La Shoah dei bambini
L’incontro di oggi è dedicato a uno dei temi più difficili e al tempo stesso orribili legati al Giorno della Memoria, ossia al destino dei bambini ebrei nella Shoah.
Vorrei iniziare con le parole di uno dei nostri migliori storici, Bruno Maida (Università di Torino), il quale definisce un ossimoro l’accostamento di Auschwitz ai bambini.
Che cos’è un ossimoro? È l’unione di due parole che non dovrebbero stare insieme, come “silenzio eloquente”, “caos calmo”, “lucida follia”. Ma stando insieme possiamo capire molto di più.
Scrive Majda: “Accostare la parola bambini a quella di Auschwitz significa celebrare con ogni probabilità il più grande esempio di ossimoro storico, la più evidente contraddizione in termini della storia, il più grave insulto alla nostra stessa società umana. Ma, al tempo stesso, nessun altro mezzo se non quello dei bambini ci può aiutare a comprendere la vera essenza di Auschwitz”.
Il destino di bambini ad Auschwitz era un assenza di destino (“Essere senza destino”, Imre Kertesz), ossia essere uccisi subito l’arrivo nelle camere a gas (senza neppure essere immatricolati) perché giudicati inutili per lo sforzo bellico tedesco in vista della vittoria finale.
La regola ad Auschwitz era molto semplice: fino ai 14 direttamente in gas (oppure usati per esperimenti medici); dai 40 anni in su ancora in gas perché troppo vecchi.
Solo la fascia tra i 15-16 e i 40 anni entrava come manovalanza generica ad Auschwitz per poi lavorare nelle fabbriche belliche tutt’intorno al lager oppure per lavori di costruzione nel lager. In sostanza una condanna a morte rimandata di poche settimane o mesi.
I numeri di Auschwitz
Le cifre sono impressionanti. Auschwitz ebbe 1.300.000 deportati (1.100.000 erano ebrei), tra di loro 232mila bambini e adolescenti, di cui 216mila ebrei (il 20%) e 11mila Zingari (Sinti e Rom). Poi numeri minori di bambini polacchi, russi e dell’est europeo.
Dal lager di Auschwitz furono liberati poco più di 600 bambini e adolescenti con meno di 17 anni. Erano prevalentemente ebrei. 776 i bambini ebrei italiani deportati, 16 sopravvissuti.
** Video Bambini Auschwitz **
Ho scelto di raccontare alcune singole storie di bambini e adolescenti perché forse solo le storie singole ci sanno dare il senso di ciò che è accaduto.
Le Leggi Razziali / Liliana Segre
Liliana Segre nasce a Milano nel 1929 in una famiglia ebraica laica nella quale non c’era mai stata una vera e propria riflessione sull’essere ebrei. La stessa Liliana non sapeva nulla delle proprie origini culturali e religiose.
Per molti ebrei italiani le Leggi Razziali del ’38 rappresentano il primo momento di scoperta della propria identità (potremmo fare anche il nome di Primo Levi).
Fino
a quel momento essere e sentirsi italiani bastava.
Le
Leggi razziali furono per moltissimi bambini e adolescenti ebrei una
vera e propria discesa verso regioni oscure dove dominavano
l’indifferenza o peggio la cattiveria degli uomini. Con la
differenza che gli adulti potevano tentare di capire che cosa stava
accadendo mentre i bambini non avevano strumenti per decodificare una
nuova realtà per loro incomprensibile.
Le Leggi Razziali
Le Leggi Razziali nella scuola entrarono in vigore all’inizio dell’anno scolastico 1938-39, in particolare ai primi di ottobre.
Dopo pochissimi giorni di scuola Liliana dovette tornare a casa perché una mattina la maestra le disse: “Tu Segre non puoi rimanere qui con noi”. Il bidello l’accompagnò all’uscita della scuola e dovette tornare a casa da sola. Aveva otto anni e aveva appena iniziato il terzo anno delle elementari.
Fino allo scoppio della guerra Liliana vive mesi nei quali sente intorno a sé l’alito freddo dell’indifferenza della gente che prima era amica di famiglia e ora non più e delle bambine che prima giocavano con lei e ora preferivano far finta di non vederla.
