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Lenin e il movimento operaio italiano – Capitolo quarto – Il Biennio Rosso

Capitolo Quarto

Il “Biennio Rosso” in Italia nell’ipotesi strategia di Lenin

Speranze di un’imminente rivoluzione in Italia in un messaggio di Lenin a Serrati

“Caro compagno Serrati! I miei migliori auguri a Voi e al compagno Lazzari. Noi tutti speriamo che in Italia e negli altri paesi dell’Intesa avrà presto inizio la rivoluzione proletaria…” (1) “… Aumenta nei paesi dell’Intesa il numero di coloro che seguono la strada del comunismo, la strada di Mc Lean, di Debs, di Loriot, di Lazzari, di Serrati, di coloro i quali hanno capito che solo il rovesciamento della borghesia, la distruzione dei parlamenti borghesi, solo il potere sovietico e la dittatura del proletariato possono schiacciare l’imperialismo, garantire la vittoria del socialismo, assicurare una pace duratura” (2).

Pensiamo che queste due citazioni di Lenin siano emblematiche della fiducia con la quale il capo del nuovo Stato sovietico guardava alle potenzialità della rivoluzione comunista in Italia e plaudiva all’operato degli uomini che dirigevano in questo periodo il PSI.

Il primo passo è un telegramma di Lenin a Serrati datato 4 dicembre ’18 con il quale si congratulava con il direttore dell’ ”Avanti!” per la sua scarcerazione. In realtà solo Lazzari fu liberato il 20 novembre ’18 con un provvedimento di amnistia mentre Serrati tornerà al suo posto nel partito solo il 20 febbraio ’19 (3).

A fine maggio ’18 Serrati era stato condannato con altri importanti dirigenti torinesi del partito a tre anni e sei mesi di detenzione per la partecipazione alla rivolta torinese dell’agosto ’17, di cui abbiamo già parlato (4), malgrado fosse arrivato a Torino il 24 agosto e fosse ripartito per Milano il giorno successivo prendendo contatti sono con Morgari e Sciorati (come emergerà nel processo).

Nel comportamento di Serrati ravvisiamo le due facce contraddittorie del massimalismo nostrano: l’impulso spontaneo a dirigere le lotte e i timori delle possibili “degenerazioni” (5).

Il secondo passo di Lenin è tratto dalla “Lettera agli operai d’Europa e d’America” del 24 gennaio ’19, documento che registrava le difficoltà politiche tra le potenze vincitrici, dopo la fine del conflitto, “per la spartizione del bottino” e i decisi passi in avanti, in tutto il socialismo mondiale, in direzione della rivoluzione proletaria (6).

Secondo A. Balabanoff, agli inizi del regime bolscevico sui muri della capitale russa erano tre i nomi più ricordati all’ammirazione popolare: Karl Liebknecht, lo svedese Zeta Hoglund, entrambi per la loro decisa opposizione alla guerra, e Giacinto Menotti Serrati “che era stato il più strenuo e il più eroico difensore della rivoluzione e dei rivoluzionari russi” (7).

In un periodo storico in cui il socialismo sovietico era attaccato e denigrato anche all’interno delle organizzazioni socialiste europee, Serrati doveva indubbiamente emergere come uno dei più validi sostenitori (fatte salve tutte le nostre precedenti annotazioni su di lui) della politica bolscevica: “Serrati era uno dei pochissimi socialisti occidentali – scrive la Balabanoff – che Lenin avesse tenuto in considerazione, sia per il suo atteggiamento intransigente – in ispecie durante ed immediatamente dopo la prima guerra mondiale – che per i servigi resi alla Russia rivoluzionaria nei periodi più difficili. Inoltre Lenin – come molti rivoluzionari russi che lo avevano conosciuto – nutriva per Serrati una spontanea e grande simpatia per affinità di temperamento” (8).

Questo passo della socialista di origine russa ben esprime l’atteggiamento di fiducia di Lenin nei confronti di Serrati che continuerà, almeno, fino al secondo congresso dell’Internazionale.

A nostro parere Lenin era consapevole dei limiti massimalisti di Serrati, già rilevati a Zimmerwald (9) e al tempo delle dichiarazioni socialpatriottiche di Turati alla Camera italiana del 17 dicembre ’16 (10), ma sapeva, da buon rivoluzionario, che la validità degli uomini si misura nell’azione e nell’impegno e non sulla base di astratte dichiarazioni formali che la dialettica della vita sociale può modificare con facilità. E poi la rivoluzione si può fare solo con gli uomini esistenti, con i loro pregi e difetti, senza pretendere un’impossibile “purezza” rivoluzionaria.

Comunque, al di là di questi aspetti, esisteva indubbiamente una fiducia, forse un po’ ottimistica, in Serrati, derivata soprattutto dalla consueta mancanza di esaurienti informazioni sulla situazione esistente in Italia e nel PSI.

Naturalmente Serrati non era tutto il PSI perché all’interno del partito esisteva ancora lo scoglio costituito dai riformisti che, a partire dalla fine del ’16, operavano sempre più allo scoperto.

Molto probabilmente Lenin voleva fare di Serrati, fin da allora, l’artefice di un processo di chiarificazione interno al partito che portasse all’emarginazione e poi all’espulsione dei riformisti, condizione essenziale per fare del PSI un partito d’avanguardia e rivoluzionario.

Invece proprio Serrati, circa un mese dopo il messaggio di saluto di Lenin, doveva esprimere, ancora in carcere, le remore e la visione secondo-internazionalista di gran parte dei massimalisti italiani di fronte all’Ottobre.

Infatti il 5 gennaio il direttore del quotidiano socialista, nell’edizione romana, manifestava idee che la “Critica Sociale” avrebbe senz’altro avallato quando rilevava le diverse “condizioni ambientali” della rivoluzione in Russia e in Germania, favorevoli all’instaurazione della dittatura del proletariato, rispetto all’Italia, le cui condizioni sarebbero state propizie a una soluzione “democratico-riformista”. Addirittura prefigurava una sorta di “via pacifica e nazionale verso il socialismo” quando scriveva che l’agitazione per la Costituente e la politica riformista, condotta con tenacia, avevano lo scopo di realizzare “quel programma che necessariamente per altra via stanno attuando i nostri compagni di Russia e di Germania” (11).

Un messaggio di Lenin a Cicerin, commissario agli Affari esteri del governo bolscevico, per organizzare la conferenza di fondazione della III Internazionale, permette di individuare prima di tutto le formazioni politiche che avrebbero dovuto costituire la nuova Internazionale, e poi gli orientamenti di Lenin nei confronti del PSI.

Le condizioni per l’invito tendevano ad emarginare il socialismo italiano: “Chi invitiamo alla nostra conferenza? … Soltanto coloro che sono 1) decisamente per la scissione dai socialpatrioti… 2) per la rivoluzione socialista adesso e per la dittatura del proletariato… 3) in linea di principio per il ‘potere sovietico’… e che riconoscano nel potere sovietico il tipo superiore e più vicino al socialismo” (12).

Il PSI era inserito, con quello romeno, nella categoria dei partiti “vicini” alla III Internazionale, dai quali Lenin aspettava un “riavvicinamento e la fusione”. “L’uno e l’altro si erano distinti – scrive Agosti – per la loro attiva partecipazione alle iniziative dirette alla ricostruzione di una solidarietà internazionale di classe”, però il PSI non aveva mai accettato la linea del disfattismo rivoluzionario (13).

Ma ora, finita la guerra, il processo di radicalizzazione delle lotte in Italia sembrava preludere a una esplosione rivoluzionaria e si era riflesso nello spostamento a sinistra, che a Lenin non era sfuggito, di alcuni leader socialisti.

Nel documento il PSI, in posizione chiaramente subordinata nel socialismo mondiale, era messo sullo stesso piano di quello romeno, del partito socialista scozzese e del partito socialista britannico, preceduti dal partito socialista bulgaro e dal partito socialista svedese di sinistra, già interamente “sul terreno della III Internazionale”. Questi due partiti erano preceduti dai dieci partiti comunisti nazionali sui quali Lenin più contava nonostante l’indubbia eterogeneità e la mancanza di coesione al loro interno: esempio tipico il KPD, nato alla fine del ’18, e sul quale Lenin faceva molto affidamento (14).

La fondazione della Terza Internazionale

Il Congresso di fondazione della III Internazionale (2 marzo ’19) non vide la partecipazione di alcun socialista italiano; solo una sparuta minoranza di socialisti europei (mancavano anche i francesi, i belgi, gli inglesi, gli spagnoli) poté partecipare poiché il “cordone sanitario” intorno alla Russia impediva ogni tipo di comunicazione. Il blocco comincerà ad allentarsi solo tra la fine del 1919 e l’inizio del ’20.

Fino al giugno ’20 nessun socialista italiano vide con i suoi occhi la terra della rivoluzione né prese contatto diretto con i dirigenti sovietici. Solo il 5 aprile il testo dell’invito di Mosca fu tradotto e pubblicato dalla parigina “Umanitè” e si giunse fino al 19 maggio prima che l’ “Avanti!” potesse pubblicare il primo resoconto sull’avvenuto congresso di fondazione.

La direzione socialista era al corrente dell’invito per la costituzione della nuova Internazionale fin dal mese di marzo ‘18, ma la censura italiana ne impedì la pubblicazione fino al mese di luglio (15). Però nel febbraio ’19 i giovani socialisti italiani riuscivano a diffondere l’appello di Lenin (23 gennaio), per la “convocazione della nuova Internazionale rivoluzionaria” (16).

