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Lenin e il movimento operaio italiano – Capitolo quinto – Il Congresso di Livorno e la fondazione del Partito Comunista d’Italia

Capitolo Quinto

Il Congresso di Livorno e la fondazione del Partito Comunista d’Italia

Ultimi rapporti tra Serrati e l’Internazionale prima della scissione

Rispetto alla fiducia del Cominter, espressa da Zinoviev il 3 novembre, di conquistare la maggioranza del proletariato italiano con la costituzione del PCd’I, nei giorni immediatamente precedenti l’apertura del congresso di Livorno è importante registrare il mutamento del giudizio dell’I.K.K.I. sulla tormentata situazione italiana: “Quale rapporto di forze emergerà al congresso intorno alla nostra piattaforma è molto difficile giudicare in questa sede – dirà Zinoviev il 9 gennaio in una seduta dell’Esecutivo dell’I. C. – è possibile che noi si rimanga in minoranza” (1).

In precedenza, appunto, il 3 novembre, Zinoviev aveva dichiarato in una seduta dell’Esecutivo dell’I. C.: “I comunisti capeggiati da Bombacci, Bordiga e Terracini… affermano di avere con sé il 75-90% del partito (socialista ndr)… io ritengo che nell’attuale situazione politica qualsiasi compromesso con Serrati e i ‘comunisti unitari’, sarebbe oltremodo dannoso” (2).

Secondo Berti era stato Bombacci a parlare, un po’ avventurosamente, durante i lavori del II Congresso, di una possibile maggioranza dell’85% (3); ma non c’è dubbio che dopo le agitazioni operaie e il fallimento a settembre della politica riformista (occupazione delle fabbriche) i comunisti italiani (ma ciò è problematico soprattutto per Bordiga) pensassero, se non proprio alla conquista della maggioranza, almeno a un consistente rafforzamento.

Per capire le cause del mutamento delle previsioni della dirigenza del Cominter, in precedenza sicura di una confluenza decisiva di voti unitari sulla mozione comunista di Livorno, è necessario esaminare i rapporti, negli ultimi mesi sempre più lacerati, tra Serrati e l’Internazionale.

Il direttore del quotidiano socialista aveva scritto a Zinoviev il 17 novembre e il 7 dicembre chiedendogli un colloquio per strappare un compromesso al Cominter e frenare le spinte scissionistiche più forti dopo il Convegno della Frazione comunista a Imola (28 novembre), vera e propria “costituente del Partito (comunista)” (4).

Zinoviev rispose il 25 dicembre dichiarandosi d’accordo sull’incontro, ma Serrati nell’imminenza del congresso e forse consapevole del probabile insuccesso delle sue richieste, non partì alla volta di Reval (5).

Secondo quanto riferisce Konig, in base alla relazione stesa dall’addetto militare della legazione italiana a Stoccarda, prima del 15 novembre Serrati tentò di mettersi in contatto anche con Lenin per invitarlo a un compromesso che evitasse soprattutto la denuncia in Italia degli ingenti aiuti finanziari accordati al PSI, senza che da parte del gruppo dirigente del partito vi fosse stato il rispetto degli accordi presi con l’I. C. (6).

Le esitazioni di Serrati, le sue indecisioni (che erano le stesse della sua “Frazione unitaria”), dovevano sottolineare un conflitto sempre più aspro e lacerante, tanto da rendere inutile ogni ipotesi di ricomposizione.

Ormai l’I. C. era decisa a creare in Italia il partito a qualunque costo e contro ogni ostacolo anche emarginando il “serratismo” dal comunismo mondiale sulla base di una scissione di minoranza.

Sempre il 9 gennaio l’I. C. poneva un ultimatum all’imminente Congresso del PSI, firmato da ben diciannove dirigenti tra cui Lenin: “Prima di sapere quale sarà la maggioranza che si costituirà nel vostro congresso, il Comitato esecutivo dichiara ufficialmente e in modo assolutamente categorico al congresso stesso: le decisioni del secondo congresso mondiale dell’Internazionale comunista obbligano ogni partito aderente a questa Internazionale a romperla coi riformisti. Chi si rifiuta di effettuare questa scissione viola una deliberazione essenziale dell’Internazionale comunista e con questo solo atto si pone fuori dalle file dell’Internazionale stessa… il Partito comunista deve essere creato in ogni modo” (7).

