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Le origini del colonialismo italiano fino ad Adua (1882-1896)

Le origini del colonialismo italiano fino ad Adua (1882-1896)

L’idea di preparare alcuni incontri sulla storia del colonialismo italiano è nata in seguito al centenario dell’aggressione alla Libia del 1911.

Ma leggendo Isnenghi, Rochat, Labanca e soprattutto Del Boca è emerso che il tema colonialismo oggi è poco conosciuto e non solo a scuola. Molti italiani ignorano Adua, ignorano il fatto che noi italiani abbiamo retto l’Eritrea e la Somalia per molti decenni, abbiamo invaso la Libia e l’abbiamo conquistata dopo vent’anni. Ignorano l’aggressione fascista all’Etiopia, l’uso dei gas, gli orrori della repressione voluta da Graziani nel ‘37.

Ma non è solo una questione di ignoranza del nostro passato coloniale. Negli storici ricordati prima è netto il rifiuto della leggenda degli “Italiani brava gente”, un mito molto radicato ancora oggi nel cosiddetto immaginario collettivo ma del tutto logoro a livello storiografico.

Da qui l’idea di parlare della storia del colonialismo italiano e affrontare questi temi.

Vedremo ora i primi passi del colonialismo italiano dal 1882 (anno primo) fino alla caporetto africana di Adua (1896). In particolare nella seconda parte della relazione entreremo nel dettaglio per capire che cosa ha provocato la terribile sconfitta di Adua.

Vedremo anche alcune sequenze del documentario “Adua” del regista etiope Haile Gerima, mai trasmesso in Italia.

I primi passi

Il punto di partenza della storia del nostro colonialismo sono le speranze di valorizzazione del Canale di Suez aperto nel 1869 che faceva intravedere un rapido aumento del commercio nel Mediterraneo.

Nel ’68 la Rubattino ottiene dal Parlamento italiano agevolazioni per la linea Genova-India.

Nel ’69 l’ex missionario lazzarista Giuseppe Sapeto (Ordine di San Lazzaro mendicante) propone a Vittorio Emanuele II un lembo di terra lungo le sponde del Mar Rosso che facesse da collegamento tra il Mediterraneo e le Indie. Si può quasi parlare di una “alleanza” tra missionari lazzaristi genovesi (Sapeto era di Genova) e la Camera del commercio di Genova (Presidente Rubattino).

Un accordo con il governo permise a Sapeto e all’ammiraglio Acton per conto del governo (viaggiano insieme su una nave da guerra) di individuare con la compagnia Rubattino la baia di Assab in favorevolissima posizione geografica nei pressi dello stretto di Bar el Mandab che mette in comunicazione il Mar Rosso con il Golfo di Aden (Oceano Indiano).

Fu acquistata una striscia di terra (sei km) per 30mila lire da alcuni signorotti locali. In questo momento la sovranità del territorio è della Rubattino, ma dietro c’è il governo italiano.

Le proteste dell’Egitto (a cui competeva quel territorio) e il no inglese (preoccupato da segnali di rivolta in Egitto) fecero naufragare il progetto. La Gran Bretagna poi non voleva concorrenti sulla via delle Indie.

L’insediamento ad Assab passa quasi inosservato nell’opinione pubblica italiana.

Il biennio 1868-69 è dominato dalla agitazioni popolari contro la tassa sul macinato che penalizzava fortemente la povera gente e costarono, tra il dicembre ’68 e il gennaio ’69, 47 morti, 147 feriti e un migliaio di arresti.

1882: anno primo del colonialismo italiano

Nel 1882 la Rubattino, con la protezione inglese, rimise piede ad Assab e vendette allo Stato italiano la baia per 416mila lire, quattro volte il prezzo pagato nel ’69.

L’82 è quindi il punto di partenza del colonialismo italiano. In quel momento Assab ha 162 abitanti: 11 italiani,  55 arabi, 93 eritrei, 1 indiano: sono i primi “sudditi” dell’Italia!

I primi anni Ottanta sono gli anni d’oro del colonialismo (Congresso di Berlino, 1885, e divisione dell’Africa). Il Congo passa sotto il controllo belga. Si ampliano i possedimenti tedeschi in Namibia. Gran Bretagna e Francia hanno imperi vastissimi.

Favorevoli e contrari

Favorevoli all’espansione coloniale in Italia la corte, l’esercito, la borghesia meridionale.

