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Lenin e il movimento operaio italiano. Capitolo secondo – Lotte politiche nel socialismo italiano negli anni precedenti la Prima guerra mondiale

Capitolo Secondo

Lotte politiche nel socialismo italiano negli anni precedenti

la Prima guerra mondiale

Lenin e il Congresso di Reggio Emilia

Il 15 luglio del 1912 Lenin sulla “Pravda” pubblicava un lungo articolo sui risultati del XIII Congresso del PSI, svoltosi a Reggio Emilia.

E’ la prima volta che il capo del movimento operaio russo scrive un articolo specifico sulle caratteristiche del socialismo italiano. In precedenza, come già sottolineato, Lenin si era più volte soffermato, ma in forma incidentale e saltuaria, sui caratteri propri del socialismo italiano, formulando alcuni giudizi di grande rilevanza teorico-politica.

Ma è solo con la fine della guerra di Libia e con il congresso di Reggio Emilia che la questione italiana e del socialismo italiano entrano più marcatamente nella sua riflessione.

Non si deve attribuire il crescente interesse di Lenin esclusivamente al maggior spazio che la stampa internazionale dedicava agli avvenimenti italiani in questo periodo; è necessario considerare che, sin dal 1911, l’attenzione di Lenin era sempre più attratta dal quadro europeo. “Prima di questo periodo – scrive Ulam – la sua attenzione era quasi esclusivamente rivolta alla Russia. Membro di un movimento internazionale, egli aveva scritto, di tanto in tanto, articoli e saggi sui problemi del socialismo all’estero. Ma ora quasi istintivamente cominciò a tenere d’occhio la più vasta scena del mondo… A partire dal 1910 avevano cominciato a moltiplicarsi i sintomi che indicavano come le grandi potenze stessero avviandosi verso lo scontro armato” (1).

La svolta a sinistra del congresso di Reggio Emilia era stata commentata in termini entusiastici da Oda Olberg, la quale pochi giorni dopo la fine del congresso, sottolineava sulla “Neue Zeit” la nuova epoca che, con i risultati finali del congresso (vittoria dei “rivoluzionari”), pareva aprirsi per il socialismo italiano: “Al congresso di Reggio Emilia il riformismo italiano ha subito la sua disfatta decisiva, e precisamente una sconfitta che significa molto di più che un essere ricacciato nella minoranza… nella grande maggioranza di voti per l’ala rivoluzionaria il partito ha tratto le conseguenze dell’esperienza di numerosi anni di egemonia riformista e di tattica riformista, ma il commento alle cifre lo hanno fornito gli stessi riformisti ed anche il partito internazionale farà bene ad esaminare questo commento e riflettervi sopra” (2).

Non c’è dubbio, come ha rilevato anche E. Ragionieri (3), che Lenin sia stato influenzato dal tono trionfalistico della Olberg, nelle sue note ai risultati dell’assise socialista. Ma mentre la Olberg (compagna di Giovanni Lerda e quindi molto vicina al dibattito interno al PSI) avrebbe dato, soltanto pochi mesi più tardi, un giudizio meno impulsivo e più realistico, rilevando la confusione ideologica e la distanza dal partito dalla prassi dell’Internazionale Socialista (4), Lenin non avrebbe mutato la sua opinione.

Forse proprio nell’ “errore di prospettiva del 1912” vi è la chiave – a parere di Cortesi – per spiegare il giudizio di Lenin sul PSI “felice eccezione” nel 1914 che doveva diventare “una regola per la III Internazionale” (5), e anche le sue valutazioni positive sull’operato di uomini come Serrati, Lazzari e persino Morgari (6). Solo durante il II congresso dell’Internazionale Comunista Lenin avrebbe riconosciuto il permanere all’interno del PSI dell’ideologia riformista e dell’opportunismo turatiano per tutto questo periodo, e la capacità trasformistica anche nei momenti più difficili.

La radice per comprendere i giudizi troppo ottimistici del capo bolscevico negli anni successivi sta quindi, scrive Cortesi, nell’impressione che, con l’espulsione dei bissolatiani, il PSI “si fosse liberato dall’opportunismo. Lenin, che pure nel 1905 aveva definito Turati ‘il Millerand italiano’, non sfuggì a questa opinione largamente diffusa” (7).

Ritornava, nello scritto del 1912, la precedente artificiosa distinzione, del 1904 e del 1908, fra le “due tendenze fondamentali del PSI: i rivoluzionari e i riformisti”, cioè la distinzione tra “ala rivoluzionaria” e “ala opportunista” che presupponeva un’effettiva radicazione della teoria e della prassi marxista in Italia.

Per Lenin i rivoluzionari italiani, già negli anni precedenti il congresso, “difendevano il carattere proletario del movimento e lottavano contro ogni manifestazione di opportunismo, cioè dello spirito di moderazione, di accomodamento con la borghesia, di rinuncia agli scopi finali (socialisti) del movimento operaio. La lotta di classe: ecco il principio fondamentale, la base delle opinioni di questa tendenza (8).

A suo parere i “rivoluzionari marxisti in Italia” (9) avevano combattuto efficacemente negli anni precedenti contro il sindacalismo di Arturo Labriola, non concedendo nulla alle tendenze anarchiche e piccolo-borghesi all’interno del PSI.

Ben più precisa è l’individuazione delle caratteristiche del riformismo italiano, di cui Lenin sottolinea l’economicismo, la tendenza a costituire alleanze stabili con i partiti di democrazia borghese, il millerandismo, la difesa della politica coloniale e, per quando riguarda i riformisti di destra, il loro passaggio definitivo all’ideologia borghese.

Lenin attribuisce il merito dell’espulsione dei “politicanti liberali-monarchici ‘operai’ del gruppo Bissolati” all’intransigenza e alla coerenza dei rivoluzionari marxisti di Reggio Emilia e in tal modo il “partito del proletariato socialista italiano, allontanando da sé i sindacalisti e i riformisti di destra, ha preso la strada giusta” (10).

Spriano, nella sua introduzione agli scritti di Lenin sull’Italia, sembra accettare questo giudizio, non rivelando le insufficienze della politica del PSI da Reggio Emilia fino al 1915: “Liberandosi di Bissolati, Bonomi, Cabrini, Podrecca, il PSI ha l’occasione di affrontare, dinanzi alle masse, il grande tema dei socialisti nei confronti della guerra, e il merito di agitarlo in senso internazionalista e classista, che sarà assai chiarificatore per determinare la futura condotta del 1914-15. A Lenin non sfugge questa scelta” (11). Anche Konig accetta, acriticamente, il giudizio di Lenin su Reggio Emilia, sottolineando la liquidazione dell’eredità del riformismo e la progressiva radicalizzazione della politica del PSI fino allo scoppio della prima guerra mondiale (12).

“Ma erano tutti rivoluzionari i maggioritari di Reggio Emilia?”, si chiede Cortesi (13), esaminando i contraddittori risultati del congresso.

Un esame degli interventi più significativi degli esponenti della sinistra e del riformismo mostra che aveva ragione Turati quando, in “Critica Sociale” del 6 luglio 1912, giudicava Reggio Emilia il congresso del “riformismo intransigente”, basato sui riformisti tradizionali e sui sostenitori di una “rivoluzione ormai fatta innocua” (14).

A parere di Cortesi i “sinistri”, tranne Mussolini, intervennero quasi esclusivamente sui problemi della disciplina e recriminando sulle violazioni del centralismo, come fece Lazzari, impoverendo un dibattito già scarso di indicazioni e di analisi.

Alcuni significativi incidenti, avvenuti durante il congresso – scrive Cortesi – dimostrano le ambiguità e le incertezze dei “rivoluzionari” (15).

Lerda, uno dei redattori de “La Soffitta”, polemizzò aspramente contro un o.d.g. antimassonico, proclamandosi massone da trent’anni. Decise di dare le dimissioni dal PSI e abbandonò il congresso, ma i congressisti decisero di non prendere in considerazione queste dimissioni (Lerda ritornò infatti nel partito con una lettera pubblicata sull’ “Avanti!” del 18 luglio ’12). Le rivalità tra una tendenza più intransigente capeggiata da Ciccotti e da Mussolini, e una tendenza più moderata guidata da Lerda e Serrati, già durante il congresso, aveva reso difficili i rapporti tra i dirigenti della frazione.