Contro l’ottimismo di alcuni dirigenti comunisti, ad esempio Bombacci, in Italia solo Bordiga lavorava da mesi pensando e preparando il nuovo partito a una scissione di minoranza, ponendo più volte il problema sulla stampa e contrapponendosi a Graziadei e alle sue proposte “passerella” a Imola.

Quando si aprì il 15 gennaio ’21 il 17° Congresso del PSI ormai i giochi erano fatti: si trattava solamente di vedere, al termine dei lavori, quali sarebbero stati i rapporti di forza fra le frazioni principali.

Livorno, l’Internazionale e Lenin

Il primo giorno fu letto il messaggio dl Comitato esecutivo dell’I. C. del 9 gennaio firmato da Zinoviev e dai rappresentanti dei partiti membri (per la Russia anche da Lenin) (8).

L’azione dei serratiani era condannata in quanto “in nome dell’unità con i riformisti… sono di fatto pronti a sganciarsi dai comunisti e quindi anche dall’Internazionale comunista” (9).

Del resto l’ultimo tentativo del Cominter di trovare un compromesso per indurre il “centro” a fare concessioni era fallito. I rappresentanti dell’I. C. al congresso erano Kabakcev e Rakosi, dopo che Zinoviev e Bucharin non avevano avuto il visto d’ingresso in Italia; il 15 gennaio essi ebbero un improduttivo colloquio con Serrati. Questi contatti con Serrati continuarono anche nei giorni successivi ma inutilmente, nonostante l’intervento al congresso di Paul Levi, rappresentante della VKPD, incline a un patteggiamento con i centristi espellendo i soli riformisti.

Nei giorni seguenti, davanti all’insistenza di Levi, Rakosi “telegrafa a Mosca per chiedere ulteriori direttive e da Mosca lo autorizzano a persistere sulla linea di rottura con Serrati” (10).

Anche il discorso dalla tribuna di Kabakcev del 16 è una violenta requisitoria contro Serrati, tale da non lasciare spazio al dialogo: “Oggi i nemici più pericolosi della rivoluzione proletaria sono i centristi… nel movimento operaio internazionale, il centro è oggi il principale sostegno del dominio della borghesia e della controrivoluzione internazionale” (11).

Kabakcev ripetè le medesime argomentazioni contro Serrati, inasprite dopo alcuni giorni di tormentato dibattito, anche nell’ultima seduta del 20 gennaio.

Nel discorso di Serrati al congresso erano ribaditi tutti i punti di dissenso con l’I. C., già espressi in altre occasioni, ed era valorizzato il ruolo del PSI anche a livello europeo come “baluardo” contro il dilagante fascismo.

Come ha notato Cortesi, nel discorso di Serrati largo spazio era lasciato ai “pettegolezzi”, e poco alle questioni più importanti (12), segno, a nostro parere, che il centrismo socialista non aveva ancora capito che con Livorno si sarebbe aperta una nuova pagina per il movimento operaio italiano.

Del resto anche il discorso di Baratono, oratore principale dei centristi, non lasciava spazio a mediazioni o alla ricerca di punti di convergenza: “La presenza e l’autorità che si dice avere nel partito socialista questa nuova destra non è una causa della mancata rivoluzione, ma è semmai, un effetto: dimostra appunto che le condizioni dell’Italia sono tali che questi destri sono ancora oggi compatibili… “ (13).

Le reazioni dell’Internazionale dopo l’avvenuta scissione non si fecero attendere. Il 25 gennaio l’I. C. inviò al nuovo partito un messaggio firmato anche da Lenin: “Il vostro Partito è l’unica sezione dell’Internazionale comunista in Italia. noi siamo profondamente persuasi che gli operai coscienti del vostro paese passeranno di giorno in giorno dalla vostra parte… L’avvenire sarà vostro e non di coloro che sotto una forma o l’altra vogliono intendersi con la borghesia essendone intermediari, i riformisti” (14). Alla fine di marzo Zinoviev indicherà Bordiga e i suoi compagni come “il nocciolo più sicuro del nuovo partito comunista” (15).

Non vi sono significativi interventi di Lenin tra Livorno e il III Congresso dell’I. C. (giugno-luglio ’21) sulla questione italiana, comunque, in alcuni discorsi, egli aveva sottolineato i sensibili progressi dell’I.K.K.I. in diversi paesi europei tra cui l’Italia dopo il II Congresso: “In Germania, in Francia e in Italia l’Internazionale comunista è diventata non soltanto il centro del movimento operaio, ma il centro dell’attenzione di tutta la vita politica in questi paesi” (16). In un discorso del 27 marzo sosteneva: “In tutti i paesi l’avvenimento principale di quest’anno è che dai partiti socialisti e socialdemocratici… completamente disgregati e rovinati, è sorto il partito comunista che si appoggia su tutto quanto vi è di progressivo nella classe operaia” (17).