La Chiesa ha un ruolo contraddittorio: “Civiltà cattolica” auspica addirittura la sconfitta mentre le alte gerarchie vaticane deplorano il colonialismo di un paese così tenacemente contrario alla Chiesa. Altri ambienti cattolici approfittano dell’occasione per aprire varchi politici con lo Stato italiano dopo Porta Pia (es. le messe a suffragio dei caduti di Dogali e l’azione del Banco di Roma in Eritrea).

Le posizioni di condanna da parte della Chiesa del colonialismo italiano derivarono non dalla riprovazione del colonialismo in sé, ma dal carattere, ritenuto anticattolico e corrotto, dello Stato italiano, uno Stato a cui si negava il diritto di assoggettare altri popoli essendo portatore della più pericolosa ‘barbarie’ del liberalismo e del laicismo.

Coerentemente con questa prospettiva, qualche anno dopo, la stessa rivista esaltò i successi della politica coloniale del “governo clericale” del Belgio in Africa e condannò viceversa la medesima politica della Francia in ragione dell’ispirazione “laicista e liberale” del suo governo.

Quindi la chiesa non condannò mai il colonialismo in sé e per sé (anche nei secoli precedenti), condannò al massimo il Paese colonialista sulla base del rapporto che aveva per le gerarchie vaticane.

Fu contraria la borghesia settentrionale che invece auspicava dal governo solo le tariffe protezionistiche (1887).

Quindi il colonialismo italiano non ha basi economiche ma motivazioni di solo prestigio interno ed internazionale.

Come si presenta l’Italia nel 1882?

La riforma elettorale del 1882 estende il suffragio dal 2,2% al 6,9% (da 600mila a 2 milioni e 200mila elettori). Da qui la debolezza della propaganda coloniale in mezzo a tanti analfabeti oppure a strati sociali che non potevano partecipare alla vita politica.

Nello stesso 1880 l’Italia aveva 1/50% del prodotto manifatturiero mondiale. L’Inghilterra pesava un quarto. Solo il 9% della popolazione era urbana (con città senza sviluppo come Napoli). Il livello di industrializzazione era 1/10% di quello inglese e l’Italia produce 1/800% del ferro inglese.

Nel 1880 il Paese era ancora agricolo: l’industria pesava solo il 18,2% del reddito complessivo (per industria le statistiche dell’epoca consideravano anche l’artigianato). Nessuna regione italiana poteva dirsi industrializzata.

Come detto il colonialismo italiano non ebbe all’inizio motivazioni economiche ma nacque per motivazioni politiche e di prestigio. L’opposizione socialista aveva buon gioco dicendo che era inutile andare in Africa perché l’Italia aveva l’ “Africa in casa”.

I governi in questi anni sono tutti legati alla Sinistra storica di Depretis (dal 1876). Si trattava di un “partito” legato agli ambienti garibaldini e con molti uomini che avevano partecipato al Risorgimento.

Le “nobili” motivazione del colonialismo italiano

La presenza italiana in Africa era per “sbarbarire” i selvaggi africani portandoli verso la civiltà e il progresso. Quindi era una “missione” che l’Italia assumeva memore dei suoi trascorsi risorgimentali.

Pasquale Stanislao Mancini (ministro degli Esteri e protagonista del Risorgimento) esalta la “missione colonizzatrice” degli europei pensando all’Italia: “Dovunque l’uomo incivilito porta con sé in mezzo a popoli di civiltà inferiore capacità intellettuali, cognizioni tecniche, capitali e lavoro… è impossibile economicamente che non produca e non accresca valori e ricchezze”.

Altro mito: la colonia avrebbe assorbito l’imponente emigrazione che ogni anno si riversava lontano dalla patria. L’Eritrea non diventerà mai una colonia di popolamento, così come Somalia, Libia ed Etiopia.

Condizioni di vita in Italia. Le due “razze” italiane

La miseria in Italia imperversava: Bertani, uomo di Garibaldi in Sicilia, scrisse che in Italia esistevano due “razze”: chi mangiava il pane bianco e chi mangiava il pane nero. La carne era la grande sconosciuta tra i contadini. Il nutrimento derivava esclusivamente da pasta, riso, pane, polenta, fagioli.

All’inizio degli anni Ottanta su 3.672 minatori siciliani di zolfo solo 203 sono stati dichiarati abili alla leva militare (6%). La stessa percentuale si trovava tra gli abitanti dell’Agro Romano falcidiato dalla malaria.

Nell’81 c’erano 100mila casi di malaria. Il colera uccise, tra il 1884 e il 1887, 55mila persone e solo più tardi si scoprì che a causarla erano le cattive condizioni abitative.

Eppure i soldi c’erano: l’Italia spende nell’anno 1900 il 21% per le forze armate contro il 17% della Germania.

