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L’incendio del Narodni Dom a Trieste, 13 luglio 1920

L’incendio del Narodni Dom a Trieste, 13 luglio 1920

Il “Fascismo di Confine”

Cento anni fa ci fu l’aggressione fascista al Nàrodni Dom di Trieste. Stiamo parlando della “Casa della Cultura” slovena a Trieste. E’ la prima azione squadristica in Italia.

Oggi, 13 luglio 2020, Mattarella e Pahor (presidente della repubblica slovena) sono a Trieste per la restituzione dell’edificio alla comunità slovena e per rendere omaggio alla foiba di Basovizza.

L’avvenimento di cento anni fa è una buona occasione per riflettere oggi sui guasti e le contraddizioni del nazionalismo.

Potremmo iniziare col dire che l’incendio del Nàrodni Dom è emblematico delle contrapposizioni etniche e nazionali al confine d’Italia appena terminata la Grande Guerra. A confrontarsi senza esclusioni di colpi sono due nazionalismi l’uno contro l’altro armato: il nazionalismo italiano e quello sloveno e croato a Trieste, nella Venezia Giulia, in Dalmazia e in Istria.

Appena terminata la guerra è l’Italia ad avere il sopravvento e a portare avanti una politica di violenze ai danni della comunità slovena a Trieste. Poi, con il secondo conflitto mondiale, sarà invece il nazionalismo slavo capeggiato dal maresciallo Tito ad avere il sopravvento con la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo giuliano-dalmata.

Il contesto storico

Iniziamo il nostro percorso storico cercando di capire il contesto dei fatti del 13 luglio del ’20.

Il 24 maggio del ’15 l’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria per il controllo dell’area balcanica e per fare dell’Italia una potenza adriatica e mediterranea. L’obiettivo è l’espansione italiana nel Balcani, il mondo danubiano e il Medio Oriente. E’ l’inizio della partecipazione del nostro paese alla Grande guerra, che costerà 650.000 morti.

E’ interessante sapere che il grosso delle truppe austro-ungariche a guardia dell’Isonzo era formato da contingenti sloveni e croati i quali combattevano una duplice guerra:

.per salvare l’impero di Francesco Giuseppe, che non era affatto una “prigione di popoli” come si diceva in Italia

.contro l’Italia perché erano ben conosciute le mire espansionistiche del governo italiano con il Patto di Londra nell’area balcanica. La linea dell’Isonzo diventa quindi per le etnie slave una sorta di baluardo nazionale da difendere ad ogni costo.

La guerra quindi scava un primo solco profondo di odio e di disprezzo reciproco tra italiani e slavi.

Finita la guerra ci sono centinaia di migliaia di morti da una parte e dall’altra che pesano come macigni ora che italiani e slavi sono costretti a vivere insieme, in un’area di frontiera come l’Istria, annessa dall’Italia con la Vittoria del 4 novembre ’18.

Con il trattato di Saint Germain, appena finita la prima guerra mondiale, l’Italia si espande verso est occupando Trieste, Gorizia, Monfalcone, tutta l’Istria, Zara, Sebenico, la Dalmazia settentrionale e alcune isole. Con Trento e Bolzano l’Italia non ottiene affatto quella “vittoria mutilata” che D’Annunzio declamava. Si trattava sicuramente di un buon bottino di guerra che apriva ottimistiche ipotesi di espansione nell’area balcanica e mediterranea.

Da notare che se l’Italia “pretende” tutti questi territori, il nuovo Stato degli Slavi del Sud (capitale Belgrado) reclama tutta la Dalmazia, tutta l’Istria, Trieste e Pola. In queste condizioni possono prevalere solo i linguaggi del nazionalismo.