Queste citazioni pensiamo possano dimostrare che l’Internazionale e Lenin diedero un giudizio positivo sulla scissione e sul nuovo partito al momento della sua costituzione. Naturalmente fino all’ultimo Lenin sperò che Serrati si sarebbe piegato e avrebbe espulso i riformisti o, quantomeno, che la gran massa degli iscritti avrebbe seguito Bordiga nella scissione.

Tramontata questa possibilità, soprattutto a causa della forte presa sulle masse del “serratismo”, Lenin doveva difendere il partito e poi porre, come avverrà al III Congresso dell’I. C., il problema della conquista delle masse quale compito prioritario del nuovo organismo politico.

Ciò che vogliamo dire è che a Livorno non era possibile altro risultato che quello effettivamente ottenuto dai comunisti (la mozione di Firenze dei “comunisti unitari” di Serrati riportò 98.028 voti; quella riformista 14.695 voti; la mozione comunista “pura” di Imola 58.783 voti più 50.000 aderenti della FIGS), e che l’I. C. e Lenin hanno favorito proprio questa modalità di scissione la quale ha rappresentato un’indubbia sconfitta delle proposte unitariste di Serrati e una decisa affermazione del nuovo partito.

Anzi, riguardando con il cosiddetto senno del poi le vicende dei primi anni del nuovo partito, si potrebbe dire che il taglio è stato troppo a “destra”, nonostante le vive preoccupazioni di Bordiga di non inquinare fin dall’inizio il nuovo partito, permettendo l’ingresso nel Comitato centrale di elementi oscillanti o di diversa formazione politica. Prima di tutto la ristretta pattuglia dei “pentiti” del massimalismo capeggiati dal confusionario Bombacci (definito “rivoluzionario da temperino” da un serratiano al congresso) con Gennari e Belloni; Misiano invece, per le sue esperienze di lotta e per la sua coerenza va avvicinato al gruppo degli ex-astensionisti. Anche il gruppo della “circolare” Graziadei-Mirabini, che fino all’ultimo tentò di evitare la scissione da Serrati, era rappresentato nel C. C. del partito da Marabini.

Ben strana la presenza nel PCd’I, e la partecipazione alla scissione, del prof. Graziadei, il quale, pur dichiarandosi marxista, aveva pubblicato libri dal controverso valore scientifico, in cui giudicava errata la teoria del valore di Marx (18).

Gramsci, in una nota dal carcere, darà del teorico neorevisionista un ritratto severissimo (“Era dei più destri opportunisti… un liquidatore del partito”), chiedendosi come abbia potuto divenire comunista un uomo rimasto sul terreno dell’elaborazione teorica della Seconda Internazionale (19).

Del gruppo dell’ “Ordine Nuovo” entrarono nel C. C. Gramsci e Terracini; accanto a loro, nel momento della scissione, anche il “destro” Angelo Tasca, nonostante le tante obiezioni di principio e il giudizio sulla situazione italiana nel ’21 aperta, a suo parere, a profonde riforme democratiche e quindi non rivoluzionaria.

In ogni caso la maggioranza era con Bordiga: con lui gli ex-astensionisti Grieco, Parodi, Sessa e Tarsia; Fortichiari, Repossi e Polano, pur provenendo da altre esperienze (i primi due dalla classe operaia milanese, il terzo dai quadri rivoluzionari della FIGS), dimostravano di essere allineati alle posizioni del fondatore del partito. Il Comitato esecutivo era composto da Bordiga, Fortichiari, Grieco, Repossi e Terracini.

A questo punto sarebbe opportuno aprire una breve parentesi per dimostrare che i rappresentanti del Cominter in Italia non svolsero alcuna vera azione di chiarimento teorico-politico in occasione della scissione (20).

