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Gli italiani in Russia (1941-1943)

Gli italiani in Russia (1941-1943)

“Nessuno dimenticherà,
nessuno potrà dimenticare:
né oggi né mai”
Gabriele Gherardini

La terribile e nello stesso tempo complessa vicenda degli italiani in Russia ha un inizio preciso. Il 22 giugno 1941 la Germania nazista scatena l’ ”Operazione Barbarossa” con l’obiettivo di sconfiggere il bolscevismo e accaparrarsi le grandi risorse in uomini, grano e materie prime dell’Unione Sovietica.
Poche settimane dopo è pronto il CSIR (Corpo di spedizione italiano in Russia) formato da tre divisioni. Complessivamente si trattava di 61.700 uomini, 5.500 automezzi, 4.600 quadrupedi e 83 aerei al comando del generale Giovanni Messe.
I nostri soldati calzavano scarponi di cuoio “autarchici”, erano armati con fucili 91 e viaggiavano con pochi mezzi del tutto insufficienti ad affrontare le grandi distanze tra una tappa e l’altra del territorio russo.

Hitler invade l’Urss
Non c’è stato storico che abbia affrontato queste vicende che non si sia chiesto quali siano stati i motivi che hanno spinto Hitler e Mussolini a volere l’invasione del territorio sovietico e che per entrambi sarà l’inizio della fine.
All’inizio dell’estate del ’41 la Germania deve fare i conti con l’imprevista resistenza della Gran Bretagna nonostante la resa fulminea della Francia. C’è il rischio di un maggior coinvolgimento nel conflitto degli Stati Uniti fino all’impegno diretto nella guerra. Ad est incombe il pericolo russo nonostante il Patto di non aggressione tra Germania e Unione Sovietica firmato nell’agosto del ’39.

La guerra contro il bolscevismo quindi ha per la dirigenza nazista più significati:
– conquistare l’Unione Sovietica e mostrare un’altra volta al mondo l’efficacia dell’esercito tedesco
– mettere le mani sulle enormi risorse del paese: petrolio, ferro, carbone, grano e decine di milioni di uomini (in realtà “sottouomini” per i nazisti) da schiavizzare
– convincere la Gran Bretagna a scendere a patti dopo la vittoria su Stalin
– far fare alla Germania un grande salto di qualità e mantenere gli Stati Uniti fuori dalla guerra

Scrisse Hitler in una lettera a Mussolini recapitata pochissime ore prima dell’inizio della poderosa offensiva: “Qualunque cosa accada, Duce, la nostra situazione non può peggiorare a causa di questo passo; essa può solo migliorare… Nondimeno se l’Inghilterra non dovesse trarre le debite conclusioni dai duri fatti, noi, avendo le spalle sicure, potremo dedicarci con forze, accresciute, alla liquidazione del nostro nemico…”.
Quindi l’ “Operazione Barbarossa” non fu un qualcosa di avventato e improvvisato. Hitler era consapevole dei rischi ma anche delle opportunità che ne sarebbero derivate dalla vittoria.
Certo, le guerre sembrano fatte apposta per smentire i piani degli Stati Maggiori e gli obiettivi dei politici, ma quando un Paese entra in guerra è convinto che tutto andrà per il meglio.

Le motivazioni di Mussolini
Perché Mussolini decide di far partecipare l’esercito italiano alla spedizione in Russia?

Anche qui una pluralità di motivi che dovevano sembrare “ragionevoli” alla classe dirigente politico-militare del paese:
– finora l’esercito italiano aveva rimediato sconfitte o brutte figure a cominciare dalle operazioni nella Francia alpina per arrivare alla campagna di Grecia e nell’Africa settentrionale. Una vittoria avrebbe cambiato tutto
– la guerra in Russia sarebbe stata breve e facile a causa delle difficoltà strutturali del paese e del suo esercito
– la vittoria non poteva non arridere alla superiore razza “ariana” (tedeschi e italiani) rispetto alla barbara razza slava
– una parte delle enormi risorse sovietiche sarebbero state affidate all’Italia, comprese alcune zone di occupazione militare
– Mussolini non voleva che slovacchi, ungheresi o romeni (che avevano inviato forti contingenti) insidiassero lo stretto rapporto dell’Italia con la Germania
– Se l’Italia non partecipava alla spedizione avrebbe avuto un ruolo minoritario nel Nuovo ordine germanico dell’Europa

