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Zoran Music, “Non siamo gli ultimi”

Zoran Music, “Non siamo gli ultimi”

una testimonianza dall’inferno del lager

“I disegni di Dachau: un prezioso documento salvato e presentato

da un grande artista. E poi quella era una testimonianza dei Campi per politici,

dei “Triangoli rossi”, Campi con più di tre milioni di morti”

Boris Pahor

Corriere della Sera, 10 novembre 2011

Anton Zoran Music nacque in un sobborgo di Gorizia nel 1909 e quindi nacque cittadino austro-ungarico.

All’inizio della Grande guerra italiana contro l’impero di Francesco Giuseppe (maggio 1915) la famiglia di Zoran lasciò Gorizia per andare a vivere a Zagabria.

Il padre fu sicuramente lungimirante: intuiva che la guerra avrebbe alterato profondamente i delicati rapporti tra le diverse etnie della Venezia Giulia: italiani, slavi e tedeschi. Infatti finita la guerra con la vittoria italiana il nostro Paese acquisì la Venezia Giulia e l’Istria e cominciarono le angherie nei confronti della popolazione slava perché i nuovi territori dovevano essere italianizzati rapidamente senza alcuna considerazione per le peculiarità storico-culturali delle popolazioni appena integrate nello Stato italiano.

Il regime fascista accentuò la spinta nazionalizzatrice ai danni degli slavi con una politica tracotante che lasciò gravi ferite finita la Seconda guerra mondiale innescando la tragedia delle foibe.

Ma tutto questo non coinvolse il giovane Zoran che negli anni Trenta stava maturando la passione per la pittura, in particolare per la grande pittura spagnola di Goya.

Quando inizia la Seconda guerra mondiale Zoran è in Dalmazia affascinato dai suoi paesaggi solitari. Nel ’43 compie il primo viaggio a Venezia e prende contatti con la Resistenza italiana.

Durante un secondo soggiorno a Venezia nel ’44 viene arrestato dalla Gestapo e portato a Trieste. Qui viene imprigionato per quattro settimane nella Risiera di San Sabba in una strettissima cella nel sottosuolo, con l’acqua che gli arriva alle caviglie. Viene interrogato e torturato più volte.

Messo davanti alla scelta di entrare nei reparti istriani delle S.S. o essere deportato in Germania, Music preferisce il lager. Alla fine di novembre 1944 viene registrato come prigioniero numero 128231 di Dachau.

Dachau, alle porte di Monaco di Baviera, diventa per Music un lungo calvario che si concluderà solo con la liberazione del lager ad opera degli americani alla fine dell’aprile ‘45.

Ha potuto esprimere l’esperienza del lager nei disegni eseguiti in condizioni disperate in quei lunghi mesi. L’orrore quotidiano era tale che il suo solo pensiero era di poter lasciare una traccia di quello che vedeva intorno a sè. Attraverso questa testimonianza è riuscito a sopravvivere alla fame, alle malattie, alla solitudine.

Di duecento disegni elaborati nel lager è riuscito a salvarne trentacinque. I disegni sono stati realizzati con rischio estremo, in condizioni difficilmente immaginabili: inchiostro nascosto e allungato con acqua per farlo durare, foglietti piegati e nascosti sotto la camicia; carta e penne sottratte ai laboratori dove lavorava con gli altri prigionieri.

Se le guardie di Dachau avessero scoperto i disegni, Music sarebbe stato ucciso immediatamente. Nulla doveva trapelare di quanto accadeva all’interno.

Ridotto quasi come i cadaveri che invadevano oramai ogni spazio, solo con la pittura ha potuto trovare la forza di continuare a vivere.

Finita la guerra tornò in Jugoslavia ma ebbe difficoltà con il regime di Tito che rimproverava a Music di non aver fatto parte della cellula comunista di Dachau. Nel ’46 è costretto a lasciare segretamente la Jugoslavia e a fare ritorno in Italia.

Sarebbe lungo ora tracciare le esperienze di Music dopo il ’46, che fanno di lui uno degli artisti più conosciuti nel panorama internazionale dell’epoca. In ogni caso la brutale esperienza di Dachau sembra ancora affiorante in lui quando dipinge i famosi cavallini della Dalmazia, i tramonti struggenti di Venezia o i solitari paesaggi dalmati.

Nel 1970 ritorna con la mente e l’opera pittorica all’esperienza concentrazionaria con la serie di dipinti “Noi siamo gli ultimi”, che gli valgono numerose mostre internazionali e riconoscimenti significativi.

Il titolo del ciclo faceva riferimento alla speranza dei sopravvissuti di Dachau e degli altri lager di avere scritto una pagina terribile di sofferenze ma in qualche modo definitiva nella storia dell’uomo:“Noi siamo gli ultimi”. Non era possibile che dopo l’era di Auschwitz l’uomo continuasse a uccidere sterminando interi popoli ed etnie.