Al di là del discorso censura, sempre utilizzato dai socialisti di varie correnti talvolta come alibi per giustificare la loro impotenza, restava il dato di fatto che nulla era stato tentato per dare notizia dell’avvenuto congresso.

Scriverà Gramsci il 2 ottobre del ’20 sull’ “Ordine Nuovo”: “La Terza Internazionale fu fondata nel marzo 1919. Il PSI, che ne ignorava la preistoria, ne ignorò il primo Congresso, ne ignorò la storia: il PSI non trovò il modo di inviare un suo delegato a questo Congresso, non pubblicò i risultati del Congresso, non divulgò fra gli iscritti al Partito e nella massa proletaria le deliberazioni e le tesi del Congresso. Il PSI limitò la sua adesione alla forma ufficiale dell’adesione…” (17). Va ricordato, infatti, che il PSI aderì formalmente alla nuova Internazionale fin dal mese di marzo ’18 ma, come vedremo successivamente, questa decisione ebbe scarso valore politico.

Non c’è dubbio che Gramsci, scrivendo questo, toccava uno degli aspetti più importanti delle carenze dell’azione di massa nel “Biennio”: “Di chi è stata la colpa se la massa del partito è stata tirata su a forza di biberons e oggi non sa cosa dire, cosa decidere?” (18).

Solo Morgari tentò infruttuosamente per otto mesi, dalla metà di febbraio alla fine del settembre ’19, di entrare nella Russia sovietica attraverso il Baltico e la Polonia, poi attraverso l’Austria e i paesi balcanici.

Il socialista torinese visse la sua breve stagione “bolscevichista” inviando da Monaco a Mosca, durante le settimane del potere dei Consigli, un messaggio che annunciava la piena adesione del PSI alla neofondata Internazionale Comunista e comunicava lo schierarsi del suo partito a favore della dittatura del proletariato (19).

Lenin si riferirà al messaggio di Morgari, “scritto su pezzettini di carta come si faceva per la corrispondenza del partito all’epoca zarista” (20), in un discorso del 17 aprile ’19, sottolineando soprattutto la nuova fiducia e solidarietà nei confronti del potere sovietico espressa da socialisti in passato scettici, nonostante l’intervento armato controrivoluzionario, la censura rigidissima e le calunnie della stampa borghese (21).

Profondamente deluso dall’esperimento comunista in Ungheria e depresso per il “terrore rosso” visto laggiù, Morgari tornò in Italia alla metà dell’ottobre ’19. La sua relazione al partito fu così impregnata di pessimismo, scrive Konig, che l’annunciato giro di conferenze fra i gruppi socialisti locali fu disdetto (22).

La III Internazionale nasce tra grandi ottimismi condivisi da tutto il potere sovietico: “La fondazione dell’Internazionale comunista – afferma Lenin nel marzo ’19 – è la vigilia della repubblica internazionale dei Soviet, della vittoria internazionale del comunismo” (23).

Però la situazione interna del nuovo potere comunista in Russia è difficile: il 1919 è l’anno del grande isolamento. Nell’aprile 1918 i giapponesi sbarcavano a Vladivostok, i tedeschi acquisivano altri territori “migliorando” Brest, la legione cecoslovacca si ribellava…; nell’estate i bolscevichi dovettero arginare anche l’offensiva inglese, francese e americana.

Con una situazione interna di questo genere è chiaro che la fondazione dell’Internazionale doveva essere più un fatto formale che reale, più importante a livello ideologico che politico-organizzativo (espressione di una grande cesura nella storia, che avrebbe rimodellato il volto del socialismo mondiale) piuttosto che un avvenimento capace di incidere immediatamente nella realtà internazionale. Infatti i “contatti del Centro della neonata I. C. – scrive Spriano – sono pressoché interrotti” (24), nonostante le grandi prove di forza del proletariato europeo nel ’19 avrebbero richiesto l’esperienza e l’aiuto che solo i bolscevichi, dopo tre rivoluzioni, potevano dare.

Indubbiamente le dure esperienze dell’assassinio di Liebknecht e della Luxemburg nel gennaio ’19, il crollo della Baviera sovietica nel mese di maggio e il fallimento della repubblica sovietica ungherese in agosto sottolineavano sia l’immaturità politica di un giovane proletariato europeo che la crisi del capitalismo spingeva alla lotta quanto il ritardo con cui nasceva la nuova Internazionale rispetto all’ascesa di un movimento di massa potenzialmente rivoluzionario.

Siamo anche convinti che il “congelamento” dei rapporti tra l’Internazionale e il PSI, totale almeno fino a giugno ’20, abbia impedito il rapido maturare in Italia di quella “nuova sinistra” sicuramente eterogenea che, comunque, avrebbe più tardi fatto nascere il PCd’I. Le carenze più vistose del “Biennio Rosso”: la “psicologia parassitaria”, il messianesimo e l’attendismo in questo periodo storico andrebbero, a nostro parere, spiegati anche tenendo conto di questa prospettiva storiografica.

Come dimostra il telegramma a Serrati, Lenin seguiva con molta simpatia l’attività del socialismo italiano nonostante l’estrema precarietà delle fonti di informazione: “Come una rarità c’è pervenuto un numero del giornale italiano ‘Avanti!’”, dirà il 6 marzo nel discorso inaugurale del Congresso costitutivo dell’Internazionale.

In questo intervento plaudiva alla decisione del PSI di non partecipare all’ “Internazionale Gialla” di Berna, convocata nel mese di febbraio dai partiti socialsciovinisti e centristi per ripristinare la II Internazionale, e poi citava una corrispondenza dell’ “Avanti!” sulla vita del partito a Cavirago, piccolo centro nei pressi di Como, nel quale si elogiava il quotidiano socialista e si esaltavano gli spartachisti tedeschi e i comunisti russi: “Gli operai salutano i ‘soviettisti russi’ ed esprimono l’augurio che il programma dei rivoluzionari russi e tedeschi sia accettato in tutto il mondo e serva a condurre sino in fondo la lotta contro la borghesia e la dominazione militare” (25).

Lenin non ebbe esitazioni nello spiegare l’entusiasmo dei socialisti italiani per la Russia sovietica e per la dittatura del proletariato come una cosciente presa di posizione delle masse italiane: “Possiamo dire a buon diritto che le masse italiane sono per noi” (26).

In Italia invece, proprio coloro che dovevano dirigere ed educare il proletariato per superare la fase di adesione solo spontaneistica e mitologica alla rivoluzione russa e diffondere una più matura coscienza di classe, manifestavano forti riserve.

Lo stesso Serrati, ancora in prigione, pubblicò sull’ “Avanti!” del 24 gennaio ’19 un articolo che chiaramente esprimeva tutti i limiti intellettuali del socialismo italiano massimalista durante il “Biennio”: “C’è, evidentemente, una sproporzione fra i fatti, che sono e sconvolgono ogni ideologia, e i programmi del neovolontarismo… L’altro giorno una sezione di campagna votava un ordine del giorno in cui dopo aver protestato contro il sindaco per la mancanza di acqua alla fontana pubblica, terminava augurando la dittatura del proletariato… tanto, parola più, parola meno!” (27).

Nonostante la quasi totale mancanza di informazioni Lenin sentiva che le masse operaie di tutta l’Europa, in seguito alla rivoluzione russa e alla guerra, avevano fatto grandi passi in avanti, maturando la loro coscienza di classe in senso rivoluzionario; sapeva che il loro spontaneismo poteva essere anche controproducente, ma la situazione era oggettivamente favorevole per l’innesto anche in Italia di un partito di classe autorevole e maturo.

Speranze e delusioni di Lenin per lo sciopero internazionale del 21 luglio 1919

Anche la grande occasione dello sciopero internazionale del 21 luglio a favore della Repubblica dei Consigli di Russia e Ungheria andò perduta, nonostante le grandi potenzialità di lotta.

L’iniziativa dello sciopero era partita da D’Aragona, Jouhaux, a nome del PSF, e del Partito laburista inglese.

Forse l’idea di una manifestazione di solidarietà con i comunisti russi e ungheresi, sollecitata dai dirigenti italiani all’inizio del mese di giugno – scrive Franco Ferri – aveva visto la collaborazione franco-inglese per recuperare politicamente il PSI al centrismo europeo dato che il partito italiano il 19 marzo aveva deciso di uscire dalla II Internazionale per aderire al Cominter (28).

Lenin nutrirà molte speranze per questo sciopero, come emerge da un discorso tenuto il 15 luglio (29), invece non vi fu alcun coordinamento a livello internazionale poiché i capi opportunisti del movimento operaio fecero di tutto per provocare il fallimento dell’iniziativa.

La tensione in Italia era altissima anche nelle settimane precedenti: “Si può dire che l’Italia visse alla vigilia di questo sciopero – scrive Nenni – giornate di una emozione senza precedenti… germinato in una eccezionale atmosfera di irritazione e di tensione, lo sciopero riuscì compatto ma, per la mancanza di direttive strategiche, “assunse fin dal primo giorno un aspetto festivo piuttosto che rivoluzionario” (30).

L’iniziativa nacque per contenere le crescenti dimostrazioni operaie, che avevano raggiunto il loro culmine nei mesi di giugno e luglio, con una manifestazione che doveva avere “carattere dimostrativo e non rivoluzionario” (31); da qui la partecipazione attiva della CGdL allo sciopero: “Ma in tal modo – scrive Cortesi – si era lasciato passare il momento di maggiore tensione rivoluzionaria… D’altra parte, il concentrarsi su una manifestazione di quel genere a scapito della direzione della lotta di classe in Italia rivelava i limiti formalistici dell’internazionalismo stesso del PSI” (32).