Da notare che l’arrivo dell’Italia a Trieste non fu un buon affare per la borghesia imprenditoriale giuliana. Con l’Impero asburgico Trieste era una vera “finestra sull’Adriatico” con un ampio retroterra balcanico. Ora la città rischia l’emarginazione economica divenendo un’appendice orientale italiana e perdendo gli ampi rapporti economici con la Mitteleuropa e i Balcani a causa delle chiusure nazionalistiche dei nuovi Stati nati con la dissoluzione dell’impero asburgico

Nel momento in cui la città è degradata a un ruolo minore (la “torta” è diventata pià piccola), i nazionalismi sono spinti l’uno contro l’altro. La minoranza tedesca è subito emarginata attraverso espulsioni massicce da parte di truppe slovene. Rimangono a confrontarsi italiani e slavi, ma nelle zone ora italiane sloveni e croati sono la parte perdente.

Nel caso di Trieste emerge in maniera chiara il carattere mitologico del nazionalismo: a una Trieste “finalmente” italiana (compimento del Risorgimento), c’è la declassazione economica dell’emporio giuliano a città minore in Italia.

D’Annunzio a Fiume

Uno dei fatti più importanti appena finita la guerra è l’occupazione della città di Fiume del settembre ’19 da parte di D’Annunzio e dei suoi legionari che durerà 15 mesi fino al “Natale di sangue” del 1920.

Ebbene a livello giuridico l’Italia finita la guerra non aveva nessuna pretesa sulla città di Fiume perché nel Patto di Londra non era previsto che Fiume diventasse italiana.

In ogni caso l’occupazione di Fiume scaverà ancora di più in profondità l’odio slavo nei nostri confronti. Poi Fiume, oggi città croata, diventerà italiana nel 1924 quando Mussolini minaccerà di guerra il governo di Belgrado se non avesse ceduto la città all’Italia.

Ci sono almeno due cose che vanno dette su Fiume e non mi sembra che siano al centro del dibattito storiografico:

.Tra i maggiori fautori dell’impresa di D’Annunzio ci sono i potenti armatori di Trieste che temono la concorrenza del porto di Fiume nel caso la città fosse diventata jugoslava

.L’entusiasmo verso l’Italia dei fiumani fu molto tiepido fino al momento in cui la dissoluzione dell’impero minacciava di travolgere la città con il passaggio alla Jugoslavia. E’ questo il momento in cui arriva in Italia il “grido di dolore” dei fiumani subito raccolto da D’Annunzio.

Ecco perché al tempo del Patto di Londra nessuno prende in considerazione la città: semplicemente negli orizzonti politici del nazionalismo italiano Fiume non esisteva. E nemmeno a Fiume si guardava all’Italia.

Il censimento del 1910

Quanti sono in questo momento, nel 1918, gli slavi e gli italiani in Istria e a Trieste?

A Trieste gli sloveni sono 60mila in una città di circa 240mila abitanti. Una minoranza notevole! Nel 1910 ci sono più sloveni a Trieste che a Lubiana.

Nel 1910, su un totale di 400mila abitanti dell’Istria, 147mila sono italiani, 55mila sloveni, 168mila croati più altre minoranze. Sono dati del censimento austriaco del 1910 che Raoul Pupo ritiene attendibili. Gli italiani quindi non sono maggioranza in Istria.

Neppure nell’intera Venezia Giulia gli italiani sono maggioranza. Il censimento del 1910 ci dice che gli abitanti che si definiscono italiani sulla base della lingua d’uso sono il 43% a fronte di una maggioranza sloveno-croata del 57%. La presenza italiana in Dalmazia era invece marginale a parte la città di Zara.

Ma più di italiani, croati, sloveni o tedeschi in Istria e Dalmazia dovremmo parlare di popolazioni plurietniche e mistilingue che per secoli sono vissute senza particolari tensioni parlando contemporaneamente -tedesco, sloveno, croato e italiano. Addirittura in molti casi il dialetto friulano era una sorta di “lingua franca” che tutti parlavano per facilitare i rapporti economici oppure per favorire i matrimoni misti, molto frequenti in queste terre di frontiera dove l’identità nazionale sfumava molto a favore di altre culture.

Sono stati i nazionalismi (italiano e sloveno) di fine Ottocento e primi del Novecento che hanno creato divisioni in una realtà dove le appartenenze nazionali sfumavano.