Occupazione di Massaua

Nell’85 l’Italia (auspice la Gran Bretagna) occupa la città portuale di Massaua in Eritrea (nominalmente territorio egiziano), base per la penetrazione in Abissinia.

Un ufficiale britannico viaggiò con il colonnello Tancredi Saletta e lo aiutò in ogni modo: es. acquistando cammelli in una base inglese.

Lo sbarco di Tancredi Saletta ha risvolti comici: i cannoni che potevano servire per combattere giacevano in una stiva sotto 600 tonnellate di carico (dalla relazione ufficiale scritta da lui). Buon per Saletta che l’Inghilterra aveva impedito ogni reazione degli indigeni.

Saletta sbarca senza carte geografiche, senza interpreti, i soldati arrivano con le uniformi invernali (erano partiti a gennaio)…

L’Italia coloniale tra la Triplice e la protezione inglese

La Gran Bretagna favorisce l’Italia perché teme il dinamismo francese e la presenza della Germania in Africa: la debole Italia era preferibile alle più forti concorrenti europee. Quindi la prima potenza mondiale si accorda con l’ultima.

Da notare che l’Italia è da tre anni alleata di Austria-Ungheria e Germania nella Triplice Alleanza (1882).

Von Bulow, cancelliere tedesco, gettava acqua sul fuoco sulle relazioni diplomatiche extra-Triplice dicendo che“in un matrimonio ben combinato, il marito non deve adombrarsi se la moglie fa un giro di walzer con un ammiratore”.

L’Italia appena sbarca a Massaua cerca subito l’espansione territoriale provocando la reazione dei ras etiopi locali e i timori di Giovanni IV. Formalmente l’Italia a Massaua doveva occuparsi di commerci. Le intenzioni sono invece altre.

I primi crimini

Appena sbarcato a Massaua Saletta crede di essere circondato da spie e nemici: la reazione è draconiana e spropositata: arresti arbitrari, condanne a morte, abusi, malversazioni. In sostanza in colonia vengono usati gli stessi metodi della lotta contro il brigantaggio.

Una pratica che poi si diffonderà in seguito è la deportazione in Italia di sudditi coloniali. Fu attuata per la prima volta negli anni immediatamente successivi alla conquista di Massaua (1885) allorché le forze italiane ebbero a scontrarsi con la resistenza delle popolazioni.

Furono allora trasferiti nei penitenziari di Gaeta, Nisida, Procida, Santo Stefano e Lecce alcune decine di persone, spesso solo sospettate di simpatizzare con chi cercava di opporsi alla conquista coloniale.

Il lager di Nocra

All’inizio degli anni Novanta esistevano in Eritrea sette prigioni tra cui il penitenziario di Nocra, probabilmente il peggiore. Nocra è una delle isole dell’arcipelago delle Dahalak a 55 km da Massaua. Isole bellissime ma non per i detenuti i quali non avevano acqua e dovevano fare i conti con temperature di 50 gradi lavorando nelle cave di pietra. L’alimentazione era molto scarsa.

Il capitano Eugenio Finzi della Marina visitò Nocra nel 1902 e così descrisse ciò che vide: “I detenuti, coperti di piaghe e di insetti, muoiono letteralmente di fame, scòrbuto, e di altre malattie. Non un medico per curarli, 30 cent per il loro sostentamento, ischeletriti, luridi, in gran parte han perduto l’uso delle gambe ridotti come sono a vivere costantemente incatenati sul tavolato alto un metro dal suolo”.

Il penitenziario di Nocra funzionò ininterrottamente dall’1887 al 1941. Dal ’36 imprigionò i soldati di Hailè Selassiè.

La Colonia Somalia / 1905

Dopo la colonia Eritrea (200mila abitanti) erano poste le basi del dominio italiano in Somalia (colonia dal 1905). Anche qui l’appoggio diplomatico inglese fu decisivo. È l’Inghilterra che tratta con i vari sultani locali e tiene lontana la Germania.

Non ci sono interessi economici in Somalia. Al massimo la Somalia potea andare bene per accerchiare l’Etiopia. In ogni caso rimase sempre una povera e lontana colonia.

Uno dei più triti luoghi comuni del colonialismo era la capacità civilizzatrice delle potenze europee tra cui l’Italia.

La piaga della Somalia era lo schiavismo. Crispi aveva firmato nel 1889 una convenzione contro la tratta con la Gran Bretagna in cui l’Italia si assumeva“l’impegno di proibire ogni commercio di schiavi esercitato dai loro sudditi o sotto la bandiera nazionale”. Come se non bastasse il governo Crispi nel 1890 firmava anche l’Atto finale della Conferenza di Bruxelles che impegnava tutte le potenze europee ad abolire drasticamente la tratta.