Come già detto Ljubarskij, dopo il II Congresso, prese posizione contro Serrati e il centrismo sostenendo la scissione dai riformisti. Scrisse molti articoli sull’ “Ordine Nuovo” continuando a polemizzare contro le tesi conciliariste che i torinesi stavano poco a poco abbandonando, ma senza mai sottolineare il ruolo che Bordiga stava svolgendo in quei mesi a favore della costituzione del nuovo partito. Seguì il congresso di Livorno e redasse un “Rapporto al C. E. del Cominter sulla scissione del Partito socialista italiano” (pubblicato dalla sezione stampa dell’I.K.K.I. nel ’21), una delle fonti, secondo le ricerche di Sirinja, dell’informazione di Lenin su Livorno (21), in cui ribadiva le sue tesi antiserratiane.

Degot non partecipò attivamente alla scissione ma espresse idee vicine a quelle di Levi, ossia evitare una scissione di minoranza ricercando un compromesso con Serrati (“A questo spirito – scrive – erano informate le direttive del Cominter”) (22). Dopo il primo entusiasmo per Gramsci e la successiva delusione per Bombacci (“è un romantico, un uomo dominato dagli stati d’animo, anche se indubbiamente è un devoto rivoluzionario”) (23), Degot riterrà inopportuno un distacco da Serrati, soprattutto per il suo carisma nel partito.

Segno della sua scarsa autorità in Italia resta il fatto – scrive Venturi – “… che egli, pur sempre inviato autorizzato dal Cominter, non ebbe mai modo di conoscere personalmente Bordiga…” (24).

Il terzo rappresentante dell’I. C. in Italia, in qualità di “referente” (ruolo non privo di importanza in quanto “inviava puntualmente a Mosca dettagliati resoconti di tutto ciò che veniva pubblicato e discusso in Italia sui problemi del PSI” (25), fu Heller-Charini, un rivoluzionario russo poi giudicato negativamente da alcuni comunisti italiani per le sue scarse conoscenze teoriche e per il suo carattere ombroso, tipico di larga parte del rivoluzionarismo russo preleninista (26).

Inviò alcuni rapporti a Lenin prima del II congresso dell’I. C., come abbiamo già scritto, mise in contatto Lenin con Bordiga al tempo del II congresso, ricompose le correnti comuniste che si erano incontrate a Imola nel novembre ’20 evitando una pericolosa rottura, ma la sua personalità equivoca dette modo a Serrati di polemizzare contro gli “occhi” di Mosca in Italia, contro l’ “eminenza grigia” che inviava rapporti segreti al vertice dell’I. C. (dominato, per Serrati, da una vera e propria “massoneria rossa”) generando confusione, equivoci e sottolineando implicitamente anche l’eterogeneità e l’ambiguità degli altri rappresentanti dell’I. C. in Italia (27).

Dall’oggettiva debolezza dei rapporti tra l’Internazionale e i diversi partiti socialisti e comunisti in Europa nel biennio 1919-20, Serrati ricavava la falsa tesi che il Cominter, soprattutto dopo il II Congresso e a Livorno, non doveva imporre alcuna decisione extra-nazionale perché scarsamente informato sulle particolarità di ogni paese.

Da questa breve analisi non può non risaltare la parte attiva svolta da Bordiga a Livorno e nei mesi precedenti, nonostante le difficoltà dei rapporti con Mosca, aggravate dal carattere non genuinamente bolscevico di coloro che avrebbero dovuto permettere un’efficace traduzione della politica comunista dell’I. C. in Italia.

La polemica su Livorno nella storiografia togliattiana

La storiografia marxista non “ufficiale” ha sempre riconosciuto l’importanza di Livorno, sottolineando che la nascita del PCd’I “fu il primo e vero tentativo da parte della classe operaia italiana di darsi una direzione rivoluzionaria. Occorre però riconoscere – scrive Del Carria – che prima di Livorno non era mai esistito un partito rivoluzionario delle classi subalterne” (28).

Che i risultati di Livorno siano importanti politicamente e rappresentino effettivamente le forze del comunismo in Italia nel 1921 è molto importante sottolinearlo, perché già dal 1923 la polemica di Gramsci contro la cosiddetta leadership di Bordiga e contro l’indirizzo che l’ex-frazione astensionista dette al partito, voleva mettere in discussione “il modo in cui si preparò la scissione, la sua effettuazione, se non il suo approdo” (29).

In sostanza Gramsci collega la vittoria del fascismo all’incapacità del proletariato di predisporre un’adeguata difesa politico-militare, ma da questa giusta constatazione metteva in dubbio la validità della linea Bordiga a Livorno, il “modo” della scissione, l’indirizzo dato al partito nei due anni successivi, arrivando a sostenere che non essere riusciti a portare al Teatro san Marco e all’I. C. la maggioranza del proletariato italiano è stato “senza dubbio il più grande trionfo della reazione” (30).