Il 23 luglio Lenin, in un discorso, affermerà che il “tentativo di sciopero internazionale… non è riuscito” (33), sottolineando solo le maggiori difficoltà della rivoluzione in Occidente senza far cenno, per la consueta carenza di informazioni, a dirigenti quali ad esempio Jouhaux e Merrheim, che si pronunciarono dapprima a favore dello sciopero, ma alla vigilia del giorno fissato proposero di differirne la data, facendolo così fallire (solo in un articolo del febbraio ’20 Lenin condannerà il ruolo cruciale che ebbe in questa occasione Jouhaux) (34). Lenin non conosceva neppure ciò che Lazzari il 18 luglio aveva scritto sull’ “Avanti!”: “Non si devono accettare provocazioni di sorta e si devono infrenare le generose impazienze le quali, in questa ora, non potrebbero avere che infeconde e tragiche conseguenze” (35).

In realtà in questi mesi tutta l’attività di Lenin è concentrata sui problemi della guerra civile; le fonti d’informazione erano praticamente inesistenti, come emerge da un saluto di Lenin a Serrati del 19 agosto ’19 in risposta al messaggio della direzione socialista, “Ai compagni dei governi comunisti di Russia e Ungheria”, pubblicato dall’ “Avanti!” dopo lo sciopero di luglio (36): “Sappiamo assai poco – scriveva Lenin – del vostro movimento; non abbiamo alcun documento” (37). Sempre in questo messaggio, pubblicato nel quotidiano socialista del 2 settembre, Lenin plaudiva alla decisione del PSI di boicottare l’ “Internazionale gialla di Berna” per difendere la politica del Cominter.

Questo messaggio è importante non solo perché conferma la simpatia di Lenin per Serrati e Lazzari, ma anche perché rappresenta una ripresa del contatto tra Lenin e i socialisti italiani dopo lo scoppio della rivoluzione russa.

Non sappiamo se Lenin fosse al corrente della precedente adesione, del mese di marzo, del PSI alla III Internazionale; il suo messaggio sembra escluderlo. L’appello “Ai compagni dei governi comunisti di Russia e Ungheria” insisteva solo sullo sciopero del 22 luglio.

L’uscita dalla vecchia e screditata Internazionale per aderire alla nuova non avvenne però senza contrasti: la decisione fu approvata con dieci voti (Serrati primo firmatario) contro tre (tra cui quello di Lazzari). La spaccatura tra il segretario e il direttore dell’ “Avanti!” rivelava le contraddizioni del composito blocco massimalista, che così agevolava in questi mesi l’azione dei riformisti.

A questo punto il fatto che il PSI sia stato il “primo fra tutti i grandi partiti socialisti del mondo” a fare questo passo, su cui insiste Konig con una certa enfasi (38), perde la sua importanza.

A portare il messaggio di Lenin da Mosca a Milano era stato un russo che si faceva chiamare Carlo Niccolini. Dopo il suo arrivo scrisse alcuni articoli sull’ “Avanti!” (39) e permise a Serrati, con gli aiuti finanziari portati da Mosca, di fondare il quindicinale “Comunismo – Rivista della Terza Internazionale” che iniziò le pubblicazioni il 1° ottobre ’19.

La rivista si presentava come “organo di propaganda e di battaglia della III Internazionale in Italia”. Avrà come collaboratori stranieri soprattutto Lenin e Trotckj, alcuni articoli furono scritti da Bordiga; ma il contributo fondamentale di tradurre l’esperienza russa nelle specifiche condizioni storico-sociali dell’Italia rimarrà sulla carta. Infatti troppo spesso Serrati usò la rivista in polemica con la “nuova sinistra” italiana, per rivendicare un inesistente avallo moscovita alla sua politica oppure per porsi contro la politica del Cominter.

Se non altro però la rivista contribuì a far entrare, seppure in parte, il pensiero di Lenin nel dibattito politico del massimalismo italiano.

La “brillante vittoria del comunismo” al Congresso di Bologna

Nonostante nei mesi di ottobre-novembre la Russia dei Soviet fosse sul punto di cadere, Zinoviev trovò il modo di inviare alcuni messaggi al PSI prima dell’inizio del Congresso di Bologna (5-8 ottobre 1919).

Un primo indirizzo di saluto, firmato anche dalla Balabanoff, lodava il comportamento del PSI durante la guerra, ma concludeva con l’ammonimento: “Tuttavia alla nuova unione internazionale dei lavoratori non basta solo la simpatia. C’è bisogno di programmi e scopi chiari” (40). Il 1° settembre, in una circolare inviata a tutte le sezioni del Cominter, Zinoviev poneva al PSI tre precise richieste: esclusione dei riformisti, cambiamento del nome in “Partito Comunista”, uso della tribuna parlamentare (41).

Proprio nel primo numero del “Comunismo” Serrati difese la sue posizioni sul mantenimento del nome del partito e sulla necessità di evitare ogni scissione; così come fece anche a Bologna. Bordiga invece difendeva le prime due tesi dell’Internazionale, ma condannava l’ultima sulla base delle tesi astensionistiche che aveva già propagandate nel “Soviet”.

Il cammino politico di Bordiga, dalla nascita del “Soviet” a Livorno, fu “assai lento” a parere di Cortesi (42), perché la sua strategia si basava sul presupposto della possibile conquista interna del partito scacciando solo i riformisti, quindi portando a sinistra tutta la Direzione socialista. Forza coagulante per attuare questo progetto sarebbe stato un rigido astensionismo (si profilava la questione della Costituente e poi le elezioni indette per la fine del ’19) capace di sconfiggere nelle masse proletarie l’ingenua fiducia nei mezzi parlamentari, considerati tout-court solo come arma borghese di influenza sul proletariato; contemporaneamente l’astensionismo sarebbe stato in grado di rigenerare il partito sulla base del programma marxista (43).

Nonostante, a parere di Cortesi, il “boicottismo” in Bordiga, cioè la lotta contro l’ “illusione elezionistica… fu solo una fase della ricerca politica che segnò il passaggio dalla seconda alla terza Internazionale…”, l’anteposizione della partecipazione elettorale del “partito vecchio” rispetto al problema del “partito nuovo”, “introdusse – continua Cortesi – senza dubbio nell’azione dei comunisti italiani del 1919 elementi di deformazione ideologica e di ritardo rispetto allo sviluppo oggettivo della situazione” (44).

Infatti a Bologna l’insistenza con cui Bordiga parlò a sfavore di ogni partecipazione parlamentare (si era in pieno clima elettorale) doveva isolarlo da quella corrente di “massimalisti elezionisti” di sinistra, tra cui vi erano parecchi protagonisti di Livorno i quali condividevano le sue posizioni di principio, ma rifiutavano la rigida sottovalutazione della propaganda rivoluzionaria a livello parlamentare.

Così Bologna, nonostante l’imperversare del mito sovietico e di tutto il pathos del “diciannovismo”, non dette luogo a una svolta, anzi vi fu un riavvicinamento tra Serrati e Lazzari e quindi tra Serrati e i riformisti.

Il congresso si chiuse con una schiacciante maggioranza per Serrati, a cui avevano fatto capo anche i “massimalisti elezionisti” di sinistra, in totale 48.411 voti; 14.880 voti ebbero Lazzari e i riformisti; solo 3.417 andarono a Bordiga.

Il congresso confermò l’appartenenza del PSI alla III Internazionale, ma l’adesione anche dei riformisti doveva toglierle ogni significato. Infatti, secondo Treves, la III Internazionale raccoglieva l’eredità di Zimmerwald, ma in quel momento era “un puro platonismo” e “una affermazione idealistica” (45).

Nonostante queste intonazioni scettiche e pessimistiche Serrati, affermando che tutte le frazioni socialiste erano d’accordo sull’adesione alla III Internazionale, fece approvare questo punto per acclamazione.

Lenin conobbe molto presto i risultati del Congresso di Bologna nonostante proprio in quei giorni la repubblica sovietica stesse vivendo i suoi giorni peggiori.

Il 10 ottobre scrisse un “Saluto ai comunisti italiani, francesi e tedeschi” in cui vi è un importante giudizio sul PSI: “Del partito italiano abbiamo saputo soltanto che nel suo congresso ha votato a stragrande maggioranza l’adesione alla III Internazionale e il programma della dittatura del proletariato. Il partito socialista italiano si è così unito di fatto al comunismo benché mantenga ancora, purtroppo, il suo vecchio nome. Un caloroso saluto agli operai italiani e al loro partito” (46).

Nonostante la precarietà delle informazioni (“Sono ben magre le notizie che riceviamo dall’Italia” (47), da cui la sopravvalutazione dei risultati di Bologna, è interessante sottolineare che è la prima volta che Lenin lamentava la conservazione del vecchio nome del partito, della quale “nei seguenti mesi (Serrati ndr) – scrive Konig – doveva fare un punto d’onore nella sua disputa con Lenin” (48).

A proposito di questa interpretazione dei risultati di Bologna, De Clementi distingue aprioristicamente in Lenin “la scientificità delle sue indagini socio-economiche, dal carattere eminentemente politico ed agitatorio dei suoi scritti… espressi sotto lo stimolo di esigenze politiche ritenute imprescindibili…” (49).

Tesi sicuramente discutibile che, se accettata in toto, toglierebbe ogni validità storico-teorica ai suoi scritti politici.