Gli schiavi dall’Africa nera erano portati in Somalia e venduti in Arabia. Ma non solamente si tollerarono gli schiavisti locali per il timore di ribellioni (lo schiavismo era la struttura sociale della società somala), ma furono utilizzati schiavi nelle tenute italiane in Somalia o addirittura la compavendita degli schiavi avveniva con tanto di marca da bollo italiana e timbri vari.

Sappiamo tutto questo da un coraggioso viaggio in Somalia dell’esploratore Luigi Robecchi Bricchetti nel 1903 il quale scrisse poi un documento agghiacciante: “Si rimane così indignati che non riesce più possibile pronunciarsi su tali mostruosità: il giudizio lo si lascia, intero, alla storia”.

Bricchetti (apparteneva alla Società Antischiavistica italiana) vide anche qual era il metodo per spremere il lavoro agli schiavi: veniva posta della cenere sul capo dello schiavo al lavoro, se alzava la testa e la cenere cadeva, finiva nelle mani dei sorveglianti.

A Mogadiscio c’erano 2.000 schiavi su 6.500 abitanti. Lo schiavismo in Somalia diventerà una istituzione durante il periodo fascista.

Il mito della “Brava gente!” tra falsità e realtà

Eppure in Ertrea e Somalia nei documenti ufficiali e nella corrispondenza privata dei soldati emerge chiaramente il mito dell’italiano buono, bene accetto, non razzista, accomodante.

In uno dei suoi racconti Emilio Salgàri,“Lo schiavo della Somalia”, immagina che un “moretto”, liberato dai pirati somali, così ringrazi gli italiani: “Io amare taliani… sì, andare con taliani miei benefattori… Taliani essere buoni” (1903).

Il negus neghesti Giovanni IV non credeva nella missione di civiltà degli italiani: nell’86 scriveva a Menelik:“Gli italiani non sono venuti da queste parti perché nel loro paese manchi il pascolo e il grano, ma vengono qui per ambizione, per ingrandirsi, perché sono troppi e non sono ricchi”. Gli italiani erano definiti da lui“ingannatori, intriganti, fiacchi e gente non seria”.

In altri documenti emergeva infatti con nettezza un razzismo spietato e brutale. Esempio il generale Da Bormida alla vigilia di Adua disse in dialetto piemontese: “Gli buttiamo quattro granate ed è fatta”; Baldissera (1888): “L’Abissinia ha da essere nostra, perché tale è la sorte delle razze inferiori; i negri a poco a poco scompaiono, e noi dobbiamo portare in Africa la civiltà non per gli abissini ma per noi” (viva la sincerità!). Non a caso Turati quando parlava di Baldissera diceva spesso“Quel cane di Baldissera” .

Era molto amato in Italia il mito del colonizzatore americano che sterminava le popolazioni indiane d’America. Crispi nell’85:“Qual è il nostro scopo? Uno solo: affermare il nome dell’Italia nelle regioni africane e dimostrare anche ai barbari che siamo forti e potenti! I barbari non sentono se non la forza del cannone; ebbene, questo cannone tuonerà al momento opportuno” (meno male che aveva combattuto con i Mille per la Libertà!)

Da ricordare che l’Italia in questo periodo è ancora liberale.

Perché siamo andati in Africa?

Torniamo agli italiani che sbarcano a Massaua e pongono le basi per il dominio nel Corno d’Africa.

– Nello stesso anno il ministro Mancini (Esteri) alla Camera afferma che nel Mar Rosso sarebbero state trovate le “chiavi del Mediterraneo”. Mancini intendeva dire che con Massaua l’Italia acquistava una maggiore credibilità internazionale (difesa dalla Gran Bretagna) che poteva far valere nel Mediterraneo contro i francesi, che allora apparivano i più tenaci avversari dell’Italia

– La presenza italiana nel Mar Rosso era anche una reazione all’umiliazione dell’occupazione francese della Tunisia (1881).

La prima sconfitta: Dogali / 1887

Dopo aver occupato Massaua l’esercito italiano inizia subito la penetrazione verso l’altipiano etiope con il pretesto della difesa della città.

Secondo il generale Di Robilant, allora ministro degli Esteri, si trattava di una spedizione punitiva contro“due o tre ladroni”.