– Vediamo che cosa accadde subito dopo la fine della Grande Guerra

Il primo rapporto tra italiani e slavi è connotato da forte razzismo, da una forte volontà di esclusione da parte italiana: Nessuna tradizione ha la nazione slovena: nel suo passato non può vantare nessuna lotta, nessuna gloria… la sua stessa lingua solo da pochi anni è divenuta letteraria e prima era considerata alla stregua di un qualsiasi dialetto parlato da popolazioni di campagna. La maggioranza della popolazione conosce solo la parola servire” (Francesco Luigi Ferrari, nazionalista, 1918)

La nascita del Regno dei Serbi, Sloveni e Croati appena finita la guerra rafforza il nazionalismo sloveno e croato nei territori ora italiani. E’ palese la preferenza data da sloveni e croati al governo di Belgrado. Nello stesso tempo il governo jugoslavo soffia sul fuoco delle rivendicazioni slave in Italia.

In ogni caso il nazionalismo italiano può far valere la forza dello Stato con provvedimenti repressivi (arresti di attivisti nazionalisti, internamenti in campi di prigionia, espulsioni verso la Jugoslavia), il controllo della stampa slava e dell’ordine pubblico.

Inizia la politica di italianizzazione forzata dei nuovi territori con il bavaglio ai movimenti nazionalisti slavi. Nella burocrazia sono licenziati molti impiegati slavi e così nelle scuole e nelle canoniche maestri e sacerdoti slavi lasciano il posto a elementi italiani nutriti di nazionalismo.

Il movimento nazionalista italiano a Trieste è particolarmente aggressivo e trova molti consensi tra gli ex arditi, gli irredentisti e i militari di carriera che vogliono uno scontro con la Jugoslavia come pretesto per annettere altri territori oltre quelli definiti dal Patto di Londra (es. la Dalmazia meridionale).

Dall’altra parte il nazionalismo slavo si accanisce sugli italiani della Dalmazia meridionale, che entrerà a far parte del Regno dei Serbi, Sloveni e Croati, con violenze a Spalato e Ragusa che mettono molti italiani nella condizione di emigrare in Italia.

Da qualunque parti lo si guardi, il nazionalismo esprime solo una carica di violenza. Il fatto che il nazionalismo sloveno e croato fosse la parte debole non giustifica alcuna considerazione positiva sul suo operato

Il fascismo a Trieste

Il fascismo a Trieste attecchisce rapidamente con un alto numero di iscritti rispetto ad altre città (14mila iscritti nel ’21). I Fasci di combattimento guidati da Francesco Giunta riescono a coagulare una vasta congerie di elementi nazionalisti additando come nemici gli sloveni e il proletariato italiano comunista. I militari di carriera aderiscono pienamente al nuovo movimento.

Il fascismo a Trieste venne chiamato “Fascismo di confine”, ancora più violento rispetto ad altre aree italiane.

Nel settembre del ’20 Mussolini in visita a Pola dichiara: Di fronte a una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone… io credo che si possano sacrificare 500mila slavi barbari a 50mila italiani”.

Nei primi anni venti non si contano a Trieste e nell’Istria gli omicidi politici, i pestaggi, le intimidazioni, le violenze contro la minoranza slovena e croata. Secondo Marina Cattaruzza saranno dati alle fiamme 134 edifici: di cui 100 circoli di cultura, 2 case del popolo, 3 cooperative e 21 camere del lavoro.

L’episodio più importante ai danni della minoranza slovena a Trieste subito dopo la guerra è l’incendio del Narodni Dom (13 luglio 1920) a Trieste e Pola (giorno dopo).

Da notare che nel luglio del 1920 lo Stato è ancora liberale, sarà in parte fascista dalla marcia su Roma e poi definitivamente dal 1925-26. Eppure tra Stato liberale giolittiano e Stato fascista mussoliniano c’è una vera e propria continuità nella comune politica antislava e anticomunista.