Grande scalpore suscitarono invece, la ridondante oratoria e le pose gladiatorie di Mussolini, che però mascheravano una sostanziale povertà di argomentazioni e di analisi.

Era nel vero Treves quando, il 6 luglio, alla vigilia dell’apertura del congresso emiliano, su “Critica Sociale” sottolineava il sostrato idealistico bergsoniano-nietzschiano dell’idealismo mussoliniano: “Il Mussolini al di sopra della classi mette l’ ‘Idea’… esprime limpidamente l’irriducibilità dell’avversione dell’idealismo rivoluzionario alle riforme” (16).

Merito di Mussolini, e in questo sta uno dei pochi contributi che ha dato al socialismo italiano, la proposta dell’espulsione dei deputati socialriformisti.

Treves, pochi giorni prima dell’apertura del congresso, sottolineava che i rivoluzionari erano in gran parte evoluzionisti e riformisti, tranne una “esigua minoranza di catastrofici”, e la massa dei seguaci differiva dalla prassi riformistica solo per “semplice questione di metodo”. E poi profeticamente scriveva: “Quale sia la parte che vincerà, vincerà il riformismo” (17).

Le insufficienze teoriche e il vuoto verbalismo erano le caratteristiche precipue anche de “La Soffitta”, nata paradossalmente proprio per difendere l’integrità del pensiero marxiano dai tanti attacchi e dal misconoscimento cui era sottoposto in Italia.

Il primo maggio 1911 usciva a Roma il primo numero del polemico organo di stampa teorico della frazione intransigente. Il nome della rivista voleva contrapporsi all’idea, espressa da Giolitti l’8 aprile 1911, che ormai “Carlo Marx è stato mandato in soffitta”, perché, a parere dello statista piemontese, l’assorbimento del PSI nello Stato liberale era giunto ormai ad un punto irreversibile.

E’ interessante ricordare che la risposta a Giolitti, affidata a tal Tullio Colucci (“Rileggendo Marx” del 16 maggio), considerava “Il Capitale”, “avanzo archeologico” derivato da concezioni antiscientifiche e riduceva il marxismo alla sola lotta di classe (18).

Paradossalmente l’unica voce contraria a Colucci fu quella di Mondolfo, riformista di sinistra, che lamentò l’abbandono del marxismo alla “critica roditrice dei topi” e l’ “assenza di un’azione teorica, di una direttiva filosofica” nella rivista milanese (19).

In un articolo del 3 novembre Vella, polemizzando con Lerda, scriveva che non si doveva cacciare Marx anche dalla “soffitta”. E poi paradossalmente, per difendere il marxismo, rivalutava la piattaforma di Genova e proponeva un programma definito “massimalista” (20).

Vi era nella frazione intransigente, costituitasi nell’ottobre 1910 a Milano, un’evidente incapacità nel passaggio dalle enunciazioni teoriche e programmatiche alla necessità di dare al partito una strategia ben definita e articolata. Da qui l’astrattezza di molte posizioni teoriche (secondo Gnocchi-Viani la missione dei rivoluzionari doveva essere quella di “puritani del socialismo”) e il perdersi di molti esponenti nei problemi minuti della vita quotidiana del socialismo italiano, cioè proprio quei difetti che imputavano al burocratico gruppo dirigente riformista: “C’era… un complesso di incapacità teorica – scrive Cortesi – che corrispondeva ad una effettiva impossibilità di trovare conforti immediati all’ipotesi rivoluzionaria” (21).

Questa opinione trova riscontro anche nell’elaborazione della storiografia italiana che ha sottolineato, piuttosto uniformemente, il carattere eclettico e il fondo idealistico della “frazione rivoluzionaria”, giudicata, ad esempio da Arfè”, “intransigente ma non rivoluzionaria” (22).

Mammarella sottolinea l’impronta massimalistica e la vicinanza ideologica di alcuni esponenti intransigenti al sindacalismo anarchico, mentre il tradizionale riformismo non era del tutto sconosciuto nella prassi quotidiana dei vari Lazzari, Ciccotti e Lerda (23). Persino Maurizio Degl’Innocenti, per il quale il 1911-12 è una “data periodizzante” nella storia del PSI, per la distregazione dell’egemonia riformista e per il rinnovamento del partito, riconosce la notevole eterogeneità del “ritorno a Marx” de “La Soffitta” in coloro che proponevano il recupero del marxismo tradizionale filtrato da esperienze revisionistiche (Lerda), oppure basato su un impianto teorico-positivistico (Ciccotti), accanto agli ex-operaisti (Lazzari), per i quali il ritorno agli ideali marxisti passava attraverso il recupero integrale e acritico del vecchio programma genovese del 1892.

Un’impronta hegeliana si ravvisava, sempre per Degl’Innocenti, nel marxismo della Balabanoff, mentre l’integrazione fra marxismo e le teorie volontaristiche di Sorel e Bergson era propugnata da Mussolini e dai sindacalisti rivoluzionari. Non mancava neppure chi si proclamava agnostico e indifferente al dibattito ideologico, ad esempio Bacci (24).

Lenin, evidentemente, sopravvalutava le capacità egemoniche dei rivoluzionari sui riformisti di sinistra, nonostante i dati del congresso (riportati nel suo articolo) mostrassero che la “pianta riformista” non era stata estirpata.

I “rivoluzionari” ottennero, scrive Lenin, 12.500 voti; i “riformisti di sinistra” 9.000; i “riformisti di destra” 2.000 voti (25).

Molto probabilmente Lenin non si faceva illusioni sugli atteggiamenti futuri dei riformisti di sinistra, dei quali sottolineava il comportamento ambiguo e contraddittorio durante il dibattito per l’espulsione dei socialriformisti, ma fidava troppo sulla capacità dei rivoluzionari di escludere dalla direzione del partito oltre la prassi riformista, anche i rappresentanti del vecchi democraticismo socialista.

Questo giudizio può essere derivato da necessità propagandistiche, che possono aver spinto Lenin a forzare i toni ottimistici del suo intervento.

Questo articolo esce sulla “Pravda” e quindi avrebbe avuto risonanza solo all’interno del dibattito teorico russo. Forse, dietro alle parole conclusive dell’articolo, con le quali Lenin sosteneva vigorosamente la necessità della scissione da ogni opportunismo, vi è anche un’eco, nemmeno tanto lontana, delle lunghe lotte e delle numerose scissioni che avevano travagliato la crescita del partito socialdemocratico russo fino all’espulsione, nel 1910, di Bogdanov e Lunacarskij, e che avevano reso precaria la sua posizione di guida nel partito bolscevico tra il 1910 e il ’12 (26).

“Una scissione è cosa grave e dolorosa – scrive Lenin – ma se si insiste nell’errore, se per difendere l’errore si forma un gruppo che calpesta tutte le decisioni del partito, tutta la disciplina dell’esercito proletario, la scissione è indispensabile” (27).

Illuminante in proposito è il ricordo di T. Liudvinskaja che, in “Lenine tel qu’il fut”, ricorda come a Parigi “tutti i suoi pensieri erano orientati verso un solo scopo: organizzare l’azione politica in Russia e formare una generazione di dirigenti operai, fermi nella lotta, intransigenti verso i nemici del marxismo, verso le oscillazioni ideologiche di qualsiasi tipo. Se un uomo tradiva la causa comune, Lenin rompeva con lui irrevocabilmente” (28).

Probabilmente nel giudizio su Reggio Emilia pesavano anche le crescenti difficoltà che Lenin incontrava all’interno dell’Internazionale, e la necessità di avere in Europa punti di riferimento precisi per la crescita del marxismo rivoluzionario, capace di superare la crescente involuzione della socialdemocrazia europea, particolarmente quella tedesca. Infatti Madaleine Reberioux ricorda che Lenin, in questo periodo, “è isolato nell’Internazionale”, persino la Luxemburg è in polemica con lui. Specchio di queste difficoltà è la sua assenza al congresso dell’Internazionale di Basilea del 1912 (29).