Il tentativo di penetrazione è subito fermato da ras Alula che con 10mila uomini attacca la colonna del tenente colonnello De Cristoforis a Dogali (portavano rinforzi al fortino di Saati, 26 gennaio ’87). 500 bersaglieri furono accerchiati e annientati. Grande costernazione in Italia.

Il commento di Bismarck dopo Dogali fu che l’ “Italia aveva un grande appetito ma denti poco aguzzi”.

Tra le poche voci che condannano Dogali c’è quella del deputato Andrea Costa, socialista, il quale auspica”né un soldo né un uomo per le pazzie africane” (febbraio ’87).

Il filmato che abbiamo visto è stato realizzato nel 1999 dal regista etiope Haile Gerima. Il padre aveva combattuto gli italiani al tempo della guerra fascista del ’35-36. L’idea di Gerima è tornare ad Adua per capire quanto la battaglia di Adua fosse entrata nella coscienza collettiva del popolo etiope.

Nello stesso tempo Adua è nella coscienza africana la prima vittoria africana su un esercito europeo moderno.

Finora il documentario non è stato mai trasmesso dalla televisione italiana, nonostante Gerima sia abbastanza conosciuto in Italia. Si era rivolto anche all’Istituto Luce.

A suo parere il documentario non è stato ancora trasmesso per resistenze oscure ma tenaci nella difesa del nostro passato coloniale.

Crispi, il colonialista

Francesco Crispi va al potere dall’87 (morte di Depretis) fino al ’91. E’ il maggiore esponente della Sinistra. Crispi era stato in Sicilia con i Mille. Crispi era stato repubblicano fino al 1865 poi aderisce alla monarchia.

Dopo Dogali l’Italia tesse una complicata trama per avere dalla propria parte Menelik, ras dello Scioa e pretendente al trono. Menelik diventa “l’amico abissino” per gli italiani ottenendo armi e munizioni in abbondanza (dal conte Pietro Antonelli).

In quel momento il negus neghesti è Giovanni IV (Besbes Kassa, negus dal ’72). Giovanni muore contro i dervisci del Sudan, marzo ‘89. Menelik è imperatore.

Il regno di Menelik assomiglia molto al feudalesimo europeo con feudatari (ras) e vassalli. Il territorio abissino, montuoso e rotto da fratture profonde facilita la formazione di poteri locali.

Il Trattato di Uccialli (1889)

Menelik firma con il conte Antonelli, rappresentante del re Umberto I, il Trattato di amicizia e commercio noto come Trattato di Uccialli (maggio ’89).

Dopo la firma nasce la controversia sull’articolo 17 fino alla rottura inevitabile tra Italia ed Etiopia.

– Secondo l’Italia sanciva il protettorato italiano sull’Etiopia. Mentre Menelik lo negava: “Il re dei re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con i regni d’Europa mediante l’aiuto del regno d’Italia” (versione etiope);

– “Sua maestà il re dei re d’Etiopia consente di servirsi del governo di sua maestà il re d’Italia per tutte le trattazioni d’affari che avesse con altre potenze o governi” (versione italiana).

La “versione italiana” era il modo tipico delle potenze coloniali europee per iniziare il controllo di un territorio.

Politica velleitaria

Addirittura l’Italia che possiede solo Massaua ed esce sconfitta a Dogali vorrebbe porre le basi del protettorato sull’Etiopia!

L’Etiopia è in realtà il più forte impero africano (non a caso indipendente fino al 1936). L’Abissinia era l’unica vera potenza del continente con una storia millenaria (Salomone e la regina di Saba) e una forte impronta religiosa (cristiani di rito copto).

Il Trattato di Uccialli è una sorta di “scorciatoia” o “furbata all’italiana”.

Nel 1890, nonostante le proteste di Menelik, nasce la colonia Eritrea con Cheren e Asmara.

Intanto prosegue la penetrazione in Somalia.

Tutto sembra facile. L’espansione avviene senza sangue. Non si capisce che la reazione di Menelik era inevitabile.

Si prepara la guerra

Nel ’93 Menelik denuncia il trattato di Uccialli dopo aver ricevuto da Giolitti due milioni di cartucce.

Nel ’93 torna al potere Crispi e vuole la ripresa dell’azione italiana. Il ’93 è l’anno dei Fasci Siciliani. Il ’93 è l’anno dello scandalo della Banca Romana che fa cadere Giolitti sostituito da Crispi. Carducci: “Il fango sale, sale, sale”.

Le “abissinie” italiane / “imperialismo straccione”

La miseria è alla base delle sollevazioni popolari. Il paradosso è che c’erano molte “abissinie” in Italia: il pane costava 60 centesimi al kg. Un operaio tessile giudagnava 1 lira e 35 cent al giorno (con 14 ore di lavoro poteva permettersi poco più di 2 kg di pane), le donne 50 cent. e un bambino 40 (neppure un kg di pane al giorno).

Ogni giorno erano necessarie 35 cent. per l’affitto, 25 per il carbone, 7 per la legna e 7 per il petrolio da illuminazione (totale 74 cent.). Solo nel 1886 una legge vieta il lavoro notturno per i bambini e limita il loro lavoro a 6 ore.

La miseria spaventosa spiega i moti popolari in Sicilia noti come “Fasci siciliani” (autunno-inverno ’93-94) e i moti nella Lunigiana nel ’94. Le proteste popolari furono sempre spente nel sangue.

Successi effimeri e prime avvisaglie della sconfitta

Intanto inizia la penetrazione italiana che conta sulla non reazione di Menelik. Gli ascari sconfiggono anche ras Mangascià e arrivano fino ad Adua e Macallè. Nel ’95 la penetrazione italiana prosegue fino all’Amba Alagi.

Cominciano i rovesci: il maggiore Toselli è sopraffatto sull’Amba Alagi (2500 morti, dic. ‘95) e il maggiore Galliano si arrende a Macallè (Menelik permette ai soldati italiani di allontanarsi indisturbati dal forte).

Era velleitaria la politica di avanzare così in profondità nel territorio. Intando Menelik marcia verso Adua.

I giorni che precedono Adua

Il comandante in capo delle truppe in Abissinia e nel contempo governatore in Eritrea è il generale Oreste Baratieri che aveva fatto parte dei Mille e aveva combattuto nel ’66 (Terza guerra d’indipendenza).

Baratieri nacque in Trentino 66 anni prima (era nato in un’area irredenta). Non compie studi accademici, diventa ufficiale per “meriti storici”. Per molti anni è deputato e giornalista. Poteva contare su amicizie importanti: Crispi e il vescovo di Cremona, Bonomelli.

Prima dell’Amba Alagi e di Macallè Baratieri non aveva mai protestato per i tagli alla colonia Eritrea e il minor numero di soldati. Baratieri pensava di far di più avendo a disposizione meno.

Baratieri fa intravedere a Roma il miraggio di un’espansione nel Sudan e fino all’Oceano Indiano con poco denaro. Crispi non capisce il carattere avventuriero di questa politica e incoraggia Baratieri.

Dopo l’Amba Alagi e Macallè l’atteggiamento di Baratieri cambia radicalmente: Baratieri teme la disfatta davanti alle forze abissine e progetta di indietreggiare verso le linee dei rifornimenti. Ma esita e si comporta in modo contraddittorio.

Es. Crispi nel dicembre del ’95 gli scrive:“Pare che nella tua mente ci sia confusione e incertezza, è tempo di provedere” (Baratieri aveva chiesto rinforzi senza specificare quali e quanti).

Anche il governo è contraddittorio: ora lo si accusa di essere pusillanime (“rioccupare la terra bagnata da sangue italiano”), poi gli si consiglia di non esporre l’esercito a brutte figure. In altri telegrammi il tono di Crispi è molto duro con lui.

Lo stesso Crispi è contraddittorio perché lo incita all’azione e nel contempo gli nega i fondi conoscendo le forti opposizioni nel suo stesso partito.

7 gennaio ‘96: “Il governo ti ha mandato quanto hai richiesto in uomini e armi. Il paese aspetta un’altra vittoria e io l’aspetto autentica tale da definire per sempre la questione di Abissinia. Bada a quello che fai. Ci va dell’onor tuo e della dignità dell’Italia nostra. Io non ti chiedo un piano di guerra. Ti chiedo soltanto che non si ripetano le sconfitte”.

Baratieri non chiede solo uomini, vuole muli, cavalli, basti, trasporti ma a Roma non ci sentono.

Ma prima di Adua il governo di Roma taglia sui fondi con il ritorno in patria di alcuni battaglioni:“Trova il modo tu di sciogliere il problema con i mezzi che ti offre il paese. Napoleone faceva la guerra con i denari dei vinti” (Crispi, aprile ‘95). Sindrome del “garibaldinismo”.

Baratieri di fronte alla minaccia abissina decide di ritirarsi da Adua (sono 350 km dalle basi di partenza) ma poi i suoi ufficiali e Crispi lo convinsero a tentare una “dimostrazione offensiva” (linguaggio contorto).

Baratieri è sostituito ma non lo sa

Di fronte alla decisione di ripiegare Crispi sostituisce Baratieri con Antonio Baldissera, il conquistatore di Asmara e governatore dell’Eritrea. La decisione è presa il 22 febbraio, Baldissera sarebbe partito subito, arriverà a cose fatte.