- Lettura, pp. 20-21 / da “Vivevamo immersi nella zona grigia …
ad… amici indimenticabili”
Per Castellanza
Scoppiò poi la guerra e la famiglia sfollò a Inverigo in Brianza e in questa località dovette nascondersi dopo l’8 settembre del ’43 quando i nazisti anche in Italia attuarono una vera e propria caccia all’uomo.
C’è un momento particolarmente importante nella storia di Liliana Segre e fa riferimento a Castellanza. L’ultima tappa prima di tentare inutilmente il passaggio in Svizzera è Castellanza.
** La signora Wilma Minotti Cerini ha fatto una ricerca
su questo momento della vita di Liliana Segre e del padre **
** Vediamo altre storie di bambini ebrei. / La morte sui carri bestiame / Emilia Levi
Emilia Levi è una bambina di tre anni caricata con i genitori sullo stesso treno nel quale “viaggia” primo Levi verso Auschwitz. Il convoglio parte da Fossoli nel febbraio del ’44.
Dopo cinque giorni di viaggio estenuante il treno arriva ad Auschwitz. E’ il momento della selezione sulla Judenrampe di Birkenau, quando si decide per la vita e per la morte. Per una bambina ebrea di tre anni nel momento della selezione c’era solo la morte in una camera a gas.
Racconta Primo Levi in “Se questo è un uomo”:
2) “Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte.
Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla”.
Ghetto di Roma
Ricordo che nella razzia del ghetto di Roma (16 ottobre del ’43) dei 1023 ebrei deportati da Roma ad Auschwitz (arrivati il 23 ottobre) 296 erano bambini e adolescenti (1 su 3). Ben 193 avevano meno di 10 anni e 20 di loro avevano pochi mesi. Nessuno di loro tornò. Tornarono solo 17 persone e tutte erano adulte.
Sissel Vogelman / foto di Sissel
La storia di Sissel è la storia di una bambina italiana di Firenze a cui fu strappata la vita a otto anni. Di lei sappiamo che era una bambina intelligente, piena di vita e fantasia, come tante altre.
Sissel era figlia di Schulim Vogelmann e di Anna Disegni, insegnante. Viveva con i genitori a Firenze. Fu arrestata insieme al padre e alla madre il 20 dicembre 1943 a Sondrio, mentre tentavano di rifugiarsi in Svizzera. Venne dapprima detenuta con i genitori in un campo d’internamento nei pressi di Firenze e poi nel Carcere di San Vittore . Da qui, il 30 gennaio 1944 fu caricata insieme ai genitori sul convoglio numero 6 partito dal binario 21 della Stazione di Milano (lo stesso convoglio di Liliana Segre) e deportata ad Auschwitz, dove morì in una camera a gas a 8 anni, il giorno stesso del suo arrivo, il 6 febbraio 1944. Con lei morì anche la madre.
Il padre fu l’unico a salvarsi della sua famiglia. Dopo il ritorno a casa si risposò e nacque Daniel, il fratello di Sissel (fondatore della Casa editrice Giuntina, specializzata nella pubblicazione di libri di argomento ebraico).
Daniel non conobbe mai Sissel ma la sua immagine è sempre presente in lui. A lei Daniel dedicò cinque brevissime poesie in un tentativo di dialogo capace di superare il tempo e la morte.
3) CINQUE PICCOLE POESIE PER SISSEL
1) Cara sorellina, tu sei stata uccisa in un campo di concentramento tanti anni fa.
Oggi io ti dedico queste cinque piccole poesie.
2) Come non sperare nell’immortalità dell’anima? Potrei incontrare finalmente la mia sorellina Sissel,
volata in cielo prima che io nascessi.
Mi verrebbe incontro sorridendo e mi direbbe dolcemente: “Ah, tu sei Daniel”.
3) Muor giovane colui che al cielo è caro / Menandro & Leopardi
Dovevi essere davvero cara a Dio se ti ha voluto così presto con sé.
Ma allora dimmi, tu che forse sai tutto: noi, non gli siamo cari?
4) Promettimi che mi darai la mano il giorno che arriverò da te.
Perché, sai, un po’ di paura mi è rimasta…
5) Ora ti saluto, sorellina. Aiutami a vivere, se puoi. E anche a morire.
Come ti ho già detto, spero d’incontrarti un giorno. E immagino che sarò molto emozionato.