Facendo propria questa lettera di Gramsci a Togliatti del luglio ’23 Spriano scrive che a Livorno i comunisti “non riuscirono a trascinare con sé… né la maggioranza delle forze operaie e contadine influenzate dal PSI, né quei dirigenti più coraggiosi e fedeli alla causa rivoluzionaria (come lo stesso Serrati) che pur dovevano compiere questo passo più tardi” (31).

A riprova di questa affermazione Spriano ricorda che i serratiani a Livorno, dopo la scissione, riaffermarono con l’odg Bentivoglio, la loro adesione alla III Internazionale, ma non va dimenticato che con loro c’erano i riformisti e già questa ingombrante presenza doveva togliere alla loro decisione ogni significato. E poi pensare che la scissione (così nella serratiana mozione Bentivoglio), fosse nata “sulla base di un dissenso di valutazione ambientale contingente che doveva e poteva essere eliminato con opera di amichevole chiarimento” (!) (32), voleva dire non aver capito che Livorno rappresentava non la continuità ma la rottura con il passato.

Le idee di Gramsci troveranno un più ampio sviluppo nelle critiche della minoranza di “destra” del partito alla direzione bordighiana, soprattutto in Tasca, Graziadei e Roveda. Per esempio Tasca in “Nascita e avvento del fascismo” sostiene che la scissione settaria e di minoranza, con il rigido dottrinarismo del partito nei due anni successivi, sono corresponsabili dell’avvento del fascismo (33).

Le critiche di Gramsci potrebbero apparire ingiuste se per esempio pensiamo alla sua passività a Livorno; infatti non prese la parola (nonostante le ripetute sollecitazioni dei suoi compagni di Torino) né contrastò in qualche modo la rottura in atto. Durante il congresso fu il bersaglio principale delle polemiche dei massimalisti quando verrà ricordato il suo giovanile interventismo, il “bergsonismo” e l’idealismo di fondo della sua cultura.

La sua crisi politica dopo il fallimento dello “sciopero delle lancette” e dell’occupazione delle fabbriche, i dissensi nel gruppo ordinovista, il difficile accostamento alla strategia di Bordiga, spiegano il silenzio del rivoluzionario sardo a Livorno. Addirittura rischiò di non essere eletto nel C. C. del nuovo partito. Nelle elezioni del 15 maggio ’21 non fu eletto alla Camera.

Dopo l’intervento dell’I. C. nell’aprile del ’23, quando sarebbe stato formato il nuovo Esecutivo italiano attraverso l’emarginazione di Bordiga (per arrivare all’espulsione del fondatore del PCd’I nel 1930) nasce una “leggenda” nella ricostruzione della storia del partito canonizzante la linea gramsciano-togliattiana contro tutte le “deviazioni” di destra e di sinistra nella quale veniva esagerata l’influenza nel costituendo PCd’I della linea dell’ “Ordine Nuovo”, denigrata (con tipico metodo stalinista) non solo la politica ma anche la personalità di Bordiga, nascosta o manipolata ogni vicenda che potesse, in un modo o nell’altro, dimostrare nelle biografie di Gramsci e Togliatti una linea politica non compatta e infallibile.

Tappe principali di questa deformazione della storia sono “Natura controrivoluzionaria del bordighismo” di Berti (34) e “Conversando con Togliatti” del ’53 (35).

Nel primo testo il linguaggio era da “purghe staliniane”: “Questo piccolo borghese che si riempie la bocca di frasi scarlatte in realtà era infarcito di pregiudizi sciocchi e retrogradi, era presuntuoso, tronfio, ignorante e razzista” (36).

Se teniamo conto che Berti era stato seguace di Bordiga (lo è anche Togliatti dal ’21 al ’23) e suo amico personale, ci rendiamo conto dei guasti che lo stalinismo ha introdotto nel movimento operaio italiano.

Nel secondo testo il linguaggio era appena più controllato ma la “sfasatura tra storia e politica che era propria del periodo staliniano – scrive Cortesi – la formazione di una leggenda che riduceva la storia del partito al ‘racconto a rovescio’ della genesi e delle gesta di quel gruppo dirigente (ordinovista)…”, la “messa ai margini” della sinistra bordighiana, erano le caratteristiche precipue della ricostruzione storica che Togliatti faceva (37).