Il plauso per la “brillante vittoria del comunismo” a Bologna compare anche in un successivo articolo di Lenin, “Al compagno Serrati e ai comunisti italiani in generale”, stampato (nonostante la mutilazione della censura) il 5 dicembre sull’edizione romana de l’ “Avanti!”.

In questo messaggio di saluto vi era un tema importante per i successivi rapporti con il socialismo italiano e con Bordiga in particolare, appena adombrato nella lettera precedente: “Particolarmente la vostra decisione sulla partecipazione alle elezioni al parlamento borghese mi sembra molto giusta” (50).

I riferimenti nella lettera del 10 ottobre all’astensionismo tipico di alcuni gruppi tedeschi, già spiegato in termini di “malattia di crescenza” del movimento internazionale, postulano che “il Comitato esecutivo della III Internazionale e Lenin stesso – scrive Cortesi – non conoscevano l’attività e gli orientamenti del gruppo de ‘Il Soviet’… Non lo conoscevano nella sua globalità, in quanto elaborazione marxista dei problemi del partito, dello Stato e della rivoluzione, che sboccava nel rifiuto dell’unitarismo e nella proposta di un ‘Partito puramente comunista’ “ (51).

Infatti in una lettera del 28 ottobre i riferimenti ai caratteri propri dell’astensionismo bordighiano sono molto generici e di seconda mano.

Il massimalismo italiano in una lettera a Lenin

Il “Comunismo” del 15-31 dicembre pubblicava la seconda parte della lettera di Lenin che la censura aveva “imbiancato” sull’ “Avanti!”.

In essa, dopo la sottolineatura della presenza nel PSI degli “opportunisti palesi e mascherati” soprattutto nel gruppo parlamentare, vi era un passo che Serrati avrebbe cercato di valorizzare a proprio vantaggio contro i “sinistri”, ponendosi quindi come vero e autentico interprete delle direttive moscovite: “Può darsi che l’Inghilterra e la Francia, aiutate dalla borghesia italiana, tenteranno di provocare il proletariato italiano ad un’insurrezione prematura onde soffocarlo più facilmente. Ma esse non riusciranno nel loro intento. Il meraviglioso lavoro dei comunisti italiani serve di garanzia che essi riusciranno a conquistare alla causa del comunismo tutto il proletariato industriale e agricolo, nonché i piccoli proprietari, e allora – previa la scelta di un momento favorevole dal punto di vista della situazione internazionale – la vittoria della dittatura del proletariato sarà definitiva” (52).

Addirittura anche i riformisti con Treves cercavano di strumentalizzare la lettera di Lenin sostenendo che “la rivoluzione e la riforma… sono più che mai in funzione della situazione, politica e finanziaria, a cui immediatamente si connettono” (53).

Lenin non voleva assolutamente favorire la direzione centrista del PSI e tanto meno la politica dei riformisti. Si era proposto di sottolineare, da buon capo comunista (soprattutto sulla base dell’esperienza di ben tre rivoluzioni), che la scelta del momento rivoluzionario appartiene alla dialettica tra le condizioni oggettive e soggettive per evitare, valorizzando idealisticamente solo la seconda componente, di cadere in una nuova Comune parigina, oppure, peggio, nel terrorismo piccolo borghese.

Secondo Konig l’invito di Lenin alla cautela derivava dallo scoramento per il crollo della repubblica dei Consigli ungheresi (agosto ’19) e dal desiderio di evitare, magari in Italia, una “seconda Ungheria” (54).

La riduzione-strumentalizzazione della lettera di Lenin da parte di Serrati emerge chiaramente in una lettera allo stesso Lenin datata 28 dicembre e pubblicata non molti anni fa da Spriano (55).

Non sappiamo se la lettera sia mai pervenuta a Lenin, ma indubbiamente è un documento indicativo del “massimalismo italiano nella critica rivoluzionaria che esso non sa padroneggiare – scrive Spriano – della mentalità parassitaria che lo domina” (56).

“Né colpi di mano, né soverchie lentezze, tale mi pare debba essere la nostra tattica. Noi dobbiamo attendere serenamente, operando, gli eventi che maturano per noi”, così Serrati traduceva “l’arte della rivoluzione” in Lenin!

C’era in questa speranza fiduciosa negli avvenimenti che maturano autonomamente il tipico “buon senso” riformista e la sottovalutazione del momento della prassi a tutto vantaggio dell’ ”attesa”.

Naturalmente tutti coloro che non accettavano questa versione “italiana” della rivoluzione erano da lui definiti “romantici imbevuti di ideologie quarantottiste”.

Per preparare la “dittatura del proletariato” – aggiungeva Serrati – bastavano “le istituzioni che ci hanno servito sin qui…: così le cooperative e i sindacati di mestiere e i Comuni che sono nelle nostre mani”. Un compito fondamentale poi spettava al “nostro Gruppo Parlamentare”, che doveva “provvedere a maturare crisi su crisi”.

Troppo facilona la sottovalutazione delle tematiche ordinoviste dei Consigli e la diffidenza verso le masse non organizzate, che comunque avevano contribuito alla straordinaria vittoria elettorale del PSI (novembre ’19); non una parola sul lavoro di agitazione tra i contadini, sul lavoro di Bordiga nelle fabbriche, non un accenno ai pericoli internazionali di un eventuale colpo di Stato in Italia in seguito a un tentativo rivoluzionario.

Antiparlamentarismo, polemica contro il centrismo e il riformismo nel PSI, valorizzazione del partito ne “L’estremismo”

Prima che la lettera di Lenin del 29 ottobre fosse pubblicata sull’ “Avanti!”, Bordiga, con una lettera scritta il 10 novembre al Comitato esecutivo dell’Internazionale, tendeva a riallacciare i rapporti e soprattutto a dare un quadro più veritiero e realistico della situazione italiana e dei risultati di Bologna (57).

Bordiga temeva che la sua Frazione astensionistica venisse confusa tra le tante del “comunismo di sinistra” in Europa e che la dirigenza di Mosca sottovalutasse la lotta che il suo gruppo stava svolgendo a favore della scissione e della nascita del partito comunista.

A parere di Cortesi, nella prima lettera, l’astensionismo è sempre preliminare, ma al centro vi era “il problema del partito e del lavoro teorico comunista” (58) concepito in termini rigorosamente leninisti.

Tre erano le domande che Bordiga poneva all’IKKI:

  1. una definizione rigorosa del problema dell’elezionismo;
  2. l’atteggiamento di Mosca sulla scissione nel PSI;
  3. una definizione dei compiti dei Soviet durante il regime borghese, questione centrale nella politica ordinovista, per evitare che questi organismi, subordinando il problema del partito, diventassero strumenti puramente riformistici

La lettera e parecchi numeri de “Il Soviet” furono sequestrati dalla censura e anche una seconda lettera, spedita l’11 gennaio, non giunse mai a Mosca.

In questa occasione Bordiga prendeva spunto dallo scritto di Lenin pubblicato il 31 dicembre dall’ “Avanti!”, con l’evidente scopo di far conoscere ai dirigenti moscoviti la reale situazione nel PSI.

Rispetto all’astensionismo di principio, in questa seconda lettera emerge maggiormente il tema del partito e della scissione in una prospettiva politica coerente e matura: “Siamo fautori del partito politico marxista forte e centralizzato cui parla Lenin, anzi siamo i più tenaci assertori di questa concezione nel campo massimalista” (59).

Alla fine, forse per la prima volta, Bordiga prospettava la scissione non più come espulsione dei “destri” e conquista della maggioranza, ma come “divisione anche minoritaria del vecchio partito” (60), tema fondamentale, a parere di Cortesi, per dimostrare che Livorno non nacque da una deformazione mitologizzante dell’esperienza bolscevica ma da un lungo travaglio politico in alcuni settori del PSI, che iniziò almeno a partire dalla guerra imperialista.

La lettera concludeva informando i dirigenti di Mosca della volontà della Frazione, prima del luglio ’20, di fondare il “Partito Comunista Italiano”, prima ancora di una possibile revisione da parte dell’Internazionale del proprio giudizio sul PSI e su Serrati.

Nell’ “Estremismo” Lenin, non conoscendo a fondo la politica del “Soviet” bordighiano, si mostrerà preoccupato di una possibile scissione di minoranza in Italia sulla base cementante del “boicottismo” elettorale (61).

Svanita questa occasione di duplice contatto tra Bordiga e Lenin, l’ “Estremismo, malattia infantile del comunismo”, scritto dal capo bolscevico tra l’aprile e il maggio ’20, riassume nel bene e nel male la conoscenza che l’Internazionale aveva del PSI e dei suoi uomini più rappresentativi.

E’ necessario sottolineare che i bolscevichi rappresentanti il Cominter in Italia, con le loro relazioni inviate a Mosca, non hanno contribuito certamente a una migliore presa di coscienza dei dirigenti dell’I. C. sulla questione italiana.

Ljubarskij (alias Niccolini), rappresentante ufficiale dell’I. C. in Italia, fin dal momento del suo arrivo (settembre ’19) si legò strettamente a livello politico e di amicizia con Serrati, sposandone le tesi politiche sull’unità del partito: “E’ lui – scrive Cortesi – a cui si deve in buona parte, presumibilmente, il lungo equivoco intorno alla disponibilità rivoluzionaria del Serrati” (62).

Alla fine del ’19 giunsero in Italia altri inviati del Cominter, però in posizione subordinata rispetto all’incarico “diplomatico” ricevuto da Ljubarskij: V. A. Degot, S. I. Socholovskaja e D. Riedel.