E così siamo arrivati ai fatti del 13 luglio di cento anni fa. Vediamo che cosa è successo. Ce lo racconta Luigi Bandera

I fatti del 13 luglio 1920 a Trieste – Luigi Bandera

Fiume, 6 luglio 1919

La guerra era appena finita e tra i “vincitori “ ben presto iniziano letteralmente le liti per dividersi le rispettive zone di influenza e come vedremo le liti tra militari non si fanno solo a cazzotti.

L’occupazione di Fiume ebbe corso già dal novembre del 18 , in quella data arrivò un contingente di truppe Italiane. Nominalmente erano parte di un contingente internazionale che comprenderà anche soldati francesi, inglesi e americani.

Le truppe italiane, pur formalmente parte di tale forza d’occupazione, mantennero però di fatto una totale libertà d’azione. Il comandante della guarnigione internazionale era un generale italiano, Grazioli.

Da subito Italiani e Francesi non solo sostennero le rispettive parti ma si fecero attori essi stessi nella difesa attiva della propria fazione etnica.

Nel mese di luglio del 1919 la situazione precipitò, il giorno 5 si assistette ad uno scambio di colpi di pistola tra un ufficiale Italiano e due soldati francesi e il giorno successivo ci fu una strage: le provocazioni da ambo le parti portarono verso sera ad un assalto armato ad opera di un reparto da sbarco Italiano ad un magazzino logistico difeso da 27 soldati francesi.

Il risultato fu di 9 Francesi morti e 11 feriti e tra gli assalitori italiani vi furono 3 feriti.

Trieste, dicembre 1918

Le violenze a Trieste iniziarono subito dopo la vittoria. Da subito gli Italiani chiedono la rimozione dell’arcivescovo Andrea Kàrlin, considerato un “austriacante” e per mettere ben in chiaro come stavano le cose nel dicembre 1918 un gruppo di giovani nazionalisti invase i locali dell’arcivescovado mettendo tutto a soqquadro.

Nel febbraio i comandi militari distribuirono secoli di condanne ai ferrovieri scioperanti e in questo caso non fecero differenze tra le nazionalità. La reazione nazionalistica del comando militare era sicuramente influenzata anche da quanto nel medesimo periodo stava accadendo in Ungheria, non solo vicina geograficamente ma anche socialmente e storicamente.

Il timore che il tentativo rivoluzionario comunista di Bela Kun in Ungheria contagiasse anche Trieste rese i nazionalisti e i militari determinati nel reprimere socialisti e slavi.

Trieste, 3-4 agosto 1919

Il 3-4 agosto ci furono a Trieste scontri tra socialisti e carabinieri con qualche morto. Mentre la situazione si stava normalizzando scesero in campo i nazionalisti (con loro anche ufficiali in divisa) che presero di mira alcuni obiettivi socialisti e sloveni.

Vennero invasi l’Hotel Balkan e la sede del giornale Edìnost (venne invaso quindi il Nàrodni Dom). Solo per l’intervento di ufficiali superiori non ci furono devastazioni. L’assalto alle organizzazioni operaie invece riuscì e nelle stesse ore ci fu l’aggressione ad opera di di ex combattenti e di giovani nazionalisti contro le sedi riunite dei sindacati triestini. Anche in questa circostanza con la direzione delle operazioni ad opera di ufficiali dell’esercito in divisa e in borghese.

Nel novembre del 19 l’arcivescovo Kàrlin è costretto a lasciare Trieste.

Spalato, 11 luglio 1920

Spalato era nella sostanza amministrata da un comitato dipendente dal governo provvisorio provinciale dalmata controllato dai nazionalisti jugoslavi, anche se il comandante militare della piazza era l’ammiraglio Millo. A suo sostegno in porto era ormeggiato in modo permanente l’incrociatore “Puglia”, al comando dell’incrociatore “Puglia” c’era il capitano Gulli.

Il Gulli aveva sostituito il comandante Menini che su incarico di Thàon di Rèvel aveva proceduto al sequestro di tutta la flotta ex austriaca commerciale, circa 40 navi con qualche unità di grosso tonnellaggio. Atto che provocò grande risentimento nella borghesia croata.