Per ottenere tutto questo era però necessario inviare un corpo di spedizione e combattere una guerra sicuramente breve, fatta di impetuose avanzate e mirabolanti vittorie. Le cose, come sappiamo, non andarono così.
In realtà la spedizione in Russia fu un errore strategico perché le tre divisioni impegnate nelle pianure russe furono tolte al fronte africano favorendo così la riorganizzazione dell’esercito inglese dopo l’intervento dell’ ”Africa-Korps” di Rommel.

Gli italiani in Russia: il CSIR
Per raggiungere il fronte, il corpo di spedizione italiano doveva affrontare un viaggio di 2.300 chilometri attraverso il Brennero, Salisburgo, Vienna, Budapest per poi concentrarsi in Romania. 58.000 uomini con 2.900 ufficiali erano le forze della spedizione in Russia. Comandante in capo il generale Francesco Zingales, subito sostituito per problemi di salute da Giovanni Messe.
Solo la divisione “Pasubio” era sufficientemente equipaggiata soprattutto in automezzi. Le altre due divisioni, “Principe Amedeo Duca D’Aosta” e “Torino”, dovettero muoversi a piedi lungo strade polverose che si trasformavano in acquitrini alla prima pioggia.
Nonostante tutto il CSIR completò il proprio schieramento nel mese di agosto (1941) e venne messo a disposizione dell’Undicesima Armata tedesca. Il corpo di spedizione italiano venne utilizzato dai tedeschi nei rastrellamenti nelle retrovie dopo le rapide avanzate dell’estate.
Attestato all’inizio sul fiume Dniepr l’obiettivo più importante per il CSIR (definito dal comando tedesco) è l’occupazione della zona industriale di Stalino nel bacino del Donec. La presa della città avviene il 20 ottobre dopo aspri combattimenti che erano iniziati nei primi giorni del mese.
Già cade la prima neve e i soldati italiani si rendono conto di avere un equipaggiamento del tutto inadatto per affontare i rigori dell’inverno. Il CSIR aveva dotazioni solo per una guerra breve che doveva risolversi nel corso dell’estate o al massimo del primo autunno. Una guerra di logoramento non era stata presa in considerazione. Infatti il corpo d’armata italiano, oltre alle croniche carenze nel vestiario pesante, ha scarso armamento e munizionamento, un parco-automezzi povero, scarsa disponibilità di carburante, pochi anche i treni-rifornimento dall’Italia. Addirittura il generale Messe dette ordine di acquistare nella zona di occupazione slitte, muli, cavalli ed equipaggiamento invernale dalla Romania immaginando quello che sarebbe accaduto di lì a pochi mesi.
Infatti durante l’inverno (fine dicembre-inizio gennaio ’42) si scatena la controffensiva sovietica contro italiani e tedeschi nel tentativo di rioccupare alcune zone perdute. Nonostante la superiorità sovietica in fatto di uomini e armi, il fronte italiano tiene.
I combattimenti durarono per tutto l’inverno con molti episodi di eroismo e abnegazione di alcuni reparti italiani.

Alla fine del mandato le perdite del CSIR erano rilevanti: 1.633 morti, 7.858 feriti e congelati, 410 dispersi. Verrebbe da dire perdite “poco rilevanti” pensando alla ritirata dell’ARMIR a inizio ’43 e della terribile ecatombe di soldati e ufficiali italiani nei campi di concentramento sovietici.
L’ultimo atto del CSIR avviene il 9 giugno del ’42 quando è passato in rivista dal generale Gariboldi, nuovo comandante italiano in Russia. In Italia sta nascendo l’ARMIR, cioè l’Ottava Armata italiana in Russia, forte di 10 divisioni e 229.000 uomini. Il CSIR è assorbito nella nuova unità.