Il più importante dei tre, Degot, si unì strettamente, come Riedel, a Gramsci e alle tematiche consiliari, affascinato dalla sua cultura e dalla sua personalità politica, polemizzando a lungo con Serrati e Ljubarskij e scrivendo rapporti negativi a Mosca contro la politica dei centristi in Italia e la dubbia personalità politica del loro leader (63).

A parere di Venturi le relazioni di Degot a Mosca erano “certamente controbilanciate da quelle del più autorevole Ljubarskij” (64).

Paradossalmente i due più importanti esponenti dell’I. C. in Italia, prima del secondo congresso dell’I.K.K.I., non ebbero contatti con Bordiga e quindi non contribuirono a sprovincializzare il gruppo napoletano, né a valorizzare a Mosca la sua opposizione di sinistra nel PSI (65).

Nei primi mesi del 1920 era però accaduto un fatto nuovo nei rapporti tra Lenin e il socialismo italiano: nell’ “Estremismo”, distribuito ai partecipanti al secondo congresso dell’Internazionale nell’estate del ’20, in una nota, pur dichiarando di “avere avuto troppe scarse possibilità di conoscere il comunismo ‘di sinistra’ in Italia”, Lenin faceva riferimento a quattro numeri dell’ “ottimo” “Comunismo” di Serrati (numeri 1-4, 1° ottobre-30 novembre ’19) e a due numeri de “Il Soviet” (numeri 3-4 del 18 gennaio e del 1° febbraio ’20) che aveva potuto esaminare.

In questi numeri della rivista Bordiga e i suoi compagni impostavano rigorosamente la questione del partito come scissione dai riformisti, da realizzarsi al più presto.

E’ importante notare la sensibilità tipicamente rivoluzionaria di Lenin nei confronti di questi articoli, che gli aprivano finalmente una nuova prospettiva alla luce della quale poter comprendere la situazione esistente in Italia al di là di ogni tentativo di Serrati di mascherare il suo ruolo centrista: “Il compagno Bordiga e la sua Frazione hanno ragione nei loro attacchi contro Turati e contro i suoi seguaci, i quali restano in un partito che ha riconosciuto il potere sovietico e la dittatura del proletariato, i quali continuano a essere deputati al Parlamento e a svolgere la loro vecchia e dannosissima politica opportunistica. Naturalmente, nel tollerare questo, il compagno Serrati e tutto il Partito socialista italiano commettono un errore, che minaccia di causare lo stesso danno e pericolo già prodotto in Ungheria” (66).

Siamo indubbiamente di fronte a una svolta nei rapporti tra Lenin e Serrati, soprattutto se pensiamo all’atteggiamento di simpatia di Lenin nei suoi confronti per tutto il ’17 e il ’18, temperato però dalla consapevolezza del carattere “zimmerwaldista di destra” dell’azione del direttore dell’ “Avanti!”.

Tuttavia, almeno fino al secondo congresso dell’I.K.K.I., doveva persistere, scrive Cortesi, l’equivoco tra Serrati e l’Internazionale (67).

Infatti è a nostro parere importante sottolineare le conclusioni che Lenin trae da un’intervista rilasciata da Turati al “Manchester Guardian” del 20 marzo ’20 e commentata nell’ “Estremismo”.

Il leader riformista dava un quadro molto realistico dei limiti della politica massimalistica in Italia, delle contraddizioni dell’eclettismo serratiano (anche se questi non era nominato), dell’assunzione mitizzante della rivoluzione bolscevica in Italia, aspetti del socialismo italiano che Lenin, debolmente informato su quello che gli storici definiranno come “la mancanza di una sia pur rudimentale preparazione del concreto lavoro rivoluzionario” nel “Biennio Rosso” (68), non coglieva fino in fondo: “I massimalisti giocano col fuoco delle teorie sovietiche – diceva Turati – soltanto per tenere le masse in uno stato di tensione e di eccitamento”. Anche coloro che più sbandierano queste tesi “si vedono costretti a condurre una lotta quotidiana per conquistare qualche miglioramento economico, spesso insignificante” (699).

Lenin, commentando, definiva il lavoro dei riformisti in Italia “un vero e proprio socialtradimento”, sottolineava “la funzione rivoluzionaria degli scioperi che esplodono con forza spontanea”, l’adesione delle masse alla Russia rivoluzionaria, la ragione di Bordiga nel volere l’espulsione dei riformisti (70); non un cenno invece alla conduzione delle lotte operaie in Italia che metteva in causa soprattutto la direzione massimalista e l’operato di Serrati.

Nella stessa nota precedentemente citata (71) dell’ “Estremismo”, Lenin polemizzava contro Bordiga e la “sua Frazione di ‘comunisti boicottisti’ (comunista astensionista)… quando sostengono la non partecipazione al Parlamento” (72).

Questo argomento era maggiormente sviluppato nel paragrafo “False conclusioni da giuste premesse” (nel frattempo Lenin aveva ricevuto anche il settimo e l’ottavo numero de “Il Soviet”): “Ma il compagno Borgiga e i suoi amici di ‘sinistra’ dalla loro giusta critica nei confronti di Turati e soci traggono la falsa conclusione che, in genere, ogni partecipazione al parlamento sia dannosa” (73).

Indubbiamente molte delle idee proposte da Lenin per combattere l’astensionismo italiano si riferivano, più che altro, al dottrinarismo e al “primitivismo” dei “sinistri” tedeschi e inglesi, i quali ignoravano il problema del partito, che invece era posto con vigore da Bordiga.

Siamo del parere che Bordiga non può assolutamente essere confuso con le diverse correnti della “sinistra” europea, polemiche con l’indirizzo dell’Internazionale (come fa De Clementi riconducendolo alla matrice del cosiddetto “marxismo occidentale”) (74), e in alcuni casi addirittura critiche verso la strategia dell’Ottobre.

Per esempio Pannekoek, in un opuscolo dell’aprile del ’20, caratterizzava in senso blanquista la politica dell’Internazionale, a suo parere basata, osserva Hajek, sulla rivoluzione “per via obliqua”, cioè senza porsi il problema delle condizioni rivoluzionarie e della maturità raggiunta dalla classe operaia (75).

Gortes definiva “giacobini e autoritari” i rapporti tra i bolscevichi e le masse; tendeva a concepire il partito come nucleo solido, omogeneo, ma rifiutava come “opportunista” la politica di apertura alle masse e la conquista di esse (76).

Gran parte di queste idee, legate indubbiamente ai filoni anarchici e libertari, saranno raccolte in Occidente da tutti i detrattori e gli oppositori della politica comunista dell’Internazionale.

Quando Lenin parlava del lavoro “a piene mani” che spettava ai rivoluzionari di ogni paese nei sindacati, nelle associazioni anche reazionarie, nei parlamenti per conquistare le masse e per educare al marxismo l’avanguardia del proletariato, si riferiva alla multiforme attività “legale” che il partito doveva assolvere e che Bordiga aveva in questo periodo intuito.

Tuttavia Bordiga era convinto che la realizzazione della rivoluzione in Occidente avrebbe dovuto superare fasi diverse rispetto alla Russia.

La sottolineatura delle indubbie “diversità” della rivoluzione tra Oriente e Occidente lo portava però a privilegiare la lotta contro l’istituto parlamentare, visto come ostacolo tipicamente occidentale che i rivoluzionari dovevano superare escludendolo dal loro campo d’azione.

Lenin, invece, sul tema delle diversità tra le due rivoluzioni affermava ne “L’estremismo” che in Occidente sarebbe stato più difficile cominciare la rivoluzione, vale a dire conquistare il potere, mentre sarebbe stato più agevole che in Russia consolidarlo ed estenderlo.

Però non c’è dubbio che il leninista “utilizzo rivoluzionario della tribuna parlamentare” escludesse l’elezionismo massimalista di Serrati, semplice radicalizzazione senza prospettive del più lineare parlamentarismo “à la seconde Internazionale” dei riformisti.

Insistere su questi punti ci sembra molto importante perché la letteratura socialdemocratica italiana ha a lungo sfruttato il testo di Lenin per sopravvalutare il ruolo di Gramsci in questo periodo e per giustificare, sulla base dell’ ”infantilità” di alcune tesi di Bordiga, la stalinistica espulsione del 1930 e il silenzio in Italia sulla sua opera negli anni ’50 e ’60 (77).

Il secondo Congresso dell’Internazionale Comunista e le “21 condizioni”

In conseguenza della decisione del Consiglio supremo alleato del 16 gennaio ’20 di togliere il blocco alla Russia sovietica iniziarono, a partire dalla primavera, i primi contatti diplomatici tra lo Stato sovietico e i principali paesi europei coperti da trattati commerciali.

Il PSI, con la formale benevolenza di Nitti, il 3 aprile prese la decisione di inviare in Russia una commissione “tecnico-politica” per studiare lo sviluppo del comunismo in questo paese.

La delegazione italiana era formata da tredici membri: a rappresentare il partito vi erano Serrati, Bombacci e Graziadei, D’Aragona e Dugoni rappresentavano la CGdL; a rendere poco omogeneo il gruppo vi erano anche dirigenti di alcune importanti aziende municipalizzate di Milano, tra cui un socialista riformista appartenente al partito di Bonomi rappresentante la Lega delle Cooperative e l’apartitico Pozzani, “specialista in granaglie” (!) (78).

Partirono per Mosca anche i rappresentanti del Cominter in Italia: Riedel, Ljubarskij, Heller e Scheftel (figura di secondo piano).

Priva di specificità politica e formata in maggioranza da membri anticomunisti, la commissione italiana doveva subito segnalarsi per doppiezza e impotenza nell’affrontare concretamente i problemi più importanti del socialismo mondiale.