Ben più preciso è il giudizio che Lenin dà di Bissolati e del partito socialista riformista definito “di fatto il ‘partito dei politicanti liberali-monarchici operai’ “ (30), associati alle correnti socialrevisioniste europee.

“Bissolati – scrive Lenin – ha appoggiato il ministro borghese, sin quasi a diventare egli stesso ‘ministro senza portafogli’ (cioè, pur non essendo ministro egli si comportava come fautore e membro del ministero borghese)” (31).

Nello stesso periodo, nella sua corrispondenza privata con Turati, la Kuliscioff scriveva che il linguaggio di Bissolati le sembrava quello di un futuro presidente del consiglio, di un vecchio esponente del socialismo italiano, che però era passato armi e bagagli dalla parte della borghesia (32).

Nel marzo 1912 Bissolati viene definito da Lenin un “liquidatore estremista” (33). Ancora nel luglio 1912, contrapposto al fumoso riformista Axelrod, Bissolati veniva accusato da Lenin di sacrificare i “principi della lotta di classe e della teoria e della pratica marxiste conseguenti, per riforme effettivamente attuate dalla borghesia liberale effettivamente dominante” (34). Sempre nello stesso anno Bissolati viene accomunato a MacDonald, Jaures, Kolb e Frank (35).

È opportuno sottolineare che in questo periodo, e almeno fino al 1917, è Bissolati il “Bernstein italiano”, mentre nel periodo precedente lo era stato Turati, probabilmente perché, come già visto, Lenin sottovaluta il ruolo opportunistico che il vecchio ceppo riformista e il suo leader Turati continuavano a svolgere nel partito dopo Reggio Emilia.

La guerra di Libia e il socialismo italiano

Nelle opere complete non vi sono commenti di Lenin sull’inizio della guerra italo-turca per il possesso del territorio libico. Il primo articolo compare sulla “Pravda” il 29 settembre 1912, al momento della stipula del trattato di pace tra l’Italia e la Turchia.

A proposito di una lettera misteriosa.

Può essere importante però, nonostante le nostre notevoli perplessità sull’autenticità, accennare a una presunta lettera di Lenin nella quale, rivolgendosi ad un’ignota interlocutrice, affermava di condividere i motivi dell’espansionismo italiano in Libia.

Crediamo sia opportuno accennare a questa lettera perché, nel terzo volume de “L’Italia moderna” di Gioacchino Volpe, a pag. 357 in una nota, si parla di questa missiva attribuendola a Lenin e vi è un accenno anche nel libro di Zaghi “L’Africa e la coscienza europea” (36).

A scoprire questa lettera è stato lo storico di tendenza socialiste Morandi il quale nel 1946 ne aveva pubblicato il testo su “Il Corriere del Mattino”.

Parla diffusamente di questa lettera, ripercorrendone l’iter misterioso su “Il Giornale Nuovo” del 17 dicembre 1976 Domenico Settembrini. Egli, definendosi “dottore in leninismo”, scorge nell’autore della lettera “il Lenin più vero, quale emerge esplicitamente da molti scritti ufficialmente noti, ed implicitamente si ritrova con l’analisi al fondo di tutto quanto ha detto, scritto o fatto” (37).

Sarebbe Lenin ad aver scritto, per esempio: “La Tripolitania conviene davvero agli italiani, perché situata alla più breve distanza dalla Sicilia. Gli italiani hanno bisogno di colonie, perché le loro masse popolari sono obbligate ad andare a cercare lavoro in paesi americani e di là portano, con molto denaro, idee nuove… anzi (questa impresa n.d.r.) andrebbe bene per noi, perché noi, checché se ne dica, abbiamo bisogno degli Stretti: ci gioverebbe molto nel campo politico, commerciale e marittimo”.

Basta anche una superficiale conoscenza del pensiero di Lenin, anche senza essere “dottore in leninismo”, per giudicare falsa questa lettera attribuibile semmai al linguaggio tipico dei nazionalisti italiani (Corradini) o dei sindacalisti rivoluzionari (Arturo Labriola).

Il significato politico dell’articolo di Settembrini appare chiaro: diffamare Lenin, attribuendogli un’ideologia nazionalista basandosi, oltretutto, su un presunto originale che non è mai stato trovato.

Nell’articolo del settembre 1912, dopo aver denunciato i massacri compiuti dai soldati italiani (“gli italiani, una nazione civile e costituzionale”) (38), i costi umani della guerra, i metodi “civili” con cui i popoli africani erano stati schiacciati e l’uso delle armi “modernissime” utilizzate per soffocare la resistenza araba, Lenin indicava il nesso tra il colonialismo e la politica imperialistica dello Stato italiano: “Che cosa ha provocato la guerra? La cupidigia dei magnati della finanza e di capitalisti italiani che hanno bisogno di un nuovo mercato, hanno bisogno dei successi dell’imperialismo italiano” (39).

Così Lenin concludeva il suo articolo: “Certo, l’Italia non è né migliore né peggiore degli altri paesi capitalisti, tutti ugualmente governati dalla borghesia, la quale, per una nuova fonte di profitti, non indietreggia davanti a nessuna carneficina” (40).

Un elemento, dunque, appare dominante nell’analisi leninista di questo periodo: la constatazione del pieno ingresso del capitalismo italiano nella fase imperialistica, quindi il suo inserimento nella gara delle “grandi potenze” europee alla conquista delle colonie, che è un naturale portato dell’imperialismo maturo (41).

Lenin non considera l’imperialismo semplicemente un’ideologia o una scelta politica, come pensavano i riformisti italiani – Turati in testa – ma ritiene che il dato fondamentale dell’epoca precedente lo scoppio della guerra mondiale fosse costituito dalla rapida crescita delle forze produttive al di là delle barriere dei mercati nazionali capitalistici e che i paesi capitalistici producevano più di quanto consumavano.

Nelle analisi di questo periodo, codificate poi nel saggio del ‘1916 sull’ ”Imperialismo”, le forze motrici della politica imperialistica erano le grandi concentrazioni monopolistiche nate e sviluppatesi non dall’antagonismo, ma dalla compenetrazione del capitale industriale con il capitale finanziario. Da qui la duplice tendenza all’esportazione dei capitali e alla importazione di materie prime.

La politica estera aggressiva, l’espansione mondiale della politica imperialistica, quindi, nascevano dalla necessità di creare spazi economici più ampi che nel passato sulla base di un’imperialistica spartizione del mondo.

A parere di Ulm in questo periodo Lenin è attirato da numerosi problemi di politica mondiale perché, a partire dal 1910, l’acuirsi delle tensioni a livello internazionale faceva presagire imminente una prossima conflagrazione europea (42).

Ma egli osservava da vicino anche il crescente nazionalismo in Asia e in Africa perché, nell’ipotesi di un conflitto locale in uno dei continenti invasi dal capitalismo mondiale, sarebbe stato possibile prevedere, sulla base delle teorizzazioni già elaborate da Marx e da Engels negli anni Ottanta sul legame tra rivoluzione in Oriente e rivoluzione in Occidente (43), uno sconvolgimento ancora maggiore in Europa che avrebbe facilitato la vittoria del socialismo.

Anche una guerra generalizzata in Europa, magari causata da rivalità coloniali, avrebbe potuto provocare un enorme rivolgimento anche di carattere rivoluzionario, nei paesi arretrati. Da qui il suo interesse per le inquietudini nazionalistiche, soprattutto in Asia: “Il risveglio dell’Asia” è il titolo di uno degli scritti più efficaci di questo periodo (44).

Al centro di queste riflessioni, negli anni precedenti il conflitto mondiale, è la necessità di un’alleanza consapevole fra la massa dei lavoratori asiatici (evidentemente una massa contadina, anche se non esclusivamente tale) e il proletariato dei paesi capitalistici: “La giovane Asia, cioè le centinaia di milioni di lavoratori asiatici, hanno un alleato sicuro nel proletariato di tutti i paesi civili” (45).