La tragedia dell’ARMIR
L’Ottava Armata fu mandata sul Don nel quadro della nuova strategia di Hitler per l’estate 1942, che prevedeva un grande attacco sul fronte sud con obiettivo Stalingrado (nodo strategico delle comunicazioni russe) e il Caucaso (ricco di petrolio). Dato che la Wehrmacht non era più in grado, come l’anno prima, di attaccare contemporaneamente su tutti i settori del fronte, il colpo decisivo doveva essere sferrato sul fronte meridionale allo scopo di «annientare definitivamente il residuo potenziale militare dei sovietici e sottrarre loro le principali fonti di rifornimento dell’economia bellica».
Questa volta è lo stesso Hitler a richiedere l’intervento italiano, ben consapevole della debolezza dell’esercito tedesco dopo le terribili perdite in uomini e materiali dell’anno precedente.
Ne faceva parte il Corpo di spedizione alpino con tre divisioni (“Tridentina”, “Julia” e “Cuneense”) attrezzato per i combattimenti in montagna (era prevista la zona del Caucaso). Finì come sappiamo, accanto ad altre divisioni italiane, lungo il Don. Così decisero i generali tedeschi, a cui spettava il comando di tutte le truppe impiegate, compresi contingenti ungheresi e rumeni.
Per gli alpini il problema non era solo di ordine psicologico (la pianura al posto della montagna): il loro armamento era funzionale ai combattimenti in montagna. Pensiamo solo all’ “effetto” dei loro cannoncini e mortai da montagna sulle corrazzature dei T43 russi!
La zona del Don fu raggiunta con difficltà nel corso dell’estate del ’42 a causa dei soliti problemi derivati dalla mancanza di automezzi. La “Torino” marciò per 1.300 chilometri! A partire dal mese di settembre l’intera Ottava Armata era operativa.
Da nord a sud, lungo la sponda sinistra del Don abbiamo il corpo d’armata alpino (“Tridentina”, “Julia” e “Cuneense”), il 2° corpo d’armata (“Cosseria” e “Ravenna”), il 95° corpo d’armata (298° divisione tedesca e “Pasubio”), il 19° corpo d’armata (“Torino”, “Celere” e “Sforzesca”). L’ala sinistra dell’Armir è ancorata alla seconda Armata ungherese, l’ala destra è in appoggio alla Terza rumena, un’armata già provata da precedenti combattimenti e con gravi problemi logistici. La “Vicenza” è una divisione di appoggio in caso di sfondamento ma è debole e come si vedrà incapace di intervenire di fronte alle avanzate russe di dicembre.