Fin dai primi colloqui a Pietrogrado Zinoviev cercò di convincere inutilmente Serrati della necessità di una scissione nel PSI.

Molto probabilmente sarà stato anche l’atteggiamento filoserratiano della Balabanoff a spingere Lenin, in una lettera del 18 giugno, a dare l’incarico a Heller (alias Antonio Chiarini) di individuare “nella stampa italiana citazioni contro Turati e gli altri riformisti, nonché raccogliere, in generale, tutto il materiale per denunciare il riformismo nelle fila del Partito socialista italiano” (79), per potere poi confutare Serrati. Accanto a questa esigenza di smascheramento vi era anche l’indubbia necessità di studiare attentamente tutto l’insieme delle fonti più accessibili per comprendere meglio la sostanza dei problemi del socialismo in Italia.

Nell’importante seduta dell’I.K.K.I. del 19 giugno ’20, la prima in un certo modo rappresentativa a quindici mesi dalla sua nascita, Lenin intervenne e pronunciò un discorso duro contro il PSI. Egli sosteneva che il “marciume dell’ala Turati… impedisce a tutto il partito italiano di incamminarsi completamente sulla linea giusta” e poi, nel resoconto della “Pravda” (20 giugno), biasimò “molto vivacemente il contegno della maggioranza italiana nei confronti della destra riformista” (80). Ormai era chiaro che Lenin era deciso, tramite una ferma pressione, ad operare a favore della scissione nel PSI.

Del resto le “21 condizioni” per ratificare l’adesione all’Internazionale dovevano porre i “centristi” italiani in una posizione dalla quale non si poteva uscire con la solita dimestichezza latina.

Le “21 condizioni” sancivano non solo i principi rivoluzionari alla base del Congresso ma obbligavano a una netta contrapposizione alla socialdemocrazia. Una scelta drastica che modificò fragili equilibri nei vari partiti socialisti europei mettendo a disagio chi pur esaltando la rivoluzione russa esitava alla rottura con i “centristi”.

Il 26 giugno la delegazione italiana fu ricevuta da Lenin. Nel ’21 con una punta di acredine, ma anche con tutta l’ingenuità di cui era capace, Serrati avrebbe ricordato l’episodio e, soprattutto, il momento in cui il colloquio si spostò sul problema della scissione: “Alle nostre affermazioni in contrario, alle nostre preoccupazioni circa la vita e lo sviluppo delle organizzazioni economiche e delle cooperativa di classe, ci rispondeva con dei sorrisi”.

La mentalità moralistica, di impronta tipicamente latina, e un’esperienza politica di tipo burocratico-giornalistica (non priva però di slanci ideali) dovevano impedirgli, nello stesso colloquio, di comprendere il senso della tattica che allora Lenin considerava opportuno per l’Italia: “Separatevi dalla frazione di Turati e poi fate un’alleanza con essa” (81).

Ciò che a noi interessa rilevare è che finalmente si è realizzato tra Lenin e il socialismo italiano uno stretto contatto che non lascerà più spazi ad equivoci di sorta. Le dichiarazioni possibilistiche dei socialisti italiani, i colloqui privati, la massa di informazioni e di dati sulla situazione italiana e all’interno del PSI, permettono finalmente a Lenin un giudizio maturo sul partito italiano.

A proposito dell’effettiva informazione di Lenin sul socialismo italiano, K. Sirinja ha pubblicato un interessante articolo nel quale ha riportato alla luce alcune fitte cartelle di materiali sul PSI che attestano che “Lenin studia nella primavera del 1920 e particolarmente nel periodo antecedente il secondo Congresso del Cominter e dopo di esso, moltissimi documenti del movimento operaio e socialista italiano” (82). A questo proposito Zinoviev, il 29 luglio, dirà a Serrati di possedere “una grande raccolta comprendente forse due o trecento citazioni italiane” (83).

In totale nelle due cartelle citate da Sirinja sono riportati 23 titoli di articoli (probabilmente altre cartelle sono andate perdute) che vanno dal ’18 alla fine degli anni ’20, tratti da “Comunismo”, “Avanti!”, “Ordine Nuovo”, “Il Soviet”, “Critica sociale”. Sirinja fa anche riferimento ad un lungo elenco di libri, precedentemente richiesti da Lenin, ricevuti dall’estero l’8 novembre ’20 (ricordiamo ad esempio di C. Treves, “Crisi di espiazione”; F. Turati, “Il voto alla donna” e “Le salariate dell’amore”; G. M. Serrati, “Dottrinetta reazionaria”; B. Fortichiari, “Lettere a te che leggi”).

“Dai fatti sopra riportati – scrive Sirinja – scaturisce chiaramente che Lenin aveva studiato tutti i più importanti documenti di tutte le correnti politiche in seno al PSI” (85).

A suo parere i documenti citati escludono un luogo comune nella storiografia italiana, ossia che “Lenin e i funzionari dell’Esecutivo del Cominter fossero male informati sulla situazione politica in Italia” (86).

I contrasti tra Lenin e la delegazione italiana, e soprattutto con Serrati, esploderanno pubblicamente nel corso dei dibattiti del II Congresso dell’Internazionale che si aprì a Pietrogrado il 15 luglio e si svolge a Mosca dal 23 luglio al 7 agosto.

Nonostante le obiezioni palesate da Serrati negli incontri delle settimane precedenti con Lenin e Zinoviev, il direttore dell’ “Avanti!” fu eletto alla Presidenza e inserito nel Comitato Esecutivo del Cominter, a dimostrazione della fiducia dei bolscevichi nel direttore dell’ “Avanti!” e nelle sue possibilità di pronto recupero alla causa del proletariato mondiale.

Tra le novità più importanti, rispetto alla delegazione italiana partita per Mosca il 25 maggio, è la presenza, fin dall’inizio del congresso, di Bordiga e Polano.

Konig scrive che secondo un’informazione di Bordiga, trasmessa nel 1964 da Maffi, l’invito di Lenin era pervenuto attraverso il corriere del Cominter Heller-Chiarini. E’ evidente l’intento di Lenin di allargare la rappresentatività della delegazione italiana, troppo impregnata di membri di cui si chiedeva paradossalmente l’espulsione dal partito, per ascoltare le proposte della sinistra minoritaria.

Serrati fece di tutto per evitare che Bordiga avesse diritto di voto, infatti il rivoluzionario napoletano fu ammesso al Congresso solo con voto consultivo. Il voto deliberante era esclusiva solo di Serrati, Graziadei e Bombacci a nome dell’intero PSI.

Il tentativo di Serrati d’inserire D’Aragona nella commissione di lavoro per i problemi sindacali, poi andato a monte per l’opposizione di Bordiga e Bombacci e, successivamente, a causa dell’intervento di Lenin e Zinoviev, spinse il direttore dell’ ”Avanti!” ad un atteggiamento di non partecipazione ai lavori delle commissioni e ad opporsi più volte alle singole tesi discusse con una caparbietà davvero insolita per chi nel PSI era stato sempre molto abile a mediare posizioni politiche contrastanti e che, soprattutto, non aveva mai affrontato seriamente questi problemi sulla stampa del partito.

In realtà la consapevolezza che la “questione italiana” sarebbe stata al centro dell’attenzione al congresso, spinse Serrati ad opporsi a Lenin, redattore delle tesi sulla Questione nazionale, sulla Questione agraria e sindacale.

Serrati era consapevole che l’applicazione delle condizioni per l’ammissione al Cominter, elaborate da Lenin, avrebbe avuto profonde ripercussioni nei già fragili equilibri interni del PSI e che avrebbe stravolto la sua politica unitarista in seno al partito.

Ma il vero motivo della contesa tra Serrati e Lenin era il punto 17 delle “Tesi sui compiti fondamentali del II Congresso dell’I. Comunista.

La tesi, contro cui poi Serrati votò, invitava il PSI a convocare un Congresso straordinario “al fine di correggere la linea del partito e al fine di epurare il partito stesso… dagli elementi non comunisti” e poi riconosceva come “sostanzialmente giuste” le proposte dell’ “Ordine Nuovo” dell’8 maggio ’20 che “corrispondono pienamente a tutti i principi fondamentali della III Internazionale” (87).

Serrati respingeva l’intera formulazione della tesi 17, mentre Graziadei, Bombacci e Bordiga erano in disaccordo con Lenin e Bucharin nella sopravvalutazione del gruppo di Gramsci.

Bordiga, in particolare, aveva rilevato che per le difficoltà interne al gruppo torinese nessun esponente era presente a Mosca; che le direttive sindacali, basate sul ruolo autonomo dei Consigli di fabbrica rispetto al partito, erano contrarie al marxismo; che il gruppo era contraddittorio sulla questione della costituzione dei Soviet prima della rivoluzione; che il tema del partito nuovo e della sua centralità politica era, nel gruppo torinese, in subordine rispetto a motivazioni di tipo pansindacalista.

Del resto il fallimento del cosiddetto “sciopero delle lancette”, ovvero l’agitazione che aveva visto tra il 28 marzo e il 24 aprile impegnate alcune centinaia di migliaia di lavoratori piemontesi, doveva dimostrare l’utopia del “controllo operaio” quando non fosse ancora risolta la questione del partito (88).

Il fondamentale scritto gramsciano di questo periodo, “Per un rinnovamento del Partito socialista”, scritto all’inizio dello sciopero torinese e pubblicato sull’ “Ordine Nuovo” dell’8 maggio, ritenuto da Lenin pienamente conforme alla linea dell’I. C., segna un deciso mutamento dell’ideologia dei “torinesi” ed un primo accostamento, non scevro da ripensamenti, alla contemporanea e più matura elaborazione bordighiana sul tema del partito rivoluzionario.