Ognuno dei due gruppi tendeva infatti ad impostare la propria battaglia politica e nazionale senza tener conto dei diritti dell’altro, perché sia l’uno che l’altro contendente cercavano il modo di influire col proprio atteggiamento sulle decisioni della Conferenza della pace in corso a Parigi.

la sera del 11 luglio 1920, vigilia del genetliaco di re Pietro di Jugoslavia, un cieco di guerra, il cap. serbo Lovric, tenne a Spalato un acceso comizio in chiave antiitaliana che infiammò i sentimenti patriottici della folla, la quale si lasciò subito andare a manifestazioni dirette principalmente contro le istituzioni culturali italiane, come il Gabinetto di Lettura, e i caffè frequentati dai marinai e dagli ufficiali italiani.

Il pretesto per rilanciare e aggravare la situazione fu un non ben definito furto di una bandiera Jugoslava, sulle cui dinamiche ognuno darà poi la sua versione, ad opera di due marinai italiani.

Rapidamente i nazionalisti di Lovric scaldano gli animi e una folla minacciosa dà inizio alla caccia agli Italiani, costringendo alcuni marinai a rifugiarsi in un caffè.

Per questo motivo il comandante Gulli, dopo aver restituito al comando americano la bandiera incriminata e convinto di aver risolto l’incidente, mandò una lancia a recuperare i soldati.

La lancia non poté attraccare al molo per la presenza minacciosa di una folla ostile e segnalò con un razzo la necessità di rinforzi. Il capitano Gulli arrivo con un Mas (che era ben armato) ma ancora prima di attraccare dalla folla partirono degli spari che colpirono a morte il comandante e un motorista.

Trieste, 13 luglio 1920

Il giorno 12 a Trieste i giornali riportano le notizie di Spalato e i fascisti capitanati Giunta organizzano per il pomeriggio un comizio che vedrà la presenza di almeno duemila persone.

Al termine del comizio i presenti si dividono in tre folti gruppi: uno diretto al “Lavoratore”, giornale socialista, uno contro la redazione di un giornale sloveno e la parte più numerosa punta sul Narodni Dom, situato in pieno centro.

Diverse sono le ricostruzioni dei fatti. Di certo vi è che con la folla assiepata attorno all’edificio nella confusione ci scappa il morto, si dirà che da una finestra del Balkan avessero sparato e gettato una bomba (un gerarca fascista si vanterà a posteriori di aver preso una camera con falsi documenti e messo in atto la provocazione); altri sostengono che il morto fu ucciso nella confusione. Poco importa, è il pretesto necessario affinchè si passi all’azione.

Alcuni carabinieri fanno evacuare gli ospiti del Balkan ( tra essi anche dei clienti americani) e uscire tutti gli occupanti dei rimanenti uffici, biblioteca e teatro.

Una squadra di fascisti, armati con latte di benzina, entra e ammucchia mobili, suppellettili e tutto ciò che può ardere e appicca il fuoco. I testimoni riferiscono che un cordone di manifestanti isolò il palazzo impedendo ai pompieri di Intervenire. Non solo, furono tagliate anche le manichette dell’acqua. I 250 soldati italiani della caserma posta di fronte al Balkan vengono lasciati tranquillamente ad assistere dalle loro finestre.

I fascisti ostacolarono anche il tentativo dei pompieri di salvare con il telo un farmacista e la moglie che rimasti intrappolati nel loro appartamento tentavano di salvarsi buttandosi da una finestra. Si salverà solo la moglie, il farmacista si sfracellò al suolo.

Nella stessa giornata, o secondo alcuni il giorno dopo, sempre colonne di squadristi attaccarono e incendiarono il Nàrodni Dom di Pola, la sede del giornale «Il Proletario» sempre di Pola e la casa editrice slava di Pisino.