Le divisioni italiane reggono 270 chilometri di fronte. C’è un fante ogni sette metri! Questa è la densità delle forze italiane. Ci sono anche una trentina di carri italiani ”L6/40”, “scatolette” da tre tonnellate, più leggeri di un camion, che non servono a nulla. Rispetto ai poderosi T34 sovietici (ventotto tonnellate) paiono il simbolo dell’inadeguatezza dell’esercito italiano. Non ci sono armi controcarro. L’artiglieria è superata, manca quella semovente e scarsa è la contraerea.
In realtà il Comando italiano non aveva lesinato sulle forniture: l’ARMIR venne armata con quanto di meglio allora era disponibile, considerando che era per l’Italia il terzo anno di guerra. Il problema di fondo era la debolezza dell’industria italiana rispetto alle concorrenti.
Mussolini era consapevole della inadeguatezza dell’esercito italiano in Russia ma era convinto che la Germania avrebbe provveduto ad armare i soldati italiani. Le cose non andarono così perché anche i tedeschi avevano grossi problemi di approvvigionamento e il contributo italiano era considerato marginale dal Comando supremo tedesco.
Anche le comunicazioni appaiono inadeguate a coordinare un fronte ampio e difficile: le radio sono antiquate e scadenti. Il parco automobilistico scarso e logoro, non basta neppure per le truppe in linea. Grave è anche la disorganizzazione logistica. Lungo le poche strade disponibili si creano ingorghi che provocano rallentamenti all’approvvigionamento delle truppe sulla linea del fuoco, il carburante è scarso, i tedeschi hanno sempre la precedenza.
Fatto sta che nelle lontane retrovie i magazzini sono pieni di ogni ben di Dio (armamenti, vestiario, medicinali e cibo), ma ai soldati in linea arriva poco niente, soprattutto scarseggiano le munizioni per non parlare degli alimenti. Il cibo è spesso freddo, arriva sempre tardi ed è di cattiva qualità. Solo i pacchi da casa portano un po’ di sollievo.
L’equipaggiamento è poverissimo. Le divise sono di finta lana autarchica. Il 90% dei soldati si difende dal primo freddo con indumenti spediti da casa. Le scarpe sono le stesse portate dai soldati impegnati nell’Africa settentrionale, del tutto inadeguate rispetto all’inverno russo. Gli scarponi chiodati favoriscono la formazione del ghiaccio.
I tedeschi invece hanno imitato i contadini russi e calzano gli ottimi “vàlenchi”, un rozzo stivale di feltro, ampio e caldo. Nonostante questa situazione il morale è alto. Lo spirito di corpo nelle truppe (molto forte nel contingente alpino) fa fronte a tutte le carenze elencate.
Il soldato italiano reduce dalla Francia, Albania, Grecia, Africa settentrionale sa che deve arraggiarsi da solo: poco riceverà dai comandi e le energie per combattere e sopravvivere dovrà trovarle in sé.

Inizia la ritirata
L’offensiva russa per togliere l’assedio a Stalingrado e circondare le truppe tedesche con una poderosa manovra a tenaglia causa la rottura del fronte del Don a partire dall’11 dicembre del ’42.
In una prima fase a essere travolto è il Secondo corpo d’armata italiano debolmente ancorato alle sponde del fiume. I temibili carri sovietici passano sulla superficie ghiacciata portando scompiglio nelle retrovie italiane, l’aviazione bombarda sistematicamente i gangli del sistema difensivo italiano e la fanteria, che segue nell’avanzata i carri, occupa le postazioni italiane.
La “Ravenna” e la malferma Terza Armata rumena sono travolte. Il forte rischio è l’accerchiamento con l’intero corpo di spedizione chiuso in un’enorme sacca da cui diventa impossibile uscire. Da qui l’ordine di ritirata a scaglioni delle truppe nel dicembre del ’42 fino ad arrivare alle truppe alpine a partire dalla metà di gennaio.
All’inizio la rotta riguarda la “Ravenna”, la “Pasubio”, il 298° tedesco, la “Torino”, poi la “Pasubio”, “Celere” e “Sforzesca”. Successivamente arriverà il momento della “Julia”, “Tridentina” e “Cuneense” a partire dal 17 gennaio quando il corpo d’armata alpino è già accerchiato. L’ordine di ritirata è arrivato tardi nonostante la palese differenza di movimento tra i nostri soldati a piedi e le rapide avanzate dei carri sovietici e delle truppe russe supportate dai partigiani.
Cartina offensiva sovietica (da “Centomila…”)

La ritirata avviene nelle peggiori condizioni immaginabili con il freddo che arriva anche a 40 gradi zottozero durante le terribili e lunghissime nottate spazzate da un vento freddissimo che acuisce le sofferenze dei soldati. L’incubo è essere accerchiati e cadere nelle mani dei russi oppure essere annientati dal fuoco incrociato dei carri e dell’artiglieria.
E così masse di disperati affronteranno i rigori dell’inverno russo continuando a marciare verso ovest e a combattere per aprire un varco nei tanti tentitivi russi di stringere l’armata italiana in un assedio definitivo.