Un bambino del lager / Hurbinek
Foto bambini di Auschwitz
Ora leggeremo una testimonianza di Primo Levi dal romanzo “La tregua” la quale ci porta nel campo di concentramento di Auschwitz.
Ci
parla di un bambino, Hurbinek, “figlio
della morte”,
paralizzato e muto. Ma ci racconta anche della delicata dedizione di
un ragazzo di quindici anni, Henek,
che attraverso le cure quotidiane e un tentativo di comunicazione
costante, porta Hurbinek alle soglie del miracolo: a pronunciare una
prima parola articolata.
Il campo di Auschwitz sarà
occupato dalle truppe sovietiche il 27 gennaio 1945, ma Hurbinek
non sopravviverà a lungo a questo evento: morirà “libero ma
non redento”, i primi di marzo.
4)
“Hurbinek
era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz.
Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva
parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato
assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato
con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni
tanto emetteva.
Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le
gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel
viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di
richiesta, di
asserzione,
della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo.
La
parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il
bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva:
era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice,
che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di
pena.
Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un
robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava
accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno
più che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria
convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek
avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche,
troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di
baci, ma
sfuggivano la sua intimità.
Henek
invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola
sfinge, immune
alla potenza triste che ne emanava;
gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con
mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in
ungherese, con voce lenta e paziente.
Dopo una settimana, Henek
annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek
«diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola
difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo».
Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di
Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre
esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola
articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse,
variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un
nome.
Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti
ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio,
ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue
d’Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta.
Hurbinek,
che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai
visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino
all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli
uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il
senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col
tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo
1945, libero
ma non redento.
Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole”.
Sergio De Simone e i bambini della scuola di Bullenhuser Dam di Amburgo
Un’altra storia dolorosa è quella del bambino Sergio De Simone, ucciso ad Amburgo nell’aprile del 45. Aveva otto anni.
Sergio fu arrestato dalle SS insieme alla madre e le due cugine Andra e Tatiana a Fiume, allora città italiana. Era nel marzo del ’44.
Sergio in realtà era nato a Napoli nel ’37. Il padre era napoletano (ufficiale di marina) mentre la madre era ebrea fiumana. Con la guerra e i bombardamenti su Napoli la madre decise di raggiungere la sorella a Fiume (agosto del ’43).
Nel marzo del ’44 ci fu l’irruzione di un reparto di SS nella loro casa di Fiume e i tre bambini e le rispettive madri furono deportati ad Auschwitz.
Andra, Tatiana e Sergio non furono uccisi all’arrivo per utilizzarli come cavie per esperimenti medici (sembravano gemelli). In particolare quelli condotti dal medico SS Kurt Heissmeyer sulla tubercolosi.
Si trattava in sostanza di inoculare a 20 bambini prescelti e sani, tra cui Sergio, i bacilli della tubercolosi (facendoli ammalare, quindi) in attesa che il suo vaccino da lui sperimentato potesse agire su di loro.
Non fu così: tutti e venti si ammalarono gravemente e quando gli alleati erano vicini ad Amburgo giunse da Berlino l’ordine di ucciderli.
Fotografie dei bambini
Ascoltiamo la storia di Sergio e degli altri 19 bambini ebrei raccontata dal fratello di Sergio.
“Chi vuol vedere la mamma, faccia un passo in avanti”. E’ incredibile ma questa frase fu pronunciata dal dottor Mengele per evitare, probabilmente, scene di panico o momenti di resistenza (quindi perdita di tempo) tra i bambini che dovevano essere affidati ad Heissmeyer per i suoi esperimenti.
Tatiana e Andra non fecero questo maledetto passo in avanti (sollecitati in questo da una Kapò che probabilmente si era affezionata a loro). Sergio invece fece il passo in avanti. Non poteva capire quale inganno si nascondeva dietro queste semplici parole.
Il porrajmos dei bambini sinti tedeschi
Non dobbiamo dimenticare che accanto ai bambini ebrei anche i bambini zingari tedeschi erano utilizzati per esperimenti medici oppure alla morte con il gas.
Infatti c’è una parola che è l’equivalente di Shoah ed è Porrajmos, che nella lingua sinti indica la stessa cosa: il “divoramento”, il genocidio dei sinti tedeschi ad Auschwitz e in altri lager.