Trieste, 9 settembre 1920

Il clima si fece sempre più infuocato e il 9 settembre del ’20 ci furono gravi scontri tra operai comunisti e fascisti nel quartire San Giacomo di Trieste.

Così scrive lo storico Lucio Fabi : “Un fatto – un traino di cavalli imbizzarriti secondo la ricostruzione ufficiale, una provocazione per i rivoltosi – scatenò la folla contro i carabinieri, che si difesero aprendo il fuoco. Molti civili tirarono fuori armi da guerra ed il quartiere divenne il centro di un conflitto a fuoco in cui manovrarono militarmente dimostranti, carabinieri, agenti di pubblica sicurezza e reparti dell’esercito. Gli scontri cessarono soltanto molte ore più tardi, dopo che ingenti reparti della brigata Sassari sbarrarono le vie d’accesso al quartiere con le mitragliatrici e fecero avanzare alcuni cannoni campali e due autoblinde. Vi furono barricate, qualche granata da 57 mm., colpi di fucile dalle finestre. Numerosissimi feriti ripararono sotto le navate della vicina chiesa di San Giacomo, diventata punto di soccorso neutrale. Sul campo rimasero alcuni dimostranti ed alcune guardie. Nello stesso giorno, un poliziotto venne riconosciuto su di un autobus e linciato dalla folla.”

Nel quartiere vi furono più di 600 arresti e non si parla solo di slavi: il quartiere era innanzi tutto un quartiere operaio multietnico.

La «Ribellione di San Giacomo», come fu da subito chiamato il grave fatto, dimostra l’esistenza di un’opposizione di classe con tanto di guerriglia urbana. I rispettivi nazionalismi in lotta per il controllo degli affari non erano certo in grado di occuparsi dei problemi quotidiani della forza lavoro.

La retorica irredentista si scontra con la realtà.

I soldati della Brigata Sassari partiti in guerra nel ’15 per vincere l’ultima “guerra d’indipendenza” scoprirono prima di aver combattuto in realtà la prima guerra della maturità imperialista; ora, a Trieste, nella città “redenta”, sparavano su quella stessa gente per la cui liberazione ufficialmente avevano combattuto.

Non bisogna dimenticare che tra il 23-24 maggio del 1915, nel momento in cui l’Italia entra in guerra, ci furono a Trieste episodi che a parti invertite ricordano quanto è accaduto il 13 luglio del ’20.

Il 23-24 maggio ’15 ci fu l’incendio della redazione del “Piccolo”, la devastazione della sede della Lega Nazionale e numerose violenze su esponenti e beni della comunità italiana di Trieste compiute da minoranze tedesche e slovene. Tutto ciò dimostra che il nazionalismo è sempre da avversare qualunque bandiera inalberi.

Vediamo ora che cosa accadde nei territori orientali con il fascismo al potere

La politica dello Stato italiano si basa sull’Italianizzazione forzata e in tempi rapidi degli slavi!

E’ un insieme di provvedimenti legislativi, spesso odiosi e vessatori, che ha quale obiettivo l’italianizzazione di questa area e quindi la cancellazione dell’identità slava.

Le parole d’ordine sono: assoggettamento, assimilazione, nazionalizzazione, omologazione, omogeneità etnica-linguistica, snazionalizzazione, esclusione … in nome dei “sacrosanti diritti della Nazione”.

Soprattutto dopo il delitto Matteotti e le Leggi fascistissime del 1926-27 furono chiuse tutte le organizzazioni politiche, culturali, le associazioni sportive e assistenziali slave. È abolita la stampa slava.

Sono licenziati o trasferiti in Italia i dipendenti pubblici e radiati dagli albi i professionisti sloveni.

E’ proibito parlare slavo / “Qui è proibito parlare” (sloveno a Trieste), dal romanzo di Boris Pahor.

Sotto gli Asburgo gli sloveni disponevano di tutti gli atti amministrativi nella loro lingua, oltre al tedesco e all’italiano. Ora devono mimetizzarsi.