Anche la recente storiografia legata al Partito Comunista Italiano, per esempio Spriano nella sua “Storia del PCI”, senza dubbio più aperta e coraggiosa della precedente, non ha ancora risolto alcuni nodi strutturali perché non vuole intaccare il tradizionale patrimonio storico-politico del partito.

Secondo Cortesi questi nodi politici sono principalmente due: “Le origini non ordinoviste del comunismo italiano… la storia del proletariato italiano come classe rivoluzionaria insofferente di tradizioni nazionaldemocratiche e di strategie riformiste” (38).

Il nodo storico del “ritardo”

Il problema veramente importante da affrontare, a nostro parere (piuttosto che il presunto “infantilismo” del primo gruppo dirigente del partito) è il nodo storico del “ritardo” con il quale il partito è nato a Livorno rispetto alle fasi di ascesa del movimento di classe da Caporetto fino alla occupazione delle fabbriche nel settembre del ’20.

Questo è un problema che abbiamo già in parte affrontato nei capitoli precedenti in relazione ai processi di maturazione della Rivoluzione d’Ottobre nella sinistra socialista.

Certo è che i complessi processi di chiarificazione che si stanno svolgendo in questi anni all’interno del PSI raggiungono la loro piena maturazione quando la spinta della classe operaia si è ormai andata esaurendo; questa “forbice”, che è resa via via più drammatica dalla crescente pressione delle forze reazionarie fasciste, non potrà più essere chiusa, neppure dopo Livorno.

Bordiga fu certamente il primo a porre concretamente il problema della nascita del partito comunista ed è la sua una elaborazione teorico-politica di grande rilievo e di grande lucidità che la rendono punto di riferimento essenziale per il processo di formazione del partito rivoluzionario.

Però nell’attività politica di Bordiga nel ’19-‘20 emergono limiti che contribuiscono a rinviare i tempi delle scelte risolutive. La certezza dell’incapacità rivoluzionaria del PSI non si traduce in un lavoro immediatamente orientato alla scissione e alla creazione del partito rivoluzionario, ma si esprime in una forma di intransigenza antielezionista che finisce col mostrare i segni del determinismo.

L’astensionismo di Bordiga limita la possibilità di mobilitare i comunisti nel PSI, sospinge molti militanti verso i massimalisti e, in definitiva, ritarda una vera selezione dei marxisti rivoluzionari che può avvenire solo sui temi politici fondamentali affrontati con la “bussola” del marxismo.

Siamo del tutto d’accordo con la prospettiva di Damen: “L’errore commesso a Bologna dagli astensionisti fu quello di aver posto l’accento non sulla necessità della scissione e della costruzione del partito ma sul problema dell’astensione. L’errore è tutto qui: avere immobilizzato la fusione, formata da autentici quadri, dietro il presupposto del tutto teorico dell’astensionismo e non essersene serviti come base essenziale della polarizzazione delle forze verso l’obiettivo del partito di classe” (39).

Anche nella polemica che si sviluppò con l’I. C. Bordiga, che pure porta valide argomentazioni a sostegno del rifiuto dell’elettoralismo riformista e da quello subdolo dei serratiani-lazzariani, assolutizza la sua posizione.

Solo a Imola (novembre ’20) verrà costituita la Frazione comunista basata su posizioni chiare che troveranno ampio sviluppo a Livorno: adesione del nuovo partito all’I.K.K.I. sulla base delle condizioni fissate a Mosca, mutamento del nome del partito, incompatibilità della presenza nel PCd’I dei riformisti e di tutti coloro che avessero dato voto contrario al programma comunista e all’osservanza delle “21 condizioni”.

Naturalmente vi sono altre cause, già analizzate nelle pagine precedenti, che spiegano il nodo problematico del ritardo della fondazione del partito leninista in Italia: l’assenza del marxismo nella tradizione del socialismo italiano, il carattere “intransigente” della corrente massimalista che si afferma a Reggio Emilia (1912) e dominerà fino a Livorno, il contraddittorio sinistrismo di Serrati, il difficile e tormentato approdo al marxismo di Gramsci e del gruppo dell’ “Ordine Nuovo” dopo il superamento della lunga fase di adesione spontaneistica alla lotta operaia, il ritardo della nascita dell’I. C., in ragione del anche del “cordone sanitario” intorno alla Russia rivoluzionaria… E non è esagerato affermare che il II Congresso dell’I. C. dell’estate del ’20 sarà in realtà il primo della sua storia: “Il solo ritardo di qualche anno (ma si trattò degli anni delle svolte improvvise e decisive) – scrive Damen – aveva fatto sì che la creazione del Partito Comunista si inserisse in un momento in cui erano venute a mancare le condizioni obiettive per prendere la direzione dell’offensiva rivoluzionaria ed urgente l’impegno tattico di difendere le conquiste del proletariato dall’assalto delle forme della reazione fascista” (40).