Durante la ritirata non c’è cibo a disposizione, si dorme qualche ora nelle poche isbe trovate durante il cammino; quando è ancora buio si riprende la marcia abbandonando tutto quello che diventa pesante da portare e talvolta si abbandonano anche le armi personali. Episodi di eroismo accanto a episodi in cui l’uomo riscopre la propria anima animalesca costellano la lunga ritirata di settecento chilometri nella steppa russa.
Chi cadeva per terra affranto dalla fame e dallo sforzo raramente poteva avere un aiuto per rialzarsi, semplicemente cadeva in quel punto e la neve l’avrebbe ricoperto oppure sarebbe stato schiacciato dalle tante slitte che si muovevano in un incredibile disordine lungo le piste. Per introdursi nelle isbe in piena notte, spesso strapiene, era necessario talvolta aprire il fuoco o usare la baionetta contro i propri commilitoni in una situazione in cui ogni vincolo formale e rispetto umano erano caduti. La disperazione era negli occhi torvi oppure privi di espressione in uomini che marciavano anche 18-20 ore al giorno.

Una testimonianza dall’ “inferno bianco”
Una delle testimonianze più tragiche della ritirata è quella del capitano Gabriele Gherardini:“Migliaia di uomini, barba di dieci giorni, occhi da disperati, mani che non avvertono più le falangi, piedi sanguinanti e mezz’anneriti dalla cancrena, pidocchi, dissenteria, uno straccio di volontà ancora nel cuore, masticano neve, pestano neve, cadono nella neve, vedono solo neve, notte e giorno, giorno e notte. Chi cade, chi non ce la fa più, se trova qualcuno che gli dia una mano, può darsi che vada ancora avanti domani, dopodomani; altrimenti peggio per lui. Le forze non sono per gli altri, a malapena bastano per se stessi; ieri si poteva ancora dare un aiuto, oggi no, perché aiutare vuol dire morire in due, due vite invece di una.
E si procede guardando avanti, mai indietro; dietro c’è odore di sangue, di carne mangiucchiata dai corvi, di benzina, di carri armati; davanti c’è un indefinibile senso di salvezza, un termine vago di ogni sofferenza.
Le colonne vanno come animali braccati, lottando contro tre nemici implacabili: i carri, i partigiani, il freddo, che non danno tregua, vengono addosso uno dopo l’altro o tutti insieme, sempre in agguato, violenti e mortali. I vuoti aperti nella marea sono continuamente colmati da gruppi isolati che si uniscono come vertebre alla spina dorsale; tedeschi, rumeni, magiari, uniformi grigie, color sabbia, gialle, si fondono nella corsa disperata verso occidente.
Quanti chilometri si sono già percorsi? Forse duecento, forse trecento! Quanti se ne devono ancora fare?
E ogni giorno gli aerei, ogni notte i carri e i partigiani che ogni tanto ci attaccano come squali, come cani idrofobi, con cocenti morsicature, giorno e notte, il freddo che è dalla loro, lo sfinimento che rende di ghiaccio, la fame che abbatte più delle pallottole.
Soltanto quando i carri e gli aeroplani ci rotolano addosso, l’annichilimento è più forte della fame; poi, scomparso il pericolo, lo spettro bianco torna fuori dal suo cantuccio, ci riprende sotto braccio soffiandoci in faccia il suo fiato ossessionante e riempiendoci la bocca di saliva calda e dura” (G. Gherardini, “Morire giorno per giorno. Gli italiani nei campi di prigionieri dell’URSS”, Mursia 1966, pp. 89-90).

Di grandi prove di pietà, di fronte allo sfacelo degli italiani, furono protagonisti i contadini russi i quali misero a disposizione le loro povere case, anguste e maleodoranti, ma in quel momento capaci di salvare la vita dei soldati. Chi passava la notte all’addiaccio difficilmente vedeva l’alba mentre le isbe salvavano la vita.
Ai soldati affamati i contadini russi diedero quel poco che avevano rischiando che le loro case venissero bombardate dall’artiglieria russa o dall’aviazione. La ritirata italiana costò la vita a molti civili russi che abitavano lungo le piste di neve percorse dagli italiani.