Vediamo in rapida carrellata i provvedimenti più odiosi presi nei confronti di sloveni e croati che vivevano nelle zone di confine

– La Riforma Gentile (1923): la Riforma Gentile nei territori occupati provoca solo disastri. Infatti con le nuove leggi nelle scuole è proibito parlare slavo. L’unica lingua ufficiale nella scuola è l’italiano, malamente parlata dalle popolazioni slave.

– L’effetto di questa e di altre norme vessatorie è la regressione culturale dei giovani slavi anche perché le scuole slave sono tutte chiuse (erano 500 nel ’18) e i bambini e i giovani slavi sono obbligati ad iscriversi nelle scuole italiane. Con il ’28 non esistettero più classi con l’insegnamento dello sloveno. L’insegnamento dello sloveno è possibile solo nelle famiglie

– I maestri slavi sono tutti o quasi licenziati e al loro posto vengono assunti maestri elementari che provenivano dall’Italia.

– 1923 – italianizzazione dei nomi delle città e delle località

– 1926 – Italianizzazione dei cognomi slavi: venne chiamata “Restituzione alla forma italiana dei cognomi abusivamente alterati durante la dominazione straniera” (l’idea era che il governo austro-ungarico avesse alterato i cognomi italiani per far prevalere l’etnia slava). Era vero ma la legge italiana del ’26 non può essere giustificata contro un’analoga legge precedente

– 1928 – proibizione di imporre ai bambini nomi slavi che la stampa dell’epoca definiva “ridicoli”, “immorali”, tali da “oltraggiare l’opinione pubblica”

– Tutti questi provvedimenti vessatori provocano in Istria la nascita degli “allogeni” (1931) (chi parla un lingua diversa da quella della maggioranza), ossia gli “stranieri” nel territorio patrio, praticamente cittadini di serie b in casa loro. Non si riconosce la presenza di una minoranza nazionale da tutelare

– Un’altra misura vessatoria presa dallo Stato fascista è la repressione del clero sloveno e croato: le nuove autorità cercano di allontanare, ma anche reprimere con condanne al confino, il maggior numero possibile di sacerdoti e vescovi filoslavi per impedire alle comunità di avere punti di riferimento non solo religiosi ma anche identitari

– I religiosi slavi sono sostituiti, anche con l’avallo della Chiesa di Roma, prima e dopo il concordato del ’29, da prelati italiani che diventano strumenti della penetrazione dello Stato italiano in territori abitati da popolazioni che oppongono una resistenza silenziosa a una vera e propria occupazione militare

– Per esempio nel 1931, e quindi dopo il Concordato, sono allontanati con un provvedimento preso dal Vaticano, guidato allora da Papa Ratti, ossia Pio XI, l’arcivescovo di Gorizia, monsignor Borgia Sèdej, e nel ’36 è allontanato il vescovo di Trieste, monsignor Luigi Fogàr. Nel ’33 il nuovo vescovo di Udine proibisce l’uso dello slavo perfino nella confessione.

– Tutto questo era già stato espresso da un congresso di fascisti istriani nel ’25. Nel documento finale è scritto: “Si può pregare in Italia solo in italiano”.

Qual è il senso di tutti questi provvedimenti?

L’obiettivo del regime era quindi decapitare la classe dirigente slava (sacerdoti, uomini di cultura, professionisti, proprietari terrieri, maestri…) per impedire il radicarsi in Istria di una identità slava in competizione con quella italiana

Conseguenza di questa politica vessatoria è l’esodo slavo dall’Istria con circa 30-40mila partenti; 100mila secondo Marta Verginella (università di Lubiana).

Da notare che nonostante l’esodo massiccio non si altera durante il Ventennio lo squilibrio tra italiani e slavi: gli sloveni-croati continuano ad essere in maggioranza nonostante la manipolazione del censimento del ’21 che attenuava fortemente la presenza slava.

Bisogna dire che gli jugoslavi fecero la stessa cosa nello stesso periodo con la minoranza tedesca in Slovenia, che subì processi di snazionalizzazione: ossia violenze e intimidazioni.