Il 24 febbraio arriva a Baratieri il telegramma che spiega il disastro di Adua: “Codesta è una tisi militare, non una guerra, piccole scaramucce nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero al nemico; sciupio di eroismo senza successo. Non ho consigli da dare perché non mi trovo sul posto, ma costato che la campagna è condotta senza alcun piano prestabilito, e io vorrei che ve ne fosse uno. Siamo pronti a ogni sacrificio per salvare l’onore dell’esercito e il prestigio della monarchia”.

Baratieri ebbe la certezza di essere stato licenziato anche se non sapeva nulla di Baldissera. Baratieri accarezza una vittoria che possa rilanciarlo.

Baratieri aveva 16mila uomini (12mila italiani e 4mila ascari). Baratieri però deve fare i conti con la penuria di muli e cammelli. Non c’è cavalleria. Anche la situazione rifornimenti alimentari è vicina al collasso: c’è cibo per sette giorni, poi la ritirata è inevitabile. Era avventurismo tentare l’offensiva.

Menelik ha circa 100mila armati con più della metà degli uomini (70mila) armati di fucili migliori rispetto ai Vetterli italiani (avuti dalla Francia ma anche dall’Italia) con buon munizionamento. Gli italiani avrebbero dovuto avere i moderni Modello ’91 e invece combatterono con i vecchi Vetterli. Non è quindi una guerra tra ricchi e poveri.

Nel campo di Baratieri c’è poi il paradosso dei quattro generali che devono controllare il “garibaldino”: Arimondi, Dabormida, Albertone ed Ellena. Albertone e Arimondi, i più arroganti, odiavano Baratieri e lo consideravano un incapace.

Il campo avversario non è messo meglio: Menelik sa che stanno scarseggiando il cibo per uomini e cammelli, i ras mugugnano per le settimane di inattività e vogliono la battaglia. Se perde, perderà il trono e la vita.

Baratieri decide di attaccare

Il 28 febbraio Baratieri riunisce nella sua tenda i quattro generali per avere da loro l’avallo alla battaglia. I generali si pronunciano favorevolmente. Si crede che Menelik abbia seri problemi (pochi uomini, è ammalato, contrasti con i ras…). Stava per arrivare una colonna italiana di uomini e mezzi ma si attacca lo stesso.

Il campo di battaglia si presenta sfavorevole agli italiani che non possono far valere i cannoni (in realtà piccoli cannoncini) e in mezzo alle montagne, con passaggi difficili, rischiano di avere addosso la massa abissina aggirante.

Dinamica della battaglia

Si decide di creare tre colonne: a destra Da Bormida, al centro Arimondi, a sinistra gli ascari di Albertone. Sono dimenticati nella base di partenza di Saurià i telegrafi ottici. Non ci sono carte della zona, nonostante gli italiani avessero già combattuto e occupato Adua due volte.

Nel piano di battaglia Baratieri non distingue fra una battaglia di incontro ed uno scontro in profondità e non prevede nulla in caso di ritirata.

Invece di attendere l’urto etiope da una posizione di forza, i generali lo provocarono o lo subirono colti di sorpresa senza l’appoggio di una forte posizione naturale.

La partenza è alle tre di notte. La colonna di Albertone prende un consistente vantaggio soprattutto su Arimondi. Devono tutti confluire in un punto e lì sfidare il nemico.

Probabolmente Albertone vuole costringere Baratieri al combattimento agganciando il nemico. È una strategia decisa con gli altri generali. Forse sogna di essere lui solo il vincitore. Albertone crede che ad Adua ci siano solo 20mila abissini.

Albertone aggancia il nemico alle ore sette e attira su di sé gran parte dell’esercito. Non può avere aiuto dalle altre due colonne che sono più indietro. Rapidamente è circondato e annientato.

Se le tre colonne fossero confluite al punto concordato, per Menelik non ci sarebbe stato scampo. La colonna Da Bormida va verso destra (si allontana da Albertone), rispetta gli accordi presi.

Ogni colonna combatte separatamente contro l’intera massa degli indigeni.

Dopo Albertone, le colonne Da Bormida e Arimondi sono travolte. La brigata di riserva di Ellena è mal utilizzata con continui prelevamenti di truppe. Non entrerà mai in scena.

Arimondi e Da Bormida sono uccisi in battaglia.

Nel pomeriggio i reparti fuggono disordinatamente. Baratieri non riesca assolutamente a tenere uniti i reparti che fuggono (anche lui fugge), anzi per molte ore scompare anche lui.