Pensiamo che siano soprattutto questi i problemi più interessanti che la storiografia marxista dovrebbe affrontare organicamente superando definitivamente le posizioni ideologizzanti della storiografia togliattiana.

Una prospettiva di questo genere porterebbe a rivalutare la figura di Bordiga, a superare la “patologia antibordighiana” ancora oggi presente, a parere di Cortesi, nell’ultima storiografia del PCI, riconoscendo in lui chi per primo ha avvertito teoricamente e politicamente la necessità del partito leninista in Italia e il problema del superamento del “ritardo” di cui abbiamo già parlato.

Uno strumento politico d’avanguardia: il partito leninista

La coscienza dello sfasamento tra il movimento delle lotte operaie, che toccano l’apice nella seconda metà del ’20, e la necessità del partito spingono Bordiga, a Livorno, a dare un particolare tono al suo discorso evitando le ridondanze di Kabakcev sulle potenzialità del periodo storico in corso e le recriminazioni sull’occupazione delle fabbriche, a parere del rivoluzionario russo, “atto rivoluzionario per eccellenza” (41).

Anzi Bordiga nel ’19 e ’20 era stato estremamente realistico nel valutare la situazione italiana, al di là della faciloneria massimalista, e nel giudicare gli avvenimenti: “Perché lo slancio rivoluzionario delle masse si è arrestato? – si chiederà nel maggio ’21 – Le cause sono semplici. Prima di tutto esso era più apparente che reale. Era fatto più di rinculo borghese che di attacco proletario. Sotto non c’era né una coscienza politica definita, né un’organizzazione di combattimento rivoluzionaria” (42).

Proprio il problema del partito come requisito indispensabile per la rivoluzione e “costruzione definitiva della storia”, è alla base della relazione presentata dalla “Frazione comunista” scritta da Bordiga e Terracini (43).

L’analisi partiva dal generale fallimento, dimostrato storicamente dai fondatori del marxismo, di ogni ideologia democratica che tenti di amalgamare in una sintesi politica e sociale gli interessi contrastanti della borghesia e del proletariato. Veniva contestato anche il “progresso” borghese in quanto capace solamente di preparare crisi economiche e guerre imperialiste.

Dall’analisi della struttura economico-sociale della società capitalistica sulla base dei rapporti di produzione veniva esaminato il ruolo storico della classe operaia tendente a “un vasto conflitto per il rivoluzionamento di tutto il sistema dei rapporti produttivi”. Il proletariato, “classe chiamata a spingere innanzi la storia”, per potere agire come classe, “ossia con finalità generali e storiche”, ha bisogno del “partito politico di classe” formato da una minoranza attiva, capace, conoscendo le condizioni in cui avviene il conflitto tra borghesia e proletariato, di spingere avanti il movimento di classe, di infondere la coscienza politica in vasti strati di operai e contadini, di dare finalità politiche anche alle lotte economiche immediate.

Le tesi ordinoviste erano rifiutate in quanto subordinavano la funzione del partito che invece deve essere l’unico rappresentante del proletariato e l’unico strumento in grado di trasformare larghi strati eterogenei di lavoratori in classe, ossia capaci di coscienza storica e quindi volontà e azione.

Il partito “qualità” doveva rifiutare la concezione del partito “quantità” in quanto un allargamento delle strutture a strati operai ancora poco coscienti ne avrebbe fatto un organismo capace di lavorare solo su “obiettivi immediati e contingenti a scapito del supremo risultato rivoluzionario”; invece il Partito comunista (sempre nella relazione di Bordiga a Livorno) doveva differenziarsi da ogni altro organismo proletario per “coscienza critica e teorica, decisione nell’azione – caratteristiche per le quali è soprattutto indispensabile condizione l’omogeneità di vedute e di volontà dei suoi membri – che in nessun altro organo proletario esiste né può pretendersi che esista”.

Anche in Lenin la diffusione della scienza marxista nella classe “dall’esterno”, come processo formatore della coscienza politica, presuppone il partito e non un qualsiasi organismo di rappresentanza: “La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il campo dal quale soltanto è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi, di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti di tutte le classi” (44).