Non c’è dubbio che Lenin pensava anche a un’alleanza tra i popoli coloniali africani e il proletariato dei paesi europei: lo dimostra, per esempio, l’interesse per il crescente nazionalismo arabo in Libia (nell’articolo del settembre ’12), l’interesse con cui seguiva la campagna antitripolina del PSI e le crescenti agitazioni popolari in Italia contro la guerra, oltreché i riflessi economico-sociali della penetrazione tedesca e francese nel Mediterraneo.

A nostro parere, nella prefigurazione di un’alleanza tra il proletariato dei paesi capitalistici e le masse popolari dei paesi coloniali asiatici e africani, vi è una distinzione rispetto alle posizioni politiche della Seconda Internazionale, che non aveva mai considerato i popoli coloniali come elementi politici fondamentali nella lotta per il socialismo mondiale.

Inserendo la politica della borghesia italiana nel quadro internazionale ed individuando il motore dell’espansione coloniale nelle pressioni del capitale finanziario sulla politica del governo, Lenin aveva compreso le vere radici dell’impresa tripolina in termini non dissimili dai migliori risultati della storiografia contemporanea italiana sull’argomento.

Piuttosto uniformemente, infatti, gli storici italiani, da Grifone fino ai numerosi testi apparsi negli anni ’70, hanno sottolineato che, con l’impresa libica, iniziava per l’Italia una politica estera ben diversa dal giolittiano “piede in casa”, tesa verso i Balcani e il moribondo impero turco.

Degl’Innocenti sottolinea i settori industriali maggiormente legati alla politica espansionistica: “Zuccherieri, cotonieri e, particolarmente, siderurgici, concentrati verticalmente e fortemente integrati con il capitale bancario, cresciuti in un ambiente asfittico, protezionistico, e quindi caratterizzati da un’accentuata aggressività per la ristrettezza del mercato interno, non in grado di soddisfare l’utilizzazione massimale degli impianti” (46).

Contro l’ “italietta” giolittiana si era formato un blocco di potere economico, cementato dal capitale finanziario, e sostenuto dai maggiori organi di stampa italiani come “Il Giornale d’Italia” finanziato dal gruppo Bastogi, dagli armatori e dall’industria bellica (“Il Mattino” di Napoli, “La Tribuna” sostenuta dall’industria navale genovese e dalla Banca Commerciale, “Il Resto del Carlino”, organo della borghesia agraria emiliana e dagli zuccherieri settentrionali, l’”Idea Nazionale”, in stretto contatto con gruppi finanziari dell’industria siderurgica e meccanica. Anche il “Corriere della Sera”, espressione della borghesia milanese, fece sulle sue colonne un’attiva campagna filotripolina (47).

Alcuni studiosi, analizzando l’imperialismo italiano in Libia, hanno sottolineato quasi esclusivamente l’influenza che il Banco di Roma esercitò su Giolitti e su San Giuliano, ministro degli Esteri, oppure hanno messo in evidenza unicamente i guadagni o le perdite della potente banca romana.

A questa tentazione non sembra sfuggire nemmeno Carocci quando sottolinea, nella sua analisi dell’impresa libica, il ruolo trainante del Banco di Roma nei Balcani e nell’impero ottomano, riducendo l’importanza di altri settori economici interessati all’impresa (48).

A nostro parere, invece, l’imperialismo italiano dell’epoca giolittiana deve essere esaminato come un grande fenomeno sociale, che è stato capace di coagulare, sulla base di una strategia comune, un vasto strato di opinione pubblica, compresi ampi settori di piccola e media borghesia produttiva e intellettuale, sostenuto dalla politica aggressiva di numerosi grandi gruppi finanziari, tra cui naturalmente il Banco di Roma, certamente la struttura finanziaria italiana più esposta ai contraccolpi della situazione internazionale.

Se non consideriamo le dimensioni “unitarie” e di “massa” dell’imperialismo italiano, la sua forza egemonica su strati di piccola borghesia anche giolittiana e socialista e su intellettuali anche di tendenze democratico-socialiste (il caso più illustre è forse Salvemini al tempo della Grande Guerra), si rischia di perdere di vista la complessità del fenomeno e di attribuire l’espansionismo, come facevano in gran parte i socialisti dell’epoca, a pochi gruppi “plutocratici”, “parassitari”, e a settori “militaristi”, estranei alla coscienza democratica e liberale del periodo giolittiano.

Nella sua analisi dell’impresa libica al tempo del congresso di Reggio Emilia, Lenin dà un giudizio positivo della reazione dei socialisti alla campagna militare. Condannando Bissolati che “è giunto a difendere l’attuale guerra dell’Italia contro la Turchia”, elogiava l’atteggiamento del PSI: “Tutto il partito l’ha decisamente condannata come una rapina spudorata compiuta dalla borghesia e come un vile massacro degli indigeni africani a Tripoli, mediante armi micidiali e perfezionate” (49).

Aveva ragione Bonomi quando, durante il congresso di Modena (ottobre 1911), aveva sostenuto che i riformisti di sinistra non comprendevano la necessità economica e politico-internazionale che spingeva il capitalismo italiano, e non solo la parte più “retriva “ e “parassitaria”, verso l’impresa libica (50).

“Né un uomo né un soldo – disse Andrea Costa contro l’impresa etiopica del 1896 – E ciò deve gridare ancora una volta il partito socialista… Prima della Cirenaica c’è la Calabria, c’è la Sardegna, due terzi dell’Italia” (51), così l’ “Avanti!” del 13 settembre riassumeva quelle posizioni che poi diventeranno tipiche della maggioranza socialista.

L’accento sui problemi interni, sulle carenze strutturali dell’economia e sulle conseguenze internazionali della guerra prendevano dunque il sopravvento sui motivi classisti e internazionalisti della lotta. In realtà il PSI tendeva a confondere l’impresa crispina con la nuova espansione coloniale, senza tentare neppure di comprenderne la novità e le diversità.

Come ha scritto Roberto Battaglia l’impresa crispina fu voluta dallo stesso Crispi e dai suoi generali nonostante l’ostilità crescente degli strati della borghesia industriale e finanziaria del Nord (52).

“Mancava (nel partito ndr), quasi completamente – scrive Degl’Innocenti – un’analisi delle condizioni economiche e politiche nelle quali l’impresa era maturata, per cui si finiva per disconoscere la natura imperialistica della stessa. Del resto fu indicativo l’assenteismo con il quale il PSI si caratterizzò nel dibattito sul colonialismo e l’imperialismo, confermando la sua marginalità rispetto agli ambienti internazionali (53).

Ugo Mondolfo, sulle colonne della “Critica Sociale” dell’aprile 1912, negava che tutte le imprese coloniali fossero nate “dal bisogno incoercibile delle forze produttive” e concludeva plaudendo alle imprese coloniali che rispondevano ad “interessi dell’intera nazione”, cioè di natura pacifica (54).

In contrapposizione ai fenomeni di concentrazione monopolistica e del nuovo ruolo ricoperto dallo Stato, i socialisti riformisti di sinistra rispondevano con tematiche di tipo liberista, derivate anch’esse da una lettura meccanicistica di Marx. Oppure quando l’accento cadeva sulle concentrazioni monopolistiche italiane, rafforzate dalle difficoltà economiche del 1911, si vedevano in esse forme parassitarie ed improduttive contrapposte alla vitalità produttiva dei settori della piccola-media borghesia.

Con questi presupposti i riformisti di sinistra definivano la guerra libica come “brigantaggio collettivo”, “febbre coloniale”, “fenomeno morboso”, posizioni politiche dietro cui si celava, scrive Cortesi, il “sogno di uno sviluppo economico, armonico ed endostatico, pianificato da organismi pubblici al di sopra degli interessi di classe. Ma le necessità espansive dell’Italia industriale, la via affinché essa tenesse il passo con le grandi potenze passavano necessariamente per le conquiste coloniali” (55).