Molti sono i temi nuovi nello scritto di Gramsci: l’organizzazione dal “basso” dei nuclei comunisti, la costituzione dei Soviet e dei Consigli di fabbrica erano ora posti in secondo piano rispetto alla funzione del partito, in precedenza sottovalutato. Però il tema dell’epurazione dal PSI dei non comunisti era legato al “rinnovamento” del partito “vecchio”, rispetto alla nascita di un partito qualitativamente “nuovo”; anche se, obiettivamente, le caratteristiche che Gramsci dava al PSI “rinnovato” ne facevano un partito d’avanguardia e pronto all’inserimento nel Cominter.

Quindi non possiamo sostenere che Lenin e Bucharin non siano stati capaci di una corretta valutazione dello scritto gramsciano, in realtà di buon livello teorico nonostante alcune ridondanze massimaliste, perché non hanno voluto “esprimere un giudizio sulla linea dell’ ‘Ordine Nuovo’, sulla quale peraltro non possedevano sufficienti documenti” – scrive Konig – ma avevano inteso soltanto indicare un documento limitatamente al quale si riferiva la loro approvazione (89).

Visto il problema in questi termini la presunta consacrazione, tipica della storiografia togliattiana, dell’impostazione ordinovista nell’assise di Mosca risulta svuotata di ogni significato totalizzante (90).

Purtroppo l’insistere anche a Mosca sull’astensionismo doveva precludere a Bordiga la possibilità di diventare, fin da ora, un punto di riferimento preciso nell’Internazionale.

Bucharin e Lenin il 2 agosto scesero in campo contro il leader de “Il Soviet” con toni chiaramente polemici e tesi serrate. L’analisi del “Discorso sul parlamentarismo” di Lenin non lascia spazio a Bordiga: la tesi antiparlamentarista è chiaramente condannata senza attenuanti e giudicata dannosa per l’azione del proletariato.

Nostra impressione è che l’atteggiamento intransigente di Bordiga non permetterà a Lenin di verificare più a fondo la reale maturità dell’esperienza del gruppo de “Il Soviet” alla luce dei problemi che si ponevano nel PSI.

La prospettiva della costituzione del partito rivoluzionario, secondo Lenin, si poteva realizzare solo sulla base di una dialettica consapevolezza della lotta parlamentare e dei suoi fini e non doveva considerarsi prioritaria rispetto a quel lavoro sistematico di educazione, organizzazione e difesa del proletariato (che è il compito fondamentale del partito rivoluzionario), il quale poteva realizzarsi solo sulla base di un energico sviluppo del lavoro “legale” (oltre a quello “illegale”), cioè attraverso l’ “agitazione di tutti i rami della vita sociale”, secondo una classica definizione leniniana.

Nella prospettiva antiparlamentare il partito sarebbe stato condannato a un ruolo minoritario, avulso dal contesto generale della lotta di classe, “puro”, ma non strumento d’avanguardia del proletariato rivoluzionario.

Pur con alcune oscillazioni contingenti Bordiga accetterà poi la decisione dell’Internazionale sul parlamentarismo, consapevole che non era il caso di porre fratture e ritardi a ciò che ormai l’I. C. giudicava più che urgente in Italia: la fondazione del Partito Comunista.

L’adesione tenace di Bordiga alle “21 condizioni” (pubblicate con la sua collaborazione il 23 settembre sull’edizione romana dell’ “Avanti!”), rispetto alla volontà serratiana di mettere a tutti i costi le particolarità nazionali al di sopra degli elementi universali, testimonia una visione pienamente terzo-internazionalista, mentre Serrati, al più, faceva discorsi a là Kautsky e talvolta patetici (si veda la querelle sul “sincéromètre” oppure sulle “953 copie” della “Critica sociale” diffuse in Italia, che mostrerebbero a suo parere il ruolo del tutto subalterno dei riformisti) (91): “Mi spiace che Serrati abbia parlato senza dire niente di nuovo – scrive Lenin – Il suo discorso è di quelli che abbiamo già sentito nella II Internazionale” (92).

Un vero e proprio aut-aut era posto al PSI dalla lettera del 27 agosto che Zinoviev, Bucharin e Lenin avevano consegnato a Serrati: “L’Italia presenta oggi tutte le condizioni essenziali garantenti la vittoria di una grande rivoluzione proletaria…” e quindi “il Comitato esecutivo crede indispensabile dichiarare che esso considera la questione della epurazione (purificazione) del Partito e delle altre condizioni di ammissione alla III Internazionale in modo ultimativo”. La lettera fu pubblicata solo il 12 ottobre sull’edizione piemontese dell’ “Avanti!”.

Sul “Comunismo” del 15-30 settembre Serrati, rispondendo alla lettera, preludeva a quella che sarà poi la polemica contro la “dittatura” di Mosca e i “dittatori” moscoviti quando, riferendosi al Congresso, parlerà dell’ “atto di imperio” e della “grande autorità” dei dirigenti dell’ I. C. (93).

Contemporaneamente Lenin, nella “Lettera agli operai tedeschi e francesi” del 24 settembre, scriveva che “chi parla di ‘dittatura’, ecc. si inganna o inganna gli operai”, e che “dietro simili discorsi si nasconde il fallimento di un certo numero di capi opportunisti” (94).

Serrati terminerà in modo pessimo la sua breve esperienza “bolscevichista” quando nell’ottobre del ’20, in una conferenza a Trieste, contribuì a quei “racconti spaventosi” sulla Russia di cui parla Salvemini nelle sue “Lezioni di Harward” (95) accrescendo il declino del mito russo nel proletariato italiano. Infatti il libello “Il bolscevismo uccide la Russia”, che conteneva passi anche della “Lettera from Russia” di Serrati, è una curiosa mescolanza di motivi martoviani e “marxisti”, di accuse di blanquismo e di giacobinismo accanto alla negazione della rivoluzione in un paese arretrato per sostenere, invece, la via pacifica e di graduale trasformazione delle strutture della rivoluzione tipica dei paesi più evoluti (96).

Naturalmente Lenin non ha mai confuso Serrati con Turati, Kautsky, Legien… L’analisi leniniana del “centrismo” europeo ne faceva una corrente autonoma e ben distinta dall’estremismo di alcuni gruppi tedeschi e dal socialsciovinismo.

Il carattere perennemente oscillante di questa tendenza (che impediva a Serrati di assumere posizioni di “sinistra bolscevica”) era spiegata in relazione al processo di radicalizzazione in atto nelle masse: “Davanti a una base che si andava spostando su posizioni rivoluzionarie e, quindi, avvicinando alla repubblica sovietica e ai partiti comunisti – scrive Corvisieri – una parte dei vecchi dirigenti socialdemocratici cercava di non perdere i contatti assumendo un classico atteggiamento codista” (97).

Verso la scissione

Appena arrivarono a Mosca le prime notizie sulle agitazioni sindacali nell’industria metalmeccanica dell’Italia settentrionale Serrati, Bombacci, Bordiga e Polano rientrarono in Italia. Ciò avvenne il 16 settembre, pochi giorni prima della fine del grande movimento noto come “Occupazione delle fabbriche” dovuta a un mediocre accordo sindacale (19 settembre).

Ormai le prospettive di una maggior politicizzazione delle agitazioni stavano tramontando proprio nei giorni del ritorno degli esponenti comunisti; infatti dal 17 cominciarono le trattative, sotto la presidenza di Giolitti, tra gli industriali e la Direzione dei sindacati sullo sgombero delle fabbriche occupate (98).

Ancora una volta gli avvenimenti battono sul tempo il partito e i suoi uomini migliori, le prove di forza della classe operaia non trovano coordinazione e direzione rivoluzionaria per la paralisi del partito e l’immaturità delle forze comuniste nel PSI.

Così anche questa occasione, che poteva servire almeno per educare le giovani generazioni del proletariato, selezionarne i quadri e verificare le forze in campo, fallisce e le ripercussioni psicologiche tra i lavoratori saranno gravi, coinvolgendo anche il prestigio dell’I. C. in Italia.

Facciamo nostro il giudizio che ha dato Cortesi sull’occupazione delle fabbriche in contrapposizione a quella storiografia che ha enfatizzato “l’occasione perduta”: “Non si può fondare un discorso sulle possibilità rivoluzionarie esistenti in quei giorni e con quella attrezzatura di lotta… L’assenza di ogni tentativo rivoluzionario, sia sul piano della dirigenza socialista e sindacale, sia sul piano della strategia, della tattica e dell’esperienza che devono precedere di lunga mano l’atto di forza” (99), dovevano ricomporre le agitazioni sociali che avevano assunto fin dal primo momento un carattere politico utopistico (“controllo operaio” della produzione e ruolo politico dei Consigli di fabbrica prima della rivoluzione) in un’ottica tipicamente tradunionistica.

E’ opinione comune tra gli storici che l’Internazionale seppe tardi e male ciò che era accaduto in Italia e quindi non potè influire sugli avvenimenti (100); basti pensare che il primo commento sulla stampa russa apparirà solo il 24 settembre sulla “Pravda”. Soltanto il 21 settembre Zinoviev nell’Esecutivo del Comintern esortava il proletariato italiano alla presa del potere ma l’ “Avanti!”, esauritosi ormai il movimento, non pubblicò l’appello (101).

