Tommaso, i filosofi arabi – Avicenna e Averroè – la cultura greco-romana e la cultura del suo tempo.

Era un autodidatta. Non si era mai laureato forse perché non gli piaceva più di tanto l’ambiente universitario dove i professori vendevano la loro cultura e gli studenti l’acquistavano pagando le lezioni per diventare poi giudici, avvocati, uomini di legge, medici, quindi uomini ricchi e rispettati.

La meraviglia della “Comedìa”

Se oggi il lettore contemporaneo è meravigliato dalla Commedia, una meraviglia ancora maggiore dovettero provarla i contemporanei di Dante perché nessuno aveva mai scritto come lui un’opera così grande.

Mentre Dante era in vita circolavano già l’”Inferno”, il “Purgatorio” e i primi canti del “Paradiso”. Sappiamo dello stupore dei dotti dell’epoca di fronte a un’opera che surclassava di molto le non poche opere medievali in cui era narrato un viaggio di redenzione nell’Oltretomba e verso il Paradiso.

Addirittura quando Dante morì tra il 13 e il 14 settembre del 1321 molti letterati furono costernati sapendo che mancavano ancora alcuni canti per completare l’opera. Dopo le esequie i due figli di Dante trovarono gli ultimi canti del “Paradiso” e molti tirarono un sospiro di sollievo.

Dante profeta

Anche Dante era consapevole che stava scrivendo un’opera che nessuno aveva mai scritto e mai immaginato di scrivere. Era convinto che la Commedia gli avrebbe permesso di ritornare a Firenze e di essere incoronato “poeta laureato” nel suo “bel San Giovanni”, ossia nel battistero in cui era stato battezzato.

Si sentiva come Enea e San Paolo chiamati da Dio a grandi imprese. Dante era convinto che anche a lui Dio aveva affidato una grande impresa: scuotere le coscienze degli uomini e preparare l’avvento di una società migliore dove la violenza, l’avidità, la cupidigia – ossia il desiderio di diventare sempre più ricchi – sarebbero state sopraffatte.

Ed è questo uno degli aspetti più importanti e magari difficili da comprendere da noi uomini e donne del XXI secolo: Dante era convinto di essere un profeta di una nuova epoca di rigenerazione dell’umanità e la sua opera sarebbe stata l’annuncio.

Non riuscì a cambiare l’uomo come avrebbe voluto, ma qualcosa di immortale ci ha lasciato: la sua poesia!

E qui arriviamo alla modernità di Dante. E la modernità – a mio parere – consiste tutta nella valorizzazione e nell’uso del volgare come nuova lingua adatta per scrivere grandi opere letterarie e filosofiche.

Dante si era reso conto che a Firenze e in tutta Italia il latino stava diventando sempre più una lingua morta: i più non la capivano e la studiavano come si studia oggi a scuola una lingua straniera.

Da qui il suo impegno a dare la giusta dignità a una nuova lingua, che è quella della Commedia, da cui deriverà l’italiano. Infatti a buon conto possiamo definire Dante il “padre della lingua italiana”.

A questo proposito è stato rilevato da alcuni studiosi che delle 2000 parole che normalmente usiamo ogni giorno per parlare e scrivere, ben il 90% è nell’opera di Dante!

C’è un passo del “Convivio” in cui Dante elabora una definizione del rapporto tra latino e volgare che ancora oggi impressiona per la sua chiarezza:

“Questa sarà la luce nuova, sole nuovo, la quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce”.

L’esilio

Ma c’è anche un ultimo aspetto che avvicina Dante a noi e lo rende molto umano. Ed è la vicenda dell’esilio.

In seguito a vicende che ora non è possibile rievocare ad un certo punto della sua vita (aveva 36-37 anni) fu accusato dai fiorentini di “baratteria” (concussione, peculato, corruzione…). Prima fu espulso da Firenze e poi due mesi dopo condannato a morte se avesse tentato di rientrare a Firenze. Era il marzo del 1302.

Per lui la cacciata da Firenze fu una tragedia di cui porterà i segni per tutta la sua vita: perse la sua casa, i suoi libri, i cavalli, i vestiti… tutto ciò che aveva. La sua casa fu devastata. Fu costretto a separarsi dalla moglie e per molti anni non vide i suoi figli. Soprattutto da un giorno all’altro divenne povero e il futuro assunse contorni inquietanti.

E’ lo stesso dramma che oggi vivono decine di milioni di persone che fuggono da guerre, dittature e colpi di Stato perdendo tutto quello che avevano, costretti a inventarsi una nuova vita in una realtà del tutto nuova e pericolosa.

Se pensiamo ai profughi di oggi in giro per il mondo siamo in grado di capire meglio alcune celebri espressioni di Dante: “Quanto è duro calle scendere e salire le scale altrui” cercando ospitalità, un lavoro e un pezzo di pane e “quanto sa di sale lo pane altrui”.

Ci sono versi di una attualità sconcertante quando Dante nell’”Inferno” fa parlare un cortigiano caduto in disgrazia, Romeo di Villanova:

“… indi partissi povero e vetusto; / e se ‘l mondo sapesse il cor ch’egli ebbe / mendicando sua vita frusto a frusto (un tozzo di pane dopo l’altro), / assai lo loda, e più lo loderebbe”.

Attualità sconcertante perché raffigura perfettamente la realtà dei migranti che partono poveri, magari non più tanto giovani (con moglie e figli), costretti a mendicare un tozzo di pane, eppure persone di grande coraggio per intraprendere viaggi simili.

Ma c’è anche un altro verso di Dante oggi ancora di più incredibilmente attuale quando dice (pensando alla sua condizione di esule):

“Io che ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare”

E’ come se dicesse che sarebbe bello se gli uomini si potessero muovere nel mondo come i pesci si muovono nel mare: pensiamo a un mondo senza muri, barriere, filo spinato, polizie ed eserciti ai confini… Ritornano alla mente i famosi versi di Pietro Gori: “Nostra patria è il mondo intero: nostra legge è la libertà”.

Nei suoi 56 anni di vita Dante ha avuto e conosciuto tutto: la ricchezza in gioventù, l’amore eterno per Beatrice, il matrimonio, i figli, l’impegno politico a Firenze ai più alti livelli, fu l’autore della più grande opera mai scritta dopo la Bibbia, e poi l’esilio, la miseria, le umiliazioni, le privazioni … ma ora – a 700 anni dalla sua morte – tutti riconoscono l’immortalità della sua opera.