I socialisti della “Soffitta” avevano condotto la campagna antitripolina con più vigore ed energia denunciando le responsabilità della borghesia e del governo Giolitti. Ma queste affermazioni non erano sostenute da un’analisi generale del fenomeno dell’imperialismo e delle specifiche caratteristiche di quello italiano. Spesso, anzi, la “Soffitta” utilizzerà i temi della guerra in senso strumentale, cercando di strappare ai turatiani, dopo il congresso di Modena, la leadership del partito.

Sottolineando l’atteggiamento antibellico dei socialisti italiani, Lenin non poteva cogliere le ambiguità e le carenze del socialismo italiano proprio nell’analisi dell’imperialismo, in un momento storico di grandi tensioni internazionali che sarebbero sfociate nel conflitto mondiale. Anche da qui,forse, nasce quella sopravvalutazione della forza e dell’integrità del PSI, che avrà molta parte nelle future relazioni di Lenin con il movimento operaio italiano.

Tutto ciò può apparire strano se ripensiamo alla polemica di Kautsky con il PSI, da lui ritenuto in parte responsabile, a causa della sua disorganizzazione, della guerra italiana (56) e alle posizioni critiche di Oda Olberg, soprattutto contro la dirigenza riformista, che si era lasciata sorprendere dalla decisione del governo di iniziare l’impresa (57).

Anche l’Internazionale Socialista, in seguito alla mancata manifestazione di protesta in Italia contro la guerra, del 5 novembre, aveva assunto un atteggiamento molto critico nei confronti della dirigenza socialista.

Infatti in quel 5 novembre, nelle capitali europee si tennero dei meeting di protesta contro l’aggressione italiana. In Italia, invece dello sciopero generale stabilito dagli organism del B. S. I. non si andò al di là di una generica solidarietà con le proteste europee, espressa dalla direzione riformista.

Oltre al giudizio di Kauysky e a quello altrettanto negativo dei socialisti turchi, che chiesero una diffida contro il PSI per il suo immobilismo, è importante ricordare la nota di protesta e di biasimo di Jaures e di Vaillant, i quali scrissero che il PSI “era venuto meno al suo dovere internazionale”.

Anche dal “Carteggio Huysmans” pubblicato da Georges Haupt, emergono chiaramente le pressioni dell’Internazionale per un più fermo atteggiamento del PSI.

Scrivendo sulla “Pravda” il 4 ottobre ’12 Lenin, mentre denunciava le mire russe nel Balcani, rilevava le difficoltà della “Triplice Alleanza” dovute al crescente contrasto tra l’Italia e l’Austria per il possesso dell’Albania: “La Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia) è in questo momento indebolita poiché l’Italia ha speso 800 milioni di franchi per la guerra contro i turchi, e nei Balcani gli interessi dell’Italia e dell’Austria non si accordano. L’Italia vuole azzannare ancora un altro pezzetto, l’Albania, e l’Austria si oppone” (58).

Nei fatti, sul piano internazionale, la guerra di Libia, che era stata giudicata capace di equilibrare l’influenza franco-tedesca nel Mediterraneo, alterò gravemente la situazione nei Balcani.

L’indebolimento dell’impero ottomano creò i presupposti per le guerre balcaniche (1912-1913), dalle quali sarebbe uscito rafforzato il crescente e pericoloso nazionalismo slavo.

Anche l’Italia, come le altre potenze europee, mirava a sfruttare la debolezza turca per rafforzare la sua presenza politico-economica in uno scacchiere così importante qual era l’Europa orientale.

Il Banco di Roma, nel decennio giolittiano, aveva operato numerosi investimenti nell’area balcanica che implicavano forti passività sostenute dalle finanze dello Stato, come nel caso della costruzione della ferrovia Danubio-Adriatico. La rivoluzione dei Giovani Turchi aveva aumentate le difficoltà degli investimenti italiani in Libia e nei Balcani.

Gli interessi italiani nei Balcani non lasciavano indifferenti nemmeno i socialisti italiani del gruppo dirigente riformista. Il più esplicito su questo argomento era certamente Bissolati il quale, intervenendo già in precedenza nel congresso di Modena del 1911, nel dibattito interno del PSI sulla guerra di Libia, aveva giudicato l’impresa pericolosa, capace di indebolire la presenza italiana nei Balcani, ma rilevava che la penetrazione in Libia della Francia o della Germania avrebbe causato una guerra di vaste proporzioni.

Già nel 1908, di fronte all’annessione da parte dell’Austria della Bosnia-Erzegovina, difendendo la presenza italiana in quell’area, Bissolati giudicava imperialistica la politica degli Imperi Centrali. Di fronte all’annessione austriaca la stampa italiana si mobilitò con un’efficace campagna sottolineando il grave colpo subito dagli interessi italiani nel Levante. Anche l’ ”Avanti!”, diretto da Bissolati, chiese le dimissioni di Tittoni, ministro degli Esteri. Anche Turati ritenne che gli avvenimenti della Bosnia rappresentassero un grave danno per l’espansione italiana nei Balcani e nel Mediterraneo (59).

Alla fine del 1912, al momento del rinnovo della Triplice, il gruppo riformista si divise tra il “triplicista” Treves e l’ “austriacante” Kuliscioff. Quest’ultima temeva che l’Italia fosse trascinata dall’Austria in una guerra antislava, che avrebbe compromesso gli interessi italiani nei Balcani.

A questo proposito può essere interessante l’esplicita, onesta ammissione di ignoranza nei problemi di politica estera che Turati confessava, scrivendo alla Kuliscioff: “Ho insistito e strainsistito con Treves perché presenti una qualsiasi interpellanza sulla Triplice, che si discute mercoledì. Non ci fu verso, dice che non sa cosa dire: che differenza c’è allora fra avere, come lui, delle idee in politica estera e non averne nessuna, come me, se, all’atto pratico, non si sa ugualmente che cosa dire?”. E poi concludeva: “Importa di dire qualcosa e per atto di vita, meno importa quel che si dirà” (!) (60).

L’assenteismo di Turati, come di altri autorevoli esponenti del partito, sui problemi della politica estera, lasciava spazio alla politica personale di alcuni socialisti (come Bissolati), e impediva al partito di avere una posizione ufficiale e una propria linea di condotta sui temi internazionali, lasciata solo a pochi “specialisti”.

Queste carenze specifiche della politica estera nel PSI dovevano evidentemente essere poco conosciute da Lenin se, nell’ottobre 1912, dopo la scissione di Reggio Emilia e contemporaneamente alle guerre balcaniche, scriveva: “I socialisti dei paesi balcanici hanno pronunciato un’aspra condanna della guerra. I socialisti dell’Italia e dell’Austria, nonché di tutta l’Europa occidentale, li hanno fraternamente sostenuti” (61).

In realtà fin dal maggio 1905 erano emerse molte differenze tra socialisti italiani e austriaci, non solo per la questione dell’irredentismo, ma soprattutto in relazione ad una eventuale guerra tra Italia e Austria. Polemiche tra i due partiti nacquero anche in occasione della crisi bosniaca. Le crescenti tensioni fra i due raggruppamenti impedirono, come ricordò Lazzari a Reggio Emilia, una riunione socialista italo-austriaca che era in programma da due anni.

Un’eco di questi contrasti irrisolti probabilmente vi era anche nel Manifesto di Basilea del B. S. I. del novembre del ’12, nel quale possiamo leggere: “I socialisti d’Austria-Ungheria, come pure i socialisti d’Italia, presteranno un’attenzione particolare alla questione albanese… Il Congresso domanda dunque ai socialisti d’Austria-Ungheria e d’Italia di combattere ogni tentativo dei loro governi di comprendere l’Albania nelle loro sfere d’influenza, e domanda loro di continuare i loro sforzi per assicurare soluzioni pacifiche fra l’Austria-Ungheria e l’Italia” (62).

La portata mondiale di questi avvenimenti sfuggiva interamente al socialismo italiano, come a gran parte del socialismo internazionale, e non si ebbe coscienza dell’approfondirsi delle contraddizioni che in breve avrebbe portato l’Europa al primo conflitto mondiale.

