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Candido Poli: tredici mesi nel lager di Dachau

UNA TESTIMONIANZA DI DACHAU

Candido Poli: tredici mesi nel lager

“Ogni notte torno nel campo di sterminio”

Riportiamo volentieri la testimonianza del signor Candido Poli. Legnanese, partigiano, arrestato per la sua attività antifascista, Poli ha rischiato più volte la vita per affermare ideali di libertà e giustizia.

“Il primo impatto con il campo di sterminio fu di terrore e umiliazione assoluti. Insieme a molti altri, uomini e donne, sono stato denudato. Ci hanno tenuti per cinque – sei ore completamente nudi, all’aperto.

La temperatura era molto rigida, anche se era aprile. Ma il freddo fisico era niente rispetto al gelo che ci entrò nel cuore.

Sapevamo di essere considerati dai tedeschi come puri attrezzi, ma in quelle ore ci siamo sentiti, anche dentro di noi, delle “cose“ del tutto prive di dignità.

Venimmo rasati completamente in ogni parte del corpo e cosparsi di disinfettanti, come quando si cosparge di insetticida una pianta.

Poi ci condussero nelle baracche. Le brandine erano sistemate a castello. A me assegnarono la più bassa; a un uomo anziano, che si trovava accanto a me, la più alta. Era un generale cecoslovacco.

Quando il vigilante, spente le luci, sbarrò la porta alla baracca e se ne andò, vedendo quell’anziano signore che stentava a muoversi, con segni e gesti (non parlavo bene nemmeno l’ italiano, figuriamoci la sua lingua) gli feci capire che sarei salito sulla sua brandina, mentre lui poteva coricarsi sulla mia. Mi ringraziò con un sorriso e ci coricammo.

Al mattino, quando il vigilante tornò e accese le luci, notò subito il cambio di branda e ci investì con urla e calci; ci condusse all’aperto, chiamò rinforzi e si scatenò su di noi un inferno. Ci massacrarono a furia di bastonate.

Se mi dessero oggi anche solo la metà delle legnate che presi quel mattino sono sicuro che non avrei la forza di rialzarmi. Ma allora avevo vent’anni e ce l’ho fatta.

Il generale morì subito dopo e non ebbi neanche il tempo di domandargli come si chiamava. Tutto per un piccolo gesto di solidarietà. Là dentro non erano consentiti gesti di umanità. Dovevamo dimenticare di essere uomini. Era considerato delitto di alto tradimento essere gentili e molti perdettero la vita per un gesto del genere.

Eppure, in quell’ambiente di condannati a morte, c’ era un oceano di umanità… Sono certo, ora, che molti uomini sconosciuti nella mia baracca, nelle varie baracche che mi assegnarono in seguito, si sono sacrificati affinché io potessi sopravvivere…

Sono uno degli italiani che ha passato il periodo più lungo in un campo di sterminio… La vita media di un internato, tenendo conto delle esecuzioni sommarie che gli aguzzini facevano, a volte solo per divertirsi, come si ammazza il tempo giocando a carte, non superava i novanta giorni. Mediamente si crepava prima dei novanta giorni.

Io sono stato dentro tredici mesi… Molte volte mi sono tormentato nel chiedermi chi devo ringraziare e come, per questa mia sopravvivenza.

Dopo quell’uragano di bastonate mi trasferirono in un’altra baracca, ma da quel giorno la piccola gentilezza fatta al generale cecoslovacco mi seguì come un alone ovunque andassi.

A volte mi sembrava di sentir bisbigliare dietro le spalle: “E’ quello che la prima notte fu gentile con il vecchio generale…”

Dopo quattro mesi che ero lì, cominciarono a chiamarmi “Matusalemme”, perché avevo superato il massimo di resistenza nel campo. Avevo ventuno anni e mi chiamavano tutti “Matusalemme”…  Ero il più vecchio internato di Dachau.

Dopo cinque mesi, quando arrivava l’ora del rancio, e correvano tutti a mettersi in fila, i miei compagni di baracca mi respingevano, cacciandomi con spintoni e gomitate all’ultimo posto…

Dentro di me avevo una gran rabbia, ma non potevo fare niente.

Ma perché ce l’hanno con me? Mi chiedevo. Non li conoscevo nemmeno… Erano condannati come me, di tutte le nazionalità: russi, jugoslavi, australiani, americani… perfino tedeschi e austriaci.

Non capivo perché ce l’ avessero con me. L’ho compreso più tardi.

Nel fondo del pentolone rimaneva sempre la parte più solida della zuppa, la più sostanziosa, e la riservavano a me, che per loro ero diventato un simbolo… l’emblema della vita…

Loro non ce l’avrebbero fatta, ma io dovevo farcela… Ero il simbolo della vita in quel luogo di morte.

Nella fame che ci rodeva i visceri come il becco di un avvoltoio, quegli uomini sconosciuti si sacrificavano per me, mi proteggevano come tante madri, perché io riuscissi a portare fuori da quell’inferno un briciolo della loro speranza per l’umanità!

Così ho potuto riportare a Legnano un brandello di quella storia atroce e umanissima… La speranza nella vita, la speranza che qualcuno potesse continuare a vivere dopo la loro morte. Io ero quella speranza… e per questo facevano finta di maltrattarmi…

Sapete cos’ è la fame? Si fa presto a dire fame! Noi la conoscevamo. Faceva parte di noi stessi, la fame!

Quegli uomini che non conoscevo, che non mi conoscevano, si toglievano di bocca un mezzo boccone ciascuno per darlo a me… C’era questa solidarietà nel campo di sterminio. E non solo questa!

Negli ultimi tempi della prigionia, quando sentivamo già i cannoni alleati che si avvicinavano e io ero stremato, mi reggevano in piedi.

Era già dal febbraio del ’45 che stentavo a camminare. Quando si usciva per raggiungere il cantiere di lavoro inquadrati in file di sei o sette, mi mettevano in mezzo e mi reggevano perché non cadessi. Se cadevi per terra eri spacciato. O ti sbranavano i cani, compagni inseparabili dei guardiani SS o ti portavano al “lazzaretto” dove rimanevi in attesa che giungesse la morte.

Finché hanno potuto mi hanno sorretto.

Qualcuno pagò anche per questo: proprio due giorni prima della Liberazione, le SS se ne accorsero. Pagarono con la vita uomini che non conoscevo…

Sono stato portato al “Lazzaretto”, ma non feci in tempo a morire.

Due giorni dopo gli alleati entrarono nel campo e mi portarono nell’ospedale da campo americano.

Quante vite è costata la mia vita? E perché lo fecero?

Solo perché ero diventato il simbolo della loro speranza! Non chiedetemi altro. Per me i tredici mesi passati nel campo di sterminio sono racchiusi in questo ricordo. Il resto ormai non conta: fame, freddo, umiliazione, morte… la stupida ferocia delle SS… tutto scompare alla luce di questo ricordo.

Lì ho trovato la porzione più calda e viva del cuore umano… quel qualcosa che portiamo in noi, spesso senza rendercene conto, e che è infinitamente più tenace della morte stessa”.

Candido Poli

dal libro “Viaggio in un mondo fuori dal mondo” di Giancarlo Restelli, 2005