Il 3 marzo arriva il bollettino di Baratieri. La colpa è attribuita solo ai soldati che non combatterono e “fuggirono senza ritegno”.

Nessun accenno ad Albertone, agli errori delle colonne in marcia, alla sua incapacità nel comporre la ritirata. Nessun accenno anche alla nomina di Baldissera voluta da Crispi e non comunicata a Baratieri.

Grandi manifestazioni di ostilità in Italia contro Crispi: “Viva Menelik!”. Non si udì nulla di simile fino al tempo della Grande guerra.

Adua per Giolitti

La sconfitta di Adua per Giolitti: “Quel ministero, dominato da due o tre correnti, l’una delle quali voleva la guerra, l’altra, che pur lasciando impegnare la guerra, negava i mezzi necessari per vincere, non seppe scegliere una via; a tutto ciò si aggiunge una incredibile inefficienza nell’organizzazione e nella direzione militare dell’impresa”

Il processo a Baratieri

In fretta e furia venne istituito il processo a Massaua che avrebbe potuto condannare a morte Baratieri. Le accuse sono due: aver deciso l’attacco nonostante le condizioni fossero precarie; aver abbandonato il comando dal 1 al 3 marzo (non dà alcuna direttiva durante la ritirata).

Baratieri in cambio dell’impunità accetta di fungere da capro espiatorio nascondendo anche le responsabilità di Crispi e dell’intera classe dirigente italiana.

Baratieri in sostanza accentra su di sé le colpe (sfortuna, imprevidenza) dando però importanza alla forza dell’avversario e alle difficoltà del terreno.

L’accusa chiede dieci anni per Baratieri. Il tribunale invece pur deplorando“che in circostanze così difficili fosse affidato il comando a un generale che si dimostrò tanto al di sotto delle esigenze della situazione”, manda Baratieri assolto.

Per liberare i 2000 prigionieri il re dovette pagare 10 milioni. Si fecero collette in tutto il Paese.

Le perdite

Il contingente di Baratieri aveva 20mila uomini: 16mila combattenti e 4 mila di supporto.

Circa 5000 italiani (con 260 ufficiali e due generali) e 1000 ascari eritrei caddero ad Adua, 500 feriti e 1700 prigionieri. I superstiti rientrarono ad Asmara sbandati.

Le perdite abissine sono tra i 7mila e i 10mila.

Era la prima volta che un esercito africano aveva il sopravvento in modo netto su un esercito europeo. In Europa dopo Adua stupore, preoccupazione (gli africani potevano prendere coscienza del loro valore) e disprezzo per l’Italia.

La credibilità internazionale subì una forte diminuzione. L’Italia conservava solo Eritrea e Somalia.

Non fu una guerra tra ricchi e poveri

Gli abissini erano armati meglio degli italiani con fucili e cannoni. La Francia aveva ispirato la sconfitta italiana in chiave antitriplicista.

Ad Adua morirono più soldati che in tutte le guerre del Risorgimento, in ogni caso furono pochi rispetto ai massacri del Carso.

Paralleli tra Custoza (1866) e Adua. Contrapposizione tra La Marmora e Cialdini. Dispersione del comando, beghe e gelosie tra i capi, ritirata disastrosa.

Le conseguenze

La sconfitta sul piano militare era riparabile. Sul piano politico la sconfitta fu invece irrevocabile. A livello militare nacque il “complesso di Adua”.

Le masse urlarono “Viva Menelik!”, il parlamento esautorò Crispi per dare il potere a Di Rudinì (anticolonialista). Il Paese rischiò la rivoluzione e il re pensò di abdicare. Finì per sempre la carriera di Francesco Crispi.

La classe politica uscita dal Risorgimento fu spazzata via (i volti nuovi furono Giolitti e Vittorio Emanuele III).

La crisi economica e l’eco di Adua spinsero il proletariato italiano nelle piazze: Milano, maggio ’98 (400 morti).

Nel luglio dell’anno 1900 Gaetano Bresci a Monza uccise il re d’Italia, Umberto I.

Per concludere

L’Italia esce da questo primo tentativo di penetrazione coloniale nel modo peggiore: il credito internazionale del Paese è bassissimo; la classe politica subisce un terremoto; le masse popolari sono in fermento.

Il possesso delle sole Eritrea e Somalia presuppone un bilancio negativo, anche perché naufragarono subito i sogni di popolamento, la possibilità di trarne profitti e il colonialismo italiano mostrò il suo volto peggiore.

Giancarlo Restelli