Il PSI, “felice eccezione” fra la neutralità e l’intervento (agosto 1914-aprile 1915)

Il 5 settembre 1914, giungendo a Berna dalla Galizia, Lenin annotava sul quaderno dove raccoglieva materiali per l’opuscolo “La guerra europea e il socialismo internazionale” (63), alcuni commenti dell’ ”Avanti!” del primo settembre in cui veniva esaltato l’atteggiamento antibellico dei sei deputati bolscevichi nella Duma russa, contrapponendolo all’opportunismo della socialdemocrazia tedesca. Il 2 settembre l’ “Avanti!” usciva con l’editoriale “Il convegno di Roma fra la Direzione del Partito e un rappresentante dei socialisti tedeschi – Dopo il colloquio con Sudekum”. Seguiva l’articolo di Zibordi “Il socialismo europeo e il socialismo italiano”.

Lenin in Svizzera leggeva attentamente l’ ”Avanti!” e ne copiava ampi stralci. Lo dimostra il suo commento all’articolo di Zibordi inframezzato da locuzioni e citazioni italiane. E’ questa la prima volta in cui Lenin analizza a fondo le posizioni di un socialista italiano e, indirettamente, l’orientamento espresso dal PSI contro la guerra.

I socialisti italiani trattarono con molta freddezza la missione di Ellenbogen e di Sudekum (28 agosto-1° settembre ’14) inviata per operare pressioni sul gruppo dirigente socialista, in caso di partecipazione italiana al conflitto.

L’articolo di Zibordi (riformista di “sinistra” molto vicino a Turati) testimoniava l’orientamento certamente antitriplicista del partito e ribadiva la tesi della “neutralità assoluta”, mentre le posizioni filointesiste rimanevano in ombra.

Lenin plaude alle posizioni di Zibordi in termini entusiastici: “In un momento come questo un socialista si sente sollevato vedendo come l’ “Avanti!” ha detto coraggiosamente e schiettamente l’amara verità in faccia a Sudekum, ai socialisti tedeschi, affermando che essi sono imperialisti, cioè sciovinisti. Si prova un sollievo ancora maggiore quando si legge l’articolo di Zibordi, in cui viene smascherato non solo lo sciovinismo della borghesia tedesca e austriaca (il che è vantaggioso dal punto di vista della borghesia italiana), ma anche di quella francese, in cui si afferma che la guerra è una guerra della borghesia di tutti i paesi!!” (64).

Non c’è dubbio che Zibordi e l’ “Avanti!” in questa occasione esprimessero idee e posizioni politiche non dissimili rispetto alle violente polemiche di Lenin contro gli “orrori del tradimento perpetrato dai capi del socialismo contemporaneo e gli orrori del fallimento dell’attuale Internazionale” (65), ma rimanevano celati gli orientamenti decisamente favorevoli all’Intesa che il partito aveva espresso fin dall’inizio della guerra. Ad esempio, di fronte alla rottura austro-serba, Mussolini prese posizione contro la guerra, sostenendo il dovere del governo italiano di non schierarsi con gli Imperi Centrali (66).

In realtà, durante il periodo della neutralità italiana, il PSI oscillò spesso tra un’equidistanza dai due blocchi e un chiaro atteggiamento filointesista. Testimoniano il primo orientamento, ad esempio, l’articolo di Zibordi e la risoluzione finale del Congresso di Lugano (67), ma non c’è dubbio che il filointesismo finì per prevalere, egemonizzando una buona parte dei settori dirigenti socialisti.

Il 4 agosto poi, dopo la riunione della Direzione socialista, veniva diffuso un comunicato nel quale erano attribuite tutte le responsabilità della guerra alle “cupidigie balcaniche dell’imperialismo austro-ungarico, spalleggiato dal militarismo germanico” (68).

Il giorno prima Mussolini aveva scritto sull’ “Avanti!” che, in caso di invasione austriaca del territorio italiano, “è probabile che molti di quelli che oggi sono accusati di … anti patriottismo saprebbero compiere il loro dovere” (69).

Sono atteggiamenti, questi, che dimostrano accanto all’antigermanesimo la presenza, neppure tanto nascosta, dell’ideologia nazionalista. Colpisce per esempio nel “Manifesto contro la Guerra” della direzione socialista del 20 ottobre ’14, l’accenno ai “sentimenti di simpatia che sorgono spontanei ed invincibili nell’animo nostro tra belligerante e belligerante” (70), accanto al timore che il governo italiano potesse rompere la sua neutralità per schierarsi con gli Imperi centrali.

A questo proposito è interessante anche l’ “affaire” Mussolini, culminato con le sue dimissioni dalla direzione dell’”Avanti!” il 21 ottobre ’14 e la sua espulsione dal partito il giorno 29, dopo aver impostato un proprio giornale, “Il Popolo d’Italia”, che sarebbe uscito grazie ai numerosi aiuti francesi e della siderurgia italiana (in primis l’ “Ansaldo” di Genova) il 15 novembre.

Il 18 ottobre con l’articolo “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante” Mussolini poneva il dito sulla piaga: era possibile conciliare un debole neutralismo con la distinzione, operata fin dai primi giorni di guerra, tra paese e paese, aggressori e aggrediti, impedendo così al partito di porsi il problema di un eventuale intervento italiano? La repentinità dell’espulsione, derivata dall’improvviso voltafaccia di Mussolini, impedì la nascita in seno al PSI di una forte corrente filointesista.

“Questi atteggiamenti – scrive Cortesi – ridimensionano qualitativamente la tradizionale leggenda di un PSI su posizioni coerentemente ed originalmente internazionalistiche. Il PSI – al di là del rigorismo formale di facciata – agì invece sul governo per evitare un possibile intervento a fianco degli Imperi centrali e fin dall’inizio – esplicitamente o implicitamente – lasciò aperta la possibilità di un orientamento filointesista, differenziando in ogni caso subito le due parti belligeranti… anche l’altra leggenda, del severo astensionismo del PSI rotto unicamente ed improvvisamente dalle enunciazioni difensiste del Turati e del Treves nell’ottobre 1917 e nel giugno 1918, risulta così vanificata” (71).

Anche nelle note di Lenin riaffiora la sopravvalutazione di Reggio Emilia con la convinzione che l’opportunismo e il revisionismo fossero stati definitivamente sconfitti nel 1912 (72). Da qui l’ottimismo con cui Lenin seguiva sull’ ”Avanti”! la campagna contro la guerra.

Ma in questo articolo Lenin poneva una serie di problemi che dovevano rivelare i limiti della posizione antibellica del socialismo italiano. Infatti, contemporaneamente alle “Tesi bernesi” del 6 settembre 1914 in cui dettava la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, Lenin, nell’articolo citato, scriveva che la “propaganda illegale e la guerra civile sarebbero più oneste, più opportune per i socialisti” e che i “socialisti (non opportunisti) di ogni paese dovevano vedere il loro nemico principale nel ‘proprio’ (patrio) sciovinismo” (73).

Invece in Italia la profonda ideologia antigermanica, l’insorgenza dell’ideologia nazionale e anche nazionalista nel movimento socialista ma, soprattutto, la compenetrazione, avviata fin dall’età giolittiana, tra il socialismo italiano e lo Stato, dovevano rendere improponibile ogni agitazione di tipo rivoluzionario.

In realtà vi sono precisi motivi che consentono di spiegare storicamente il presunto neutralismo del PSI tra il 1914 e il ’15. Prima di tutto l’importanza dell’epurazione del 1912, poi il vigore dei sentimenti antibellici delle masse italiane (ben espressi dalla “settimana rossa” del giugno ’14). A ciò si aggiunga la decisione del governo italiano per la neutralità e l’aver avuto il PSI ben un anno di tempo per meditare sulla posizione da assumere; infine, tra il 1914 e il ’15, il neutralismo di Giolitti.

Su tutto ciò poi pesava la tradizione umanitaria e pacifista dell’evoluzionismo socialista e la necessità di opporre questi valori al transfuga Mussolini.