Nello stesso tempo è necessario dire che alcune migliaia di dalmati italiani emigrarono a Zara, Fiume e in Istria perché nel regno dei Serbi, Croati e Sloveni c’era molta intolleranza nei confronti degli italiani.

Qual era l’unica politica che il fascismo avrebbe dovuto perseguire per creare sviluppo e consenso in Istria? Forti investimenti per modernizzare l’area istriana. In realtà in regime non aveva fondi da utilizzare in un’area economica ritenuta, al di là della retorica politica, del tutto marginale.

Per rispetto della verità storica non dobbiamo pensare che la comunità slava fu oggetto giorno dopo giorno di provvedimenti vessatori e umilianti. Poteva capitare nei villaggi più periferici dell’Istria di non avere mai a che fare con squadre fasciste e burocrati statali, soprattutto negli anni Trenta quando le spinte nazionalizzatrici vengono meno. Il fascismo era un regime conservatore che vedeva la campagna come una realtà di stabilità sociale.

Le Leggi Razziali del ’38 non coinvolgono la minoranza slovena. I matrimoni misti non vengono proibiti, anzi si cerca di favorire i matrimoni tra donne slave e membri della milizia o soldati dell’esercito. L’antislavismo è privo di connotati biologici.

In sostanza la politica del fascismo in Istria non è genocida. Trieste e l’Istria al tempo dell’occupazione titina conosceranno ben altre violenze.

Bilancio della politica fascista

Possiamo dire che i provvedimenti dello Stato italiano non raggiungono nessun obiettivo prefissato: non creano nuovi italiani, non rilanciano economicamente l’area istriana, non obbligano alla partenza minoranze consistenti di allogeni.

Il problema è che la politica del fascismo è contraddittoria tra repressione poliziesca, velleità di “bonifica etnica” con il tentativo di assimilare pacificamente gli”allogeni”.

Si può parlare quindi di fallimento del progetto fascista volto ad italianizzare il territorio istriano. Però nasce con gli anni l’equivalenza “italiano-fascista-ricco possidente” con il rifiuto di tutto quello che è italiano.

Si prepara la stagione delle foibe con alcune migliaia di vittime prevalentemente italiane e successivamente l’esodo italiano dai territori orientali (circa 300.000 persone).

Conclusioni

Per concludere direi che bisognerebbe mettere sotto accusa in chiave storiografica i due nazionalismi, quello italiano e quello jugoslavo. Sono stati i nazionalismi (fascista e jugoslavo) a erodere alle radici quel bell’esempio di convivenza di diverse etnie e culture che è stata l’Istria con Trieste per alcuni secoli all’interno dell’impero austro-ungarico e prima ancora nei domini veneziani.

Alla fine avremo identità stracciate, comunità lacerate e la scomparsa di un mondo rappresentato da diverse culture che convivevano pacificamente (quella italiana, slava, tedesca), un mondo che tanto avrebbe da insegnare all’Europa sovranista e intollerante di oggi.

Ancora “Italiani brava gente?”

Per finire, la restituzione alla comunità slovena del Narodni Dom è sicuramente una bella cosa. Peccato che sia accaduta cento anni dopo. E se non ci fosse stato il centenario?

La restituzione dell’edificio e del conseguente mea culpa avviene però con la contemporanea visita di Mattarella e Pahor alla foiba di Basovizza nel segno del “ciascuno ha i propri scheletri negli armadi”. A una violenza italiana, un’altra slava per rendere meno grave la prima o la seconda violenza.

L’ ”Operazione Narodni Dom” è a nostro parere nella direzione degli “Italiani brava gente”, tormentone politico-storiografico che tiene banco in Italia da decenni, almeno dalla fine della II guerra mondiale.

Se veramente l’Italia è pronta a riconoscere i propri crimini di guerra, a quando una piena assunzione di responsabilità per quanto è stato fatto in Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia, Grecia, Slovenia, Montenegro, Croazia, Albania, Unione Sovietica … durante il secondo conflitto mondiale? Nel 2045?