Numeri e pietre
Mauthausen é una ridente cittadina sul Danubio, ma per noi il suo nome ha il suono duro del granito.
Lo stesso granito di cui é fatta la fortezza cupa e solitaria che si erge sopra una delle morbide colline austriache; lo stesso granito cavato da decine di migliaia di deportati, tra essi 6615 italiani; lo stesso granito, pesante e inerte, che ha contribuito al massacro di più della metà dei prigionieri, periti sotto il giogo del lavoro o delle marce forzate verso l’ovest.
Il nome di Mauthausen é tutt’uno con l’immagine di un campo dalla struttura ben conservata; le sue mura imponenti, la simmetria dei suoi spazi definiti e delle sue baracche, evocano in chi vi si addentra la visione di una fabbrica che sembri destinata a lasciare una memoria perenne di sé e della sua burocratica efficienza.
Avventurarsi nei suoi spazi significa fare i conti con la storia di un popolo di schiavi, finiti – per ragioni diverse – in un luogo da cui era difficile uscire in piedi; una prigione dove il delirio di grandezza di chi voleva abbellire le cittadine austriache con monumenti imperituri, si é presto intrecciato con le “necessità” della guerra e il lavoro è diventato fin da subito inevitabile strumento di distruzione.
Ma a Mauthausen, il luogo che più di ogni altro percuote il pellegrino della Memoria é la scala della morte.
E’ scendendo quei 186 gradini che si materializza la scienza della tortura, fatta di corvée inutili, di ordini insensati, di barbarie che disumanizzano sia le vittime che i carnefici.
E’ per queste ragioni che varcare le mura possenti di Mauthausen, per uscire dal campo, procura al visitatore un inevitabile senso di sollievo, che lo accompagna mentre torna in uno spazio libero, aperto sull’orizzonte.
Per un momento si pensa e ci si illude che i binari della storia tornino a correre paralleli, come quelli che arrivano all’imbocco della galleria di Ebensee: vicini ma senza toccarsi, da un lato il passato, dall’altro il presente, da una parte la schiavitù insensata, dall’altra la libertà guadagnata, da una parte il nazismo, dall’altra la nostra democrazia.
Ma stando fuori dalla fortezza-prigione , un ultimo sguardo va a ciò che é dentro, al di là dal muro di Mauthausen: dentro il campo sventola una bandiera blu dell’Europa, il filo spinato sembra – assurdamente – proteggerla, e allora il pensiero va all’oggi, al qui ed ora.
E’ proprio nei giorni del nostro viaggio nei lager che giungono le notizie della possibile costruzione di un muro al Brennero, e da maggio altre notizie come quella si sono rincorse fino ad oggi, dando forma ad un oscuro timore, quello che venga disatteso l’auspicio di un’Europa capace di resistere agli egoismi nazionali.
Riflettiamo e ci interroghiamo se non sia stato già tradito il giuramento pronunciato sul piazzale dell’appello di Mauthausen il 16 maggio del ’45, quando – il giorno del loro rimpatrio – i deportati liberati chiedevano di essere aiutati a mantenere la memoria della solidarietà internazionale, chiedevano che non venisse dispersa la consapevolezza maturata nel campo del valore della fratellanza tra i popoli.
Accompagnati dai dubbi proseguiamo il pellegrinaggio, un viaggio la cui memoria si ancora a numeri e pietre. Non solo i blocchi monumentali del granito di Mauthausen ci interpellano, ma anche i sassi del Danubio: sono quelli raccolti ad uno uno da bambini delle scuole elementari per un’istallazione a Castell’Harteim: quelle piccole pietre ci ricordano non solo le 30.000 vittime di orrorifiche sperimentazioni consumatesi in quel luogo, ma ci rammentano che la nostra libertà presente è fragile e precaria, non dura come il granito; quei sassi sono lì per ricordarci che la pace non è mai nata dai muri, ma dal loro crollo; quelle migliaia di ciotoli irregolari sono lì per dirci che la memoria nasce dallo sforzo apparentemente insignificante di ciascuno di non dimenticare il passato.
Gabriella Oldrini (Istituto Bernocchi, Legnano)