Possiamo affermare che – come scrive Cortesi – “in complesso, e considerando che l’Italia non fu travolta subito dalla guerra, il PSI non fa eccezione al quadro” (74), dimostrando in tal modo una politica non dissimile, nella sostanza, a quella degli altri partiti socialisti europei, perché la posizione pacifista, in sintonia con la maggioranza della socialdemocrazia europea prebellica, era finalizzata alla restaurazione della pace e non all’utilizzazione della guerra per il “salto” rivoluzionario.

Solo Bordiga in Italia, indipendentemente da Lenin, sottolineava l’aperta inimicizia del socialismo nei confronti dello Stato in guerra quando scriveva, parafrasando Mussolini, nell’ottobre del ’14: “Noi… sostenendo che lo Stato deve restar neutrale, ne restiamo gli aperti nemici, ‘attivi e operanti’ “ (75). Altrove scriverà: “Neutralità significa per noi intensificato fervore socialista nella lotta contro lo Stato borghese, accentuarsi di ogni antagonismo di classe che è la vera fonte di ogni tendenza rivoluzionaria” (76).

E’ importante sottolineare che Bordiga fu tra i pochi a denunciare, fin dall’agosto, le simpatie filointesiste di gran parte del socialismo italiano e soprattutto di Mussolini, rilevando che l’Austria e la Germania erano reazionarie non meno della Russia zarista, alleata della “democratica” Intesa (77).

Non nacque in questo periodo una corrente bordighiana in seno al PSI per la debolezza dello schieramento rivoluzionario in Italia e perché il suo pensiero, durante la guerra, dovette subire una necessaria maturazione, al pari dell’esperienza leniniana.

Il 27 settembre 1914 aveva avuto luogo a Lugano un incontro tra alcuni socialisti svizzeri e italiani (tra i quali Serrati, Lazzari, Morgari, Turati e Balabanoff) per rilanciare a livello internazionale una iniziativa di pace tramite gli organismi del B. S. I. rimasti del tutto inattivi dopo lo scoppio della guerra.

Per mezzo del socialista svizzero Robert Grimm, Lenin presentò al congresso le sue “Tesi bernesi”, nelle quali dettava la parola d’ordine di “rivolgere le armi non contro i propri fratelli, gli schiavi salariati degli altri paesi, ma contro i governi e i partiti reazionari e borghesi di tutti i paesi” (78).

Il documento finale di Lugano denunciava la politica imperialistica delle grandi potenze, ma la conferenza non appoggiò le parole d’ordine bolsceviche sulla trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile, sulla sconfitta del proprio governo nella guerra e non si pronunciò a favore di una rottura decisa con i socialsciovinisti. La conferenza propose unicamente trattative diplomatiche per mettere fine all’ “inumana carneficina” e una rinascita della II Internazionale.

La delusione di Lenin fu espressa l’11 ottobre quando scrisse che le tesi del partito erano “state inviate agli italiani e, molte di esse, purtroppo non tutte, figurano nella risoluzione di Lugano” (79). Infatti il congresso si mosse su una linea politica tendente a proporre di nuovo lo strumento dell’Internazionale Socialista, senza sottolineare la crisi definitiva, dopo le “Union Sacrées” del 1914, su posizioni pacifiste e socialscioviniste.

Dal protocollo dell’incontro di Lugano, analizzato da Valiani (80), ad esempio risulta che Lazzari pose ai socialisti svizzeri l’imbarazzante domanda sull’atteggiamento che essi avrebbero assunto nel caso la neutralità del loro paese fosse stata violata.

Marco Ferri, socialista ticinese, affermò che in tal caso i socialisti svizzeri si sarebbero battuti per la difesa della loro patria. Modigliani, difendendo i socialisti svizzeri, rispose a Lazzari che anche i socialisti italiani, i quali avevano giustificato i socialisti belgi, avrebbero difeso la loro patria in caso di aggressione (!). Turati, dichiarandosi contrario all’intervento, nonostante “molte ragioni militino per esso” (81), difese Modigliani.

Tra il 26 e il 28 marzo 1915, per iniziativa soprattutto italiana e in particolare della Balabanoff, si tenne a Berna una conferenza internazionale delle donne socialiste in cui vennero votate risoluzioni genericamente pacifiste, ma si respinse la proposta della delegazione bolscevica di creare organizzazioni illegali.

Anche la conferenza internazionale della gioventù socialista, che si svolse a Berna il 5-6 aprile dello stesso anno, su iniziativa della gioventù italiana e tedesca, con delegati norvegesi, bulgari, russi bolscevichi, olandesi e svizzeri, si chiuse con posizioni pacifiste.

Riferendosi a questi incontri internazionali, Lenin scrive: “Queste conferenze erano animate dalle migliori intenzioni. Ma esse non hanno assolutamente visto il pericolo di cui abbiamo parlato. Esse non hanno tracciato la linea di combattimento degli internazionalisti. Non hanno additato al proletariato l’incombente pericolo del metodo socialsciovinista di ‘ricostruzione’ dell’Internazionale. Nel migliore dei casi esse si sono limitate a ripetere le vecchie risoluzioni, senza dimostrare agli operai che la causa del socialismo è disperata senza una lotta contro i socialsciovinisti. Nel migliore dei casi, hanno segnato il passo” (82).

E’ importante notare che durante la guerra, a livello internazionale, Lenin fu l’unico a difendere coerentemente l’internazionalismo sulla base del disfattismo rivoluzionario, che egli avrebbe formulato organicamente, dopo le “Tesi bernesi”, il 1° novembre 1914 sul n° 3 del “Sotzial Demokrat”.

La guerra e la necessità di definire il ruolo del socialismo europeo in una diversa fase della lotta di classe, spingono Lenin ad approfondire il suo marxismo, a rompere definitivamente con l’elaborazione teorico-politica della II Internazionale e a proporre la creazione di un nuovo organismo, il quale avrebbe implicato una scissione nel movimento operaio internazionale e una strenua lotta contro il “centrismo” kautskiano“.

“In Lenin c’è insomma – scrive Cortesi – la coscienza che con la guerra del 1914 si è aperta nella storia un’epoca nuova, caratterizzata dalla preparazione rivoluzionaria, dalla vittoria della dittatura del proletariato e dalla organizzazione di una società comunista” (83).

E’ questo il momento in cui il leninismo diventa autonomo teoricamente e politicamente dal marxismo scolastico ed evoluzionista della II Internazionale. I frutti maturi saranno “L’imperialismo fase suprema del capitalismo” (primavera 1916) e “Stato e rivoluzione”.

Già dall’agosto 1914, però, il problema e l’analisi dell’imperialismo erano considerati politicamente centrali e discriminanti rispetto all’elaborazione secondo-internazionalista.

Analizzando le caratteristiche della prima guerra imperialistica mondiale, nella relazione sul tema “Il proletariato e la guerra” dell’ottobre ’14 (84), Lenin sottolineava alcuni punti fermi che rivelano quanto le sue posizioni teorico-politiche fossero distanti dagli atteggiamenti che gran parte delle socialdemocrazie europee, incluso il PSI, stavano maturando, tra tante contraddizioni e indecisioni, nello stesso periodo: la guerra è imperialista e non nazionale; le guerre nazionali segnano la nascita degli Stati nazionali e favoriscono lo sviluppo del capitalismo secondo una linea ascendente, mentre l’attuale guerra è dovuta a un capitalismo parassitario, monopolistico, un ostacolo ad un ulteriore sviluppo delle forze produttive, il quale ha raggiunto la sua “forma suprema” in tutti i paesi europei. Da qui l’alternativa tra “barbarie” e “socialismo”.

Sulla base di questi dati di fatto – continua Lenin – risulta che il concetto di “patria” è logoro e invecchiato; è fasulla la distinzione tra guerre difensive ed offensive, cioè è artificioso chiedersi chi ha iniziato per primo il conflitto; il proletariato non può arrivare al socialismo per via pacifica, magari dopo la guerra; bisogna invece porre, al centro della politica rivoluzionaria, l’esempio della Comune, perché la Comune di Parigi è la “guerra civile”, riproponendo le risoluzioni di Staccarda, Copenaghen e Basilea contro la guerra.