Ripensando alla concezione del partito in Lenin, a partire dal 1902 fino al 1912 e, soprattutto, ai dati di fondo del “Che fare?”, emerge una precisa somiglianza tra l’elaborazione teorico-politica di Lenin sul partito e la sua traduzione in Italia con Livorno.

Il partito quale necessaria premessa oggettiva della rivoluzione, il partito capace di far superare all’operaio l’unilateralità della dimensione di fabbrica, nella quale ha solo mansioni esecutive, e grazie al quale “da esecutore diventa iniziatore, da massa capo e guida” (45), il partito coscienza critica del movimento di classe e quindi in grado di superare lo spontaneismo delle lotte economiche e il tradeunionismo della coscienza proletaria attraverso un’azione dall’”esterno”; il partito leninista antitesi radicale di tutte le correnti giacobine e blanquiste e, contemporaneamente, delle organizzazioni socialiste della II Internazionale, la valorizzazione dell’operaio “intellettuale” quale migliore “rivoluzionario di professione” e nucleo solido del partito, rispetto all’intellettuale “puro” e staccato dalle masse, tipico della tradizione socialdemocratica: sono tutte caratteristiche che ritroviamo nel testo di Lenin e nelle dichiarazioni programmatiche di Bordiga a Livorno.

Anche tra il presunto “organizzativismo” e “settarismo” del Partito comunista a Livorno (46) – che in realtà corrispondeva allo sforzo di dare al nuovo partito il massimo di centralizzazione per farne un’organizzazione d’avanguardia – e il partito di Lenin esiste una precisa identità.

Contro la concezione di Martov di un partito a “maglie larghe”, Lenin nel II Congresso della socialdemocrazia russa all’inizio del secolo diceva che può essere membro del partito solo chi milita attivamente e in modo permanente in una sua organizzazione di base: “Desidero, esigo che il partito, come reparto d’avanguardia della classe, sia un qualcosa, il massimo del possibile organizzato, che tutto il partito accetti nel suo seno soltanto quegli elementi che ammettono almeno un minimo di organizzazione” (47).

A proposito della riflessione di Bordiga sul partito e dell’azione del rivoluzionario comunista nel modellare il nascente PCd’I sulle caratteristiche del partito bolscevico, Giorgio Galli scrive che “Bordiga fu il primo dei comunisti italiani a cogliere e ad applicare uno dei concetti basilari della versione leninista del marxismo” (48).

Se ripensiamo alla concezione riformista del partito in Italia, anche nella variante serratiana e in quella togliattiana del “partito nuovo” (quale struttura di semplice rappresentanza di forti interessi periferici come i Comuni, le cooperative, i sindacati)… all’impronta tipicamente elettoralistica e parlamentare del Psi e poi del PCI, all’incapacità di questi due partiti nel rinnovare o modificare il proprio modo di fare politica in condizioni diverse rispetto al decennio giolittiano o alla situazione post-resistenziale, abbiamo la misura della diversità del partito leninista a Livorno rispetto alla tradizione secondo-internazionalista del PSI e alla tradizione socialdemocratica e stalinista del PCI.

Nello stesso tempo il partito di Livorno rifiuta ogni concezione movimentista di stampo gramsciano che sottovaluti il momento del potere politico e lo strumento della sua conquista, privilegiando forme di organizzazione di cui Bordiga vedeva la degenerazione riformista nel momento del riflusso delle lotte.

Ciò che mancherà già a partire dai mesi successivi ai comunisti, e da qui i conflitti con Lenin all’I. C. e al III e IV Congresso del Cominter, saranno soprattutto l’esperienza e la duttilità politica per affrontare bolscevicamente i complessi problemi della lotta di classe nel periodo più drammatico della storia del movimento operaio italiano.

Siamo convinti che il significato più profondo di Livorno consiste in una radicale proposizione del marxismo, dopo le tante revisioni e deformazioni tipiche della tradizione riformistica e massimalistica del socialismo italiano, concepito finalmente come strumento di analisi scientifica e di superamento della società capitalistica.

Non esitiamo nel sottolineare che solo dal gennaio 1921 il marxismo entra con decisione e chiarezza nel patrimonio storico della classe operaia italiana, anche se questa importante esperienza verrà rapidamente cancellata dalla reazione borghese (il fascismo) e adulterata fino a renderla irriconoscibile dalle manovre dello stalinismo.

Note al capitolo quinto