La battaglia di sfondamento di Nikolajevka
Per aprire la via verso le retrovie italo-tedesche i soldati italiani dovettero combattere più volte contro forze maggiori. Celebre è la battaglia di sfondamento di Nikolajevka, iniziata il 25 gennaio del ‘43, il più famoso fatto d’arme della ritirata. I russi aspettavano al varco. Si combattè alla disperata con l’obiettivo di evitare l’annientamento. I combattenti più solidi furono gli alpini. Anche questa volta gli italiani passarono ma a prezzo di numerosissime perdite.
Solo verso il 31 gennaio i soldati superarono anche l’ultimo sbarramento e poterono sentirsi relativamente al sicuro ma rimase imperiosa l’idea di non perdere tempo e continuare a ripiegare per evitare il temutissimo accerchiamento da parte dei russi.

Le perdite
Alla fine l’ARMIR lamenterà 89.799 morti e dispersi; 35.133 feriti e congelati. Dai campi di concentramento sovietici torneranno solo 10.030 soldati. Se nel ’42 erano state necessarie 200 tradotte per portare il corpo d’armata alpino al fronte, ora ne bastano 17 per riportare in Italia i superstiti.
Celebri testimonianze della tragedia dei soldati italiani in Russia sono “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi e “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern. Libri che si leggono con angoscia nella consapevolezza che quanto raccontato è parte di una grande tragedia individuale e collettiva.
Quando rientrano in Italia i resti delle varie divisioni sono così malmesse che nelle stazioni di passaggio non si possono aprire i vagoni ferroviari e i primi contatti con le autorità italiane provocano disordini. I soldati dell’ARMIR sono tornati pieni di rancore per i responsabili della morte dei loro commilitoni e per le terribili sofferenze provate in tanti giorni di disperata sopravvivenza in condizioni raccapriccianti.

L’armata scomparsa
Dei 229.005 uomini (dato ufficiale) che si trovarono a combattere nell’ARMIR circa 90.000 non fecero ritorno. Se si tiene conto che attorno a 5.000 caddero per i fatti d’arme antecedenti all’11 dicembre 1942 (inizio della controffensiva russa), le perdite della ritirata furono di 85.000 uomini, dei quali 25.000 morirono combattendo o di stenti durante la ritirata e 70.000 furono fatti prigionieri.
“Questi prigionieri furono costretti a marciare per centinaia di chilometri e poi a viaggiare su carri bestiame per settimane, in condizioni allucinanti, senza mangiare, senza poter riposare la notte, con temperature siberiane. Coloro che riuscirono a raggiungere i lager di smistamento – improvvisati, disorganizzati, con condizioni igieniche medioevali – erano talmente denutriti e debilitati che le epidemie di tifo e dissenteria ne falciarono ben presto la maggior parte”, U.N.I.R.R. (Unione Reduci Italiani dalla Russia).
Solo circa 10.000 sopravvissuti furono restituiti dall’Unione Sovietica a fine conflitto!

La sorte di Ermenegildo Caironi: un soldato nato a Rescaldina (MI)
L’ultima lettera di Ermenegildo alla famiglia è del 10 gennaio del ’43 quando ormai la morsa intorno agli italiani stava per chiudersi. Dal 17 gennaio il corpo di spedizione alpino inizia la ritirata (ordine del generale Gariboldi) e il povero Ermenegildo come altre decine di migliaia di italiani conosce l’ “inferno bianco” della steppa russa con il terrore dell’arrivo dei carri sovietici.
Sappiamo da un compagno di sventura che Ermenegildo fu catturato a Belgorod, una grossa città sul fiume Donetz (Donec) e sede ancora oggi di un importante nodo ferroviario. Ermenegildo fu a un passo dalla salvezza: il treno che l’avrebbe portato in salvo era pronto a partire ma debilitato o ferito durante la lunga marcia non ebbe la forza di compiere l’ultimo tratto verso la salvezza.