Siamo del parere che su questi punti sia possibile individuare il reale distacco tra le esperienze teorico-politiche che Lenin veniva maturando in questo periodo e la prassi del socialismo italiano durante la neutralità, al di là della contingente sopravvalutazione del ruolo “esemplare” svolto dal PSI a livello europeo.

Lenin dalla Svizzera nel dicembre 1914 spedì una lettera a Serrati, rimasta senza risposta. Era il primo tentativo, dopo Lugano, di un contatto diretto del capo bolscevico con i socialisti italiani. La lettera conteneva un appello a Serrati, neo direttore dell’ “Avanti!”, e a tutti i socialisti italiani per una più energica azione contro la guerra.

In questo periodo Serrati conduceva una vigorosa polemica contro la guerra, ma su posizioni solo apparentemente rivoluzionarie. Infatti, al di là della sua fraseologia attivistica e volontaristica, vi erano in lui l’anima del riformista e le incertezze del successivo massimalismo post-bellico.

E’ molto probabile che Lenin abbia scritto a Serrati solo in quanto direttore dell’ “Avanti!”, quotidiano che leggeva periodicamente in Svizzera e non invece, come sostiene Secchia (85), colpito dalla sua azione antibellica a livello internazionale.

Lenin invierà, tramite un suo collaboratore, anche un’altra lettera a Serrati il 21 giugno 1915 invitandolo a collaborare alla rivista “Il Comunista”, che doveva contrapporsi ai cedimenti dell’Internazionale, al socialsciovinismo e “contribuire a chiarire le concezioni comuniste della dottrina di Marx”.

La lettera era firmata N. Lialine, probabilmente uno pseudonimo in cui si nascondeva un socialdemocratico russo emigrato in Svizzera; fu poi attribuita allo stesso Lenin e pubblicata nel marzo del ’24 in “Pagine Rosse”, la rivista internazionalista di Serrati. E’ però oggettivamente difficile dare una precisa paternità alla lettera: De Felice (86) l’attribuisce al capo del bolscevismo russo, mentre Luciano (87) e Spriano (88) sono del parere opposto.

Comunque, anche se la lettera non fosse stata scritta da Lenin, le posizioni espresse sono ampiamente riconducibili alle sue battaglie politico-teoriche di quegli anni.

E’ interessante notare che, anche in questa lettera, vi è il positivo riconoscimento del ruolo antibellico del PSI: “La vostra collaborazione, caro compagno, ci sarebbe estremamente gradita soprattutto in considerazione del ruolo, così eroico, che il socialismo italiano ha esercitato in questa epoca di fallimento della maggior parte dei partiti ufficiali” (89).

Preoccupazione di Lenin in questo periodo è anche l’avere migliori informazioni sui caratteri dell’opportunismo italiano: “… noi desideriamo tanto un articolo sul riformismo italiano e sulla lotta contro di esso (durante la guerra di Tripoli e la guerra attuale), e sulle sue radici sociali” (90).

Ma anche questo invito, come fa supporre l’analisi dei documenti del fondo Serrati presso l’Archivio Centrale di Stato, non fu accolto.

In questo momento Lenin è ancora poco conosciuto nel socialismo internazionale, ed è probabile che Serrati, non rispondendo alle lettere e ricordandole solo nel 1923 (91), l’abbia confuso con uno di quei russi settari e confusionari che avevano spesso rese difficili le discussioni nei congressi dell’Internazionale.

Solo Zimmerwald e Kienthal permetteranno a Lenin un primo contatto diretto con il socialismo italiano.

Non ha contribuito ad una effettiva conoscenza delle sue posizioni politiche contro la guerra e per il disfattismo rivoluzionario nemmeno la socialista Balabanoff, che soggiornò a lungo a Berna, come corrispondente dell’”Avanti!”, a partire dai primi mesi del 1915 fino a trasferirvisi definitivamente nell’aprile del ’15.

E’ molto probabile che dopo il convegno di Lugano e le lettere di Serrati, Lenin abbia capito che era ben difficile smuovere il PSI da un pacifismo sterile. La conferenza di Zimmerwald e le posizioni espresse dai socialisti italiani rafforzeranno questa sua convinzione. Da qui la necessità di avere altri alleati nel movimento internazionale.

Secondo Brouè, Lenin nel 1915 ha contatti attivi con gli olandesi del “De Tribune”, con Pannekoek, con i militanti di Brema, con un piccolo gruppo berlinese che pubblica “Lichstrahlen”, ed è in corrispondenza con Radek. Con questi gruppi si sforzerà di creare una rivista internazionale, “Verbote”, iniziando a porre il problema di una scissione nella socialdemocrazia tedesca.

A questo proposito è interessante quanto scrive a Radek: “Gli olandesi + noi + i tedeschi di sinistra + 0, e non fa niente, perché poi non sarà 0 ma tutto!” (92). Con questi alleati formerà il nucleo base della “sinistra zimmerwaldiana”.

Quest’ultimo passo di Lenin è molto importante perchè ridimensiona qualitativamente il presunto rapporto di fiducia di Lenin con il socialismo italiano. Eppure egli era arrivato a scrivere nel suo articolo “E adesso?” del gennaio 1915 che “contro i tranfughi, i socialisti (italiani ndr) muovevano guerra alla guerra, preparavano la guerra civile” (93).

A questo punto Lenin avverte il pericolo di andare troppo oltre nel suo atto di fiducia ed aggiunge: “Noi non idealizziamo affatto il Partito Socialista Italiano, non garantiamo affatto che esso manterrà tutte le sue posizioni nel caso che l’Italia entri in guerra. Non parliamo dell’avvenire, ma solo del presente di questo partito” (94).

Ma, accanto a questa realistica e profetica valutazione dei limiti dell’opposizione antibellica del PSI, scriveva: “Constatiamo il fatto indiscutibile che gli operai della maggior parte dei paesi europei sono stati ingannati dall’unità fittizia degli opportunisti e dei rivoluzionari e che l’Italia è una felice eccezione, un paese dove, in questo momento, non c’è un simil inganno. Ciò che per la II Internazionale è stata una felice eccezione, deve diventare e diventerà una regola per la III” (95). Altrove Lenin scriverà che i “socialdemocratici rivoluzionari (‘partito socialista’) con l’ “Avanti!” alla testa, lottano, con l’appoggio della stragrande maggioranza degli operai più progrediti, contro lo sciovinismo, e denunciano gli interessi borghesi celati sotto gli appelli alla guerra” (96).

Tutto ciò riflette – come abbiamo alcune volte rilevato – i limiti di un’informazione spesso saltuaria tale da non permettere a Lenin una conoscenza più precisa e specifica del socialismo italiano durante la neutralità. Per esempio, sempre in “E adesso?”, polemizzando con coloro (Mussolini e Plechanov) che avevano difeso l’ “eroico Belgio”, sicuramente non sapeva che dopo l’invasione era nato, da Turati a Rigola fino a Morgari, un moto di simpatia e una presa di posizione ideologica contro l’ “aggressione teutonica”.

Come abbiamo già sottolineato probabilmente pesava su questa idealizzazione del PSI la necessità di avere, a livello europeo, un valido e positivo esempio da contrapporre allo sfascio in atto nella socialdemocrazia europea. Infatti il PSI era stato l’unico partito socialista dell’Europa occidentale ad opporsi alla guerra, rifiutando l’ “Unione Sacrée” con la propria borghesia. Anche il POSDR e il piccolo partito socialista serbo si erano opposti vigorosamente alla guerra, ma solo il PSI poteva contare su una stabile ed ampia struttura organizzativa, garantita da quindici anni di libertà politiche in Italia.

E’ quindi naturale, considerando la debolezza della frazione rivoluzionaria a Zimmerwald, che Lenin tendesse a mettere in risalto maggiormente quegli aspetti della politica del PSI che più si avvicinavano al suo progetto di opposizione alla guerra e di nascita di una nuova Internazionale.

Note al capitolo secondo