Invece il mondo non prese coscienza di Auschwitz e continuarono genocidi e massacri in tutte le aree del mondo: Corea, Vietnam, Ruanda, ex-Jugoslavia, Cecenia, Iraq, Afghanistan…

Ecco perché Music ha titolato il ciclo di Dachau “Nous ne sommes pas le derniers” (“Noi non siamo gli ultimi”) perché l’orrore dei campi di concentramento e il lungo inverno dei genocidi dopo il ’45 si sono ripetuti troppe volte.

I soggetti di Dachau sono due: Music vede solo cataste di morti e uomini a un passo dalla morte. A Dachau l’esperienza visiva quotidiana era questa e non altre: la morte come normalità (mucchi e carcasse di morti in attesa della cremazione) e il Muselmann, ossia il malato terminale del sistema-lager nato per sfruttare la forza lavoro dei detenuti assorbendo anche le ultime energie.

Erano così chiamati perché, vinti dalla fame e dalle fatiche, perennemente inginocchiati o buttati per terra, sembravano “arabi in preghiera” (agli occhi dei nazisti, una “razza” inferiore).

Non c’è dubbio che Music colga nel segno con la sua ossessione dei morti e dei moribondi intorno a sé.

Lo stesso Primo Levi ne “I sommersi e i salvati” fa dei Muselmanner l’essenza del lager: “La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono loro i Muselmanner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massima anonimia, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente si esita a chiamarli vivi, si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non tremano perché sono troppo stanchi per comprenderla”.

Dei Muselmanner Music ci dà una descrizione vivida e impressionante: uomini con arti che appaiono smisurati, chiusi in una disperazione senza confini, pelle e ossa dove la vita sta per andarsene in un silenzio che nessuno può accogliere, giovani ridotti a vecchi senza tempo.

Scrisse Music anni dopo:“Ancora oggi mi accompagnano gli occhi dei moribondi come centinaia di scintille pungenti; vivevo in un quotidiano paesaggio di morti, di moribondi, in apatica attesa. Stecchiti e come congelati, i morti mi fanno compagnia. A strati, una fila di teste in avanti, e sopra una fila con le gambe sporgenti”.

Si rimane attoniti e silenziosi di fronte ai corpi dilaniati dei suoi compagni. Corpi e sguardi mai dimenticati da Music, che torna con la mente e con il suo tratto leggero e rispettoso ad accennare il profilo di un orrore troppo atroce da dimenticare.

Dei morti ci dà l’orrore delle bocche semi aperte e delle pose innaturali; le occhiaie vuote e la pelle squamosa; i crani rasati e una magrezza indecente. Dei moribondi rende pienamente la loro infinita solitudine in cui non si vedono quasi mai i volti disperati nascosti da braccia ossute e da mani diventate artigli scheletrici; degli impiccati il chiaro-scuro accentua l’urlo rimasto in gola.

“Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto – continua Primo Levi – e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine che mi è familiare; un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero”.

Da queste immagini di una umanità offesa il nostro sguardo si ritrae pudicamente come di fronte ad un abominio. Troppo carichi di verosimiglianza sono i ritratti di Music.

Eppure è proprio da un lungo sguardo carico di pietà che deve nascere nel visitatore della mostra la speranza che la nostra generazione sia davvero l’ultima a vedere questo scempio che l’uomo ha fatto all’uomo.

L’esperienza di Dachau è stata vissuta anche da un nostro concittadino che molti conoscono perché per tanti anni ha fatto testimonianza dei lager in molte scuole di Legnano.

Candido Poli, partigiano, per più di un anno vive le stesse esperienze di Music a Dachau tra baracche fetide, lavoro estenuante e una terribile solitudine che lacerava l’anima.

Senza esagerare possiamo trovare un punto in comune tra Music e il nostro Poli. Soprattutto la volontà di testimoniare l’inferno del lager: Music con il suo tratto delicato e colmo di pietas, Poli con una parola sobria che mai diventa pregna di odio o risentimento.

Un messaggio che dobbiamo fare nostro.

“… i disegni di Dachau li riteneva come dei documenti e sbagliava,

perché erano sì documenti, ma di un disegnatore che era il Goya del XX secolo”

Boris Pahor

Giancarlo Restelli

Per conoscere l’esperienza di Poli a Dachau

https://restellistoria.altervista.org/pagine-di-storia/giorno-della-memoria/candido-poli-tredici-mesi-nel-lager-di-dachau/

“Noi non siamo gli ultimi”

http://www.youtube.com/watch?v=w1GGuVLxsl4

Ancora su Anton Zoran Music

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