Ad Auschwitz vennero internati circa 22mila zingari dell’etnia sinti. Erano tutti quelli che vivevano in Germania negli anni trenta. Pochissimi sopravvissero.
Video “39 bambini zingari” deportati
Baracca n. 16 del Campo femminile di Birkenau (Bia, bambini polacchi)
Finora abbiamo parlato solo di storia, di bambini ebrei, polacchi, zingari.., uccisi nelle camere a gas o lasciati morire di fame, ma non dobbiamo pensare che tutto ciò non si ripresenti nel mondo in altre forme.
Uccidere un bambino in una camera a gas oppure condannarlo a morte per fame o lavoro perché ha avuto la sfortuna di nascere in una zona poverissima del mondo, secondo me c’è una differenza di metodo ma non di sostanza.
Così come ridurre allo sfinimento un bambino ebreo ad Auschwitz o farlo lavorare come schiavo in una miniera di litio di Cile, da cui si ricavano le batterie dei nostri smartphone e delle auto elettriche, non c’è differenza.
Intervento Bandera
Terminare con Ragazza polacca / 14 anni / yt
- Elie Wiesel / arrivo ad Auschwitz / lettura
- Lossa / T4
- Bogdan Bartnikowski, “Infanzia dietro il filo spinato”
- B. Majda in Enciclopedia della Shoah
Bambini ebrei
Fino al ’44 rararmente erano selezionati per il lavoro. Dal ’44 un numero crescente di bambini-adolescenti di 13-14 anni fu messo a lavorare come gli adulti. Altri vennero selezionati per Mengele.
Tra il settembre ’43 e il maggio ’44 arrivarono parecchi bambini da Terezin. Vennero collocati con i genitori in un apposito spazio. L’obiettivo era la propaganda, ossia la presunta “evacuazione ad est” degli ebrei. Vennero tutti sterminati nel luglio del ’44.
Bambini zingari
Durante 17 mesi vennero collocati in un apposito settore del cmpo (BIIe). 11mila bambini a Birkenau, di cui 9.500 erano minori di 15 anni. 378 nacquero nel campo. Nell’estate del ’43 venne inaugurato il Kindergarten (come nel campo per famiglie degli ebrei di Terezin) con asilo nido, scuola materna, parco giochi ma nello stesso tempo Mengele prelevava i bambini zingari come cavie per i suoi esperimenti (i gemelli soprattutto). Gli ultimi 3mila rimasti vennero portati alle camere a gas il 2 agosto del ‘44
Block 11
Nel famigerato Blocco della Morte la Gestapo condannò a morte anche adolescenti polacchi respondabili di reati minori (contrabbando, piccoli furti nel lager). Le secuzioni avvenivano davanti al Muro ndella Morte nel cortile tra il Block10 e l’11.
Bambini italiani
Dal trasporto del 23 ottobre ’43 da Roma su 1023 dportati 296 sono bambini e adolescenti al di sotto dei 17 anni. Ben 193 avevano meno di 10 anni e 20 di loro solo alcuni mesi
Ebrei ungheresi
Su 438mila ebrei portati ad Auschwitz 90mila rano bambini e adolescenti (20%)
Bambini polacchi
Arrivarono come prigionieri politici con i loro genitori. I primi arrivano nell’estete del ’40. Con l’insurrezione di Varsavia del 1 agosto ’44 arrivano molti bambini, circa 1500
Bambini russi
Tra il ’43 e il ’44 furono circa 1000 arrestati con le loro famiglie soprattutto in Bielorussia e Ucraina (azioni contro i partigiani). In totale circa 850.
Bambini nati nel campo
I bambini ebrei nati nel campo erano immediatamente uccisi. Se erano non ebrei erano registrati (erano tatuati con il numero di matricola sulla coscia in genere). Furono circa 700 i bambini nati ad A. Birkenau (compresi i bambini zingari)
I bambini del Lebensborn
Erano bambini sottratti alle madri polacche o russe perché ritenuti in possesso di tratti somatici della “razza nordica” per la loro germanizzazione
Baracca n. 16 del Campo femminile di Birkenau (Bia, bambini polacchi)
Sono stati conservati alcuni disegni fatti da detenuti del campo per alleviare le loro sofferenze
Le conseguenze per i sopravvissuti sul piano fisico e mentale.