Che cosa avvenne dopo la sua cattura? Visto che secondo i documenti russi morì il 30 gennaio, probabilmente Ermenegildo fu scaraventato subito su un vagone piombato per essere destinato al lager di Basjanovca, vicino a Nizhnij Tagil negli Urali centrali. Anche qui basta solo dare un’occhiata a una semplice carta geografica per vedere l’enorme distanza che il treno coprì in pochi giorni per arrivare nel lager.
Nostra ipotesi (ma non ci sono elementi documentari), il povero Ermenegildo morì probabilmente sul vagone bestiame e venne seppellito in una fossa comune ai margini del lager subito dopo l’arrivo. Le privazioni della ritirata, il disastroso viaggio nel vagone piombato e magari anche una ferita nel momento della cattura devono aver provocato la morte.

La terribile esperienza di Gabriele Gherardini fu vissuta anche da Ermenegildo: “La stazione non era lontana, ma il treno non si vedeva, l’avevano cacciato su un binario morto. Ci divisero in gruppi di cinquanta e brutalmente ci spinsero su. I carri bestiame erano molto elevati da terra e dovemmo aiutarci a vicenda. Dopo i primi trenta non c’era più posto e cominciò la gragnola dei colpi finchè lo sportellone scorrevole scivolò cigolando e fu l’oscurità più completa.
Nel carro non c’era modo di rigirarsi. Le finestrelle a fior di tetto erano sbarrate e piombate. Fuori misero i bulloni, risuonò qualche voce, poi più nulla.
A tentoni riuscii a portarmi in un angolo stringendo tra le braccia l’involto dei viveri. Un cappellano prese a recitare il rosario, molti vi fecero eco. Dagli altri vagoni veniva un brusio indistinto, pareva un alveare. Faceva freddo da levar la pelle, le pareti erano piene di sconnessure, piedi e mani divennero pezzi di ghiaccio”. (op. cit. pp. 159-160)

Altri giovani del Legnanese nell’inferno russo
In questo drammatico panorama di guerra si trovarono alcune centinaia di giovani del Legnanese che combatterono nell’ARMIR. L’elenco dei caduti pubblicati dall’U.N.I.R.R. contenenti i nominativi di 91.735 soldati deceduti nelle repubbliche della ex Unione Sovietica, distinti per comune di nascita, ci consente di individuare 260 nominativi di caduti lungo l’asse Legnano-Rho:

– Arconate-Diarago 3
– Busto Garolfo e Villa Cortese 20
– Canegrate
– Cerro Maggiore 30
– Legnano 53
– Nerviano 37
– Parabiago 25
– Rescaldina 9
– San Giorgio su Legnano 8
– San Vittore Olona 21
– Rho 46

Questi dati si trovano in una preziosa pubblicazione a cura di Giacomo Agrati, “Quelli della neve… Persone, esperienze e fatti legati all’intervento italiano nella Campagna di Russia, 1941-1943”, ISSRAM, 2001.

Oltre un terzo dei caduti apparteneva ai 53° e 54° Reggimenti fanteria della Divisione “Sforzesca”, in minor misura ai Reggimenti fanteria di altre Divisioni (“Pasubio”, “Ravenna”, “Torino”), al 4° Battaglione misto Genio, al Raggruppamento Artiglieria d’Armata e a molti altri reparti.
Di un centinaio di soldati del Legnanese che morirono nelle gelide lande russe non si conosce il luogo del decesso, mentre è stato possibile individuarlo per i restanti 37: 9 nel campo 188 di Tambov, 4 nei campi 56 di Uciostje e 16 nel campo di Taliza, 3 nel campo 58 di Tiomnikov, mentre i restanti sono sparsi nelle fosse comuni di altri campi e ospedali o sepolti in cimiteri di tipo campale. L’apertura degli archivi ex sovietici nel 1992 ha permesso a molti familiari dei caduti di conoscere almeno il luogo di sepoltura del loro caro.

“Ritornavano irriconoscibili, laceri, con gli stanchi piedi rivestiti di stracci,
con cenciosi abiti da pezzenti vagabondi;
avevano occhiaie e guance infossate, nasi esangui e affilati dalla cui pelle assottigliata
traspariva il bianco della cartilagine sottostante
Giulio Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”