Addirittura Lenin scrive il fondamentale articolo di questo periodo, “A proposito della lotta in seno al Partito socialista italiano”, il 4 novembre “prima che egli abbia avuto notizie sull’atteggiamento infame di D’Aragona e dei sindacalisti opportunisti… che hanno svolto una politica contro il C. C. del loro partito, bloccando di fatto con il ministro Giolitti, facendo fallire l’immenso movimento della classe operaia” (102).

Molto probabilmente, a parere di Konig, Lenin è stato informato solo tra il 4 e il 6 novembre da Zinoviev, di ritorno dalla Germania (aveva incontrato Bombacci a Berlino) , di quanto era accaduto a settembre in Italia (103).

A questo punto anche il passo della “Lettera agli operai tedeschi e francesi” del 24 settembre, che Spriano riconduce a una presa di posizione di Lenin contro l’opportunismo della CGdL (104) in relazione all’occupazione delle fabbriche (“Quando si è giunti a una vera rivoluzione, i Crispien e i Dittmann italiani Turati, Prampolini, D’Aragona hanno subito cominciato ad ostacolare la rivoluzione in Italia”) (105), va ricondotto alla lunga polemica contro Serrati e non a un fatto storicamente preciso.

Addirittura poi in un discorso del 2 ottobre, in piena fase di riflusso delle lotte, Lenin scriveva che “in Italia gli operai hanno incominciato ad occupare le fabbriche… L’Italia si trova oggi in una situazione che non può rientrare in un quadro di pace sociale” (106).

Possiamo chiederci: per quale motivo l’Internazionale non fu informata e il collegamento con l’Italia fu del tutto mancante?

Da parte dell’Internazionale fu fatto tutto il possibile per avere informazioni e dare aiuti concreti. Una delegazione della Lega sindacale russa, che era a Berlino, capeggiata da Lozovskij, tentò inutilmente di arrivare fino a Milano. Il 19 settembre Lozovskij chiese a Serrati e alla CGdL l’impegno per ottenere il visto d’ingresso dal governo italiano (107).

Ripartì per la Russia il 23 ottobre non prima di aver indirizzato alla CGdL una “lettera aperta” polemizzando per la scarsa sensibilità dimostrata nell’occasione dai sindacalisti italiani (108).

Anche Zinoviev, come emerge da alcune lettere scritte tra il 22 e il 23 ottobre a Serrati, tentò di entrare in Italia chiedendo aiuto ai socialisti italiani per ottenere il visto d’ingresso (109). Chiese un colloquio con Serrati a Berlino ma, presumibilmente, parlò solo con Bombacci il quale, come abbiamo già detto, gli riferì sulle caratteristiche del movimento di settembre in Italia.

Evidentemente la fine impietosa del movimento di occupazione delle fabbriche, le gravi responsabilità della Direzione del partito, che tra il 9 e il 10 settembre propone quella che Tasca definirà una “fuga in avanti” (110), ossia dall’occupazione all’ “invasione” e poi, nello stesso giorno, il “gran rifiuto” di fronte alle dimissioni dei dirigenti sindacali, doveva spingere la direzione del PSI a non agitare inutilmente le acque. Gli stretti legami tra la CGdL e il piano Giolitti potevano rafforzare le polemiche di Lenin contro la destra riformista e porre in cattiva luce la direzione centrista. Da qui la “politica del silenzio”.

Ben più informato sulla situazione all’interno del PSI, grazie al “referente” del Cominter Chiarini (alias Heller), Zinoviev riprende una dura polemica con Serrati.

Possediamo a questo proposito un biglietto scritto da Lenin per Chiarini (redatto tra l’11 ottobre e il 4 novembre) in cui chiedeva il testo del discorso di Treves al Convegno della “Frazione di concentrazione socialista” dell’11-12 ottobre e “tutto il materiale sul programma degli ordinovisti” (111).

Solo ai primi giorni di ottobre l’altro rappresentante dell’I. C. in Italia, Carlo Niccolini, ruppe con Serrati al quale era stato molto vicino l’anno precedente (112). Quindi possiamo pensare che da questo momento anche Niccolini abbia contribuito a una migliore informazione a Mosca sulla situazione italiana.

Prendendo spunto da un caustico commento di Serrati del 5 ottobre alla sua “Lettera agli operai francesi e tedeschi” e al’Odg Baratono (firmatario anche Serrati) rimasto in minoranza nella Direzione del 27 settembre-1° ottobre (7 voti a favore contro 5), Odg polemico nei confronti del rispetto delle “21 condizioni” e della scissione nel partito, Lenin poneva sei condizioni al PSI (113).

Le prime due riguardavano il problema del partito, il quale doveva avere “una direzione centralizzata, compatta… per valutare esattamente le condizioni generali e, in particolare, il momento più adatto alle prossime decisive battaglie della classe operaia italiana…”. Il terzo punto era una netta sconfessione della politica di Serrati e dell’ “Avanti!”: “La propaganda svolta attualmente dall’edizione milanese dell’ ’Avanti!’ sotto la direzione di Serrati non educa il proletariato alla lotta ma semina la disgregazione nelle sue file”. Il quarto chiedeva l’espulsione dei congressisti di Reggio Emilia (11 ottobre) in quanto “capaci soltanto di perdere la rivoluzione ‘all’ungherese’ “.

Nel quinto rimproverava la Direzione di non avere accettato le dimissioni di Serrati dalla guida dell’ “Avanti!”, come avvenne dopo la votazione del 1° ottobre; infatti Gennari, segretario politico del partito, lo invitò a continuare il suo lavoro. Lenin dava il suo assenso anche a una dimissione collettiva dei cinque firmatari la mozione Baratono, in quanto “dopo il periodo delle battaglie decisive, essi ritorneranno e saranno allora più utili al proletariato”.

Il sesto punto ricordava gli insegnamenti che il proletariato italiano poteva trarre dalle esperienze del proletariato russo e ungherese nel triennio 1917-20 (114).

Il punto cinque è molto importante perché testimonia come Lenin in questo periodo, di fronte alla difficoltà della scissione in seno al PSI, pensasse a un partito comunista anche di minoranza nel momento del distacco (nel caso che i “centristi” non avessero accettato la nuova realtà e fossero usciti dal nuovo partito), ma capace di recuperare, in un secondo tempo, con la sua forze e il suo prestigio, gli esponenti centristi precedentemente oscillanti e indecisi e con loro larghi strati di proletari. Era un progetto che in Italia veniva perseguito con indomabile energia solo da Bordiga e dal gruppo del “Soviet” in preparazione di Livorno.

L’obiettivo era la costituzione del partito di classe e quindi l’aritmetica non doveva sopravanzare il piano dei principi e della strategia; per cui la linea da seguire per Bordiga doveva essere l’opposizione contro gli “unitari”, con i quali – scrive Bordiga – “il taglio è netto, aspro”; nessuna concessione al vecchio partito insomma ma “immediata uscita dal partito e dal Congresso appena il voto ci avrà posti in minoranza… come un uomo solo” (115).

Bordiga, però, rispetto a Lenin sapeva che la vera linea di spaccatura avrebbe escluso Serrati (il quale, oltretutto, il 21 novembre aveva fondato a Firenze una propria corrente “Comunista unitaria”), mentre Lenin, nel mese di novembre, sembrava credere che il direttore dell’ “Avanti!”, pur dimissionario e inattivo, potesse far parte dei quadri del nuovo partito comunista, seppure in posizione subalterna.

La replica di Serrati, “Risposta di un comunista unitario al compagno Lenin”, doveva dimostrare che la scissione ci sarebbe stata ma senza una sua attiva partecipazione: “Noi non siamo dei difensori dei riformisti. Difendiamo il partito, il proletariato, la rivoluzione da un’insana mania di distruzione e di demolizione” (116).

La decisione di Lenin di non rispondere a questa “Lettera aperta” doveva sottolineare un conflitto ormai insanabile.

Le attenzioni dell’I. C. in questo momento del ’20 erano indirizzate verso il raggruppamento a sinistra di Serrati, il quale si stava rafforzando autonomamente (in accordo con Heller), sulla base della confluenza tra ordinovisti e bordighiani, una volta caduta la pregiudiziale dell’astensionismo, in relazione agli insegnamenti scaturiti dal fallimento dell’occupazione delle fabbriche.

In una lettera dell’I. C., firmata anche da Lenin, del 23 ottobre la Frazione comunista (che si era costituita a Milano il 15 ottobre grazie al lavoro di Bordiga e alla collaborazione di Bombacci, Fortichiari, Repossi, Gramsci, Misiano, Polano e Terracini) era definita l’ “unico serio appoggio dell’I. C. in Italia” (117).

E’ chiaro che in questi mesi, dopo la fine del congresso moscovita, vi era stato uno spostamento di giudizio dell’I. C. sulla politica del PSI: “L’Internazionale – scrive Cortesi – ora si riconosceva rappresentata in Italia unicamente dalla Frazione comunista” (118).

Contemporaneamente arrivarono in Italia consistenti aiuti finanziari a favore della Frazione. Il 14 novembre, pochi giorni dopo il ritorno in Italia di Bombacci, inizia la pubblicazione a Bologna de “Il Comunista”, diretto dallo stesso Bombacci, organo centrale della Frazione.

Dopo la rottura del 17 ottobre tra l’ “Avanti!” piemontese, controllato dagli ordinovisti, e Serrati, l’edizione torinese del quotidiano e l’ “Ordine Nuovo”, diventato quotidiano comunista, uscirono regolarmente grazie ai contributi del Cominter.

Ormai la scissione era in atto e Livorno l’avrebbe ratificata.

Note al capitolo quarto