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Lenin e il movimento operaio italiano. Capitolo terzo – Guerra e rivoluzione

Capitolo Terzo

Guerra imperialista e rivoluzione

Il “né aderire né sabotare” negli scritti di Lenin

Concorde è la storiografia marxista nel definire contraddittoria la formula lazzariana del “né aderire né sabotare” approvata dalla direzione socialista il 15 maggio, pochi giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia.

La stessa paternità del vecchio operaista e corporativista Lazzari dimostra i limiti della formula accettata dall’intera direzione socialista; solo Serrati propose un atteggiamento più fermo contro la guerra, senza però superarne il carattere contraddittorio.

Pesava su questa formula un’ideologia pseudopacifista, unita alla riproposizione dei tradizionali temi della propaganda socialista: giustizia sociale, fratellanza universale, redenzione degli oppressi… ossia tutto quel bagaglio politico-ideologico estraneo al marxismo e ad ogni prospettiva rivoluzionaria. Vi era, insomma, sottolinea Spriano, il bagaglio ideologico di due generazioni di socialisti: “La tradizione positivistica, la riduzione del marxismo a determinismo economico, la fiducia nell’evoluzione meccanica e fatale delle cose verso il socialismo e insieme un culto del carattere ‘scientifico’ delle proprie dottrine, assai piegate e contraffatte, da divenire un mito, da produrre quella che l’invettiva gramsciana chiamerà ‘la dottrina dell’inerzia del proletariato’ e che Lenin stesso, nel 1917, definirà sarcasticamente ‘scientificissimi pregiudizi’ “ (1).

Solo Bordiga, uomo di punta degli intransigenti per tutto il periodo dall’inizio della guerra alla fine della neutralità italiana, aveva fortemente polemizzato, all’interno del PSI, contro ogni “preconcetto nazionale e di scrupoli patriottici”, auspicando la nascita, il 23 maggio 1915, un giorno prima dell’entrata in guerra dell’Italia, della “nuova Internazionale dei lavoratori” (2).

Il debole pacifismo della parola d’ordine lazzariana finirà per favorire soprattutto le spinte collaborazioniste di ampi settori del partito, comprese le forze riformistiche delle Giunte, dei Consigli locali, delle Cooperative ecc., già emergenti addirittura all’inizio della guerra nel ’14 e poi nel momento dell’ingresso italiano nel conflitto.

Del resto Turati, dopo essersi pronunciato alla Camera il 20 maggio, a nome del G.P.S. (Gruppo Parlamentare Socialista), contro i crediti militari, fece nello stesso giorno un discorso con il quale invitava i socialisti a dare il loro contributo alla guerra nella “Croce Rossa Civile”. Poi si recò da Salandra per proporgli una stretta collaborazione, necessaria per dare alla guerra il significato ideologico di “guerra popolare”, in cambio della libertà lasciata al partito e alle sue organizzazioni politiche ed economiche.

A Serrati, custode di quei valori socialistici, di cui proprio la guerra rivelava la senescenza, non rimarrà altro che polemizzare con le punte più acute del collaborazionismo di classe, senza mai riuscire a dare al partito una valida impronta politica.

Non ci sono in questo periodo interventi di Lenin sulla posizione ufficiale del PSI di fronte alla rottura della neutralità italiana. Ma è indubbio che condannasse lo slogan lazzariano come espressione di quel pacifismo piccolo-borghese che considerava uno degli ostacoli maggiori che si frapponevano alla diffusione delle tesi disfattiste.

Sul “Sotsial-Demokrat” del 26 luglio 1915 pubblicava un lungo articolo, “La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica” (3), in cui demitizzava il preteso internazionalismo della formula “né vittoria né sconfitta”, proposta da alcune frazioni della socialdemocrazia europea in contrapposizione alle tesi leniniste della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile. Trotcky, Bukvoied per la Russia e Kautsky per la Germania erano, per Lenin, i fautori, a livello europeo, di tale posizione.

Non venivano nominati i socialisti dell’ ”Avanti!”, in quanto difensori delle stesse tesi, nonostante Lenin avesse certamente avuto occasione di conoscere, dalle pagine del quotidiano socialista italiano, il dibattito sul “né aderire né sabotare”; ma non c’è dubbio che le sue considerazioni, espresse nell’articolo precedentemente citato, sottolineassero anche i limiti e le contraddizioni della formula lazzariana.

Alla base di questo articolo vi è una completa e matura analisi del fenomeno imperialistico, che avrebbe approfondito poi nel saggio “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” (4).

L’imperialismo è la manifestazione naturale del capitalismo giunto ad un determinato punto della sua evoluzione storica, e quindi ne è l’espressione più autentica, dato che il capitalismo prepara da sempre la guerra, anzi nella sua essenza il capitalismo è guerra. Concepire uno sviluppo pacifico ed armonico del mondo (ideologia tipicamente riformista ed implicita nelle teorie pacifiste), permanendo gli attuali rapporti di produzione e scambio, è una pura utopia piccolo-borghese, un’ideologia che, più o meno consapevolmente, tenta di nascondere una bruciante realtà.

La guerra e la pace, a parere di Lenin, non sono altro che manifestazioni organiche della vita capitalistica in tutto il mondo, precisamente perché, ricordando Clausewitz, “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi (precisamente con mezzi violenti)” (5).

Secondo Lenin non è possibile dichiararsi rivoluzionario ed essere contro la guerra se non ci si augura la sconfitta del proprio governo e se non si porta alla “disfatta un contributo effettivo” (6). Accettare la parola d’ordine “né vittoria né sconfitta” – scrive – vuol dire essere a favore della “difesa della patria”, rifiutare la “lotta delle classi oppresse contro i loro governi”, ossia essere a favore della “pace civile”, giustificare lo “sciovinismo di tutte le nazioni imperialistiche”. “Chi accetta la parola d’ordine ‘né vittoria né sconfitta’ –continua Lenin – può dire solo ipocritamente di essere per la lotta di classe e per la ‘rottura della pace civile’ ma di fatto tradisce la politica proletaria indipendente, imponendo al proletariato di tutti i paesi in guerra un compito perfettamente borghese: difendere dalla sconfitta i governi imperialisti” (7).

Sicuramente occorre partire da Lenin, e in particolare dalle tesi precedentemente illustrate, per comprendere i limiti della polemica serratiana contro la guerra, condotta sulle pagine dell’ ”Avanti!” per tanti mesi senza che si andasse mai al di là di posizioni velleitarie e sentimentali, non ancorate ad una concreta prospettiva di azione politico-teorica contro la minaccia dell’intervento prima e contro la guerra poi.

Dominava allora negli ambienti socialisti, da Turati fino a Serrati, un senso di impotenza, di pessimismo, che però celava la sostanziale accettazione del conflitto e il rifiuto di ogni prospettiva di guerra civile: i riferimenti al “dopo”, cioè ad ipotetiche “lotte rivoluzionarie” successive alla guerra, riflettevano una politica di subordinazione nei confronti dello Stato borghese, coerentemente perseguita fin dall’agosto ‘14.

Non sembra di rilevare, negli scritti di questo periodo, prima di Zimmerwald, un mutamento delle opinioni di Lenin sul PSI dopo l’entrata in guerra dello Stato italiano.

In questo periodo Lenin oscilla tra una valutazione di tipo rivoluzionario della politica del PSI e un giudizio in cui sottolinea il “vigoroso pacifismo” dei socialisti italiani. Infatti il silenzio di Lenin sulle velleitarie posizioni pacifiste italiane può derivare dalla convinzione, espressa nell’articolo già citato, “E adesso?” del febbraio ’15 (8), che i socialisti italiani stessero preparando la “guerra civile” (9). Ma è significativo che nel luglio del ’15 affermi che il POSDR è “l’unico esempio nell’Internazionale, non soltanto di un’opposizione parlamentare, ma di un’agitazione veramente rivoluzionaria fra le masse e il loro governo” (10).

“Il fallimento della II Internazionale” è un articolo scritto – come afferma Lenin – “nel giorno della dichiarazione di guerra dell’Italia” (11).

Vi sono molte denunce delle mire imperialistiche italiane nell’impero turco e austro-ungarico e dei “metodi” della sua politica; è sottolineata, ancora una volta, l’equazione opportunismo=socialsciovinismo e la necessità del disfattismo, ma il giudizio sul PSI è ancora fortemente condizionato dall’espulsione del 1912 della corrente bissolattiana: “In Italia, il partito di Bissolati e soci, puramente opportunista, è diventato sciovinista. L’internazionalismo è rappresentato dal partito operaio. Le masse degli operai sono per questo partito; gli opportunisti, i parlamentari ed i piccolo borghesi sono per lo sciovinismo. In Italia per parecchi mesi è stato possibile fare la scelta liberamente e la scelta non è stata fatta a caso, ma in base alle differenze, nella posizione di classe, tra massa proletaria e strati piccolo borghesi” (12).

Ritorna in questo articolo, e in altri dello stesso periodo (13), la precedente distinzione tra “ala rivoluzionaria” e “ala opportunistica” nella socialdemocrazia europea, che sarebbe alla base, scrive Lenin, della “nuova divisione fra sciovinisti e internazionalisti” (14), distinzione con la quale Lenin aveva visto operante in Italia, fin dal 1905, una corrente marxista, nonostante la “debacle” del 4 agosto 1914 e le prese di posizione successive nella socialdemocrazia europea avessero mutato, talvolta anche profondamente, le singole correnti presenti nella II Internazionale.

In realtà in questo periodo Lenin non ha ancora posto con forza la necessità di una lotta a fondo contro ogni manifestazione di opportunismo anche mascherato, nonostante fosse cosciente della pericolosità della “teoria del giusto mezzo” (15) e dell’importanza, nella lotta contro l’imperialismo, che ogni partito operaio fosse depurato dall’ “aristocrazia piccolo-borghese” (16). Kautsky, Sudekum, Vandervelde, Bissolati ecc., i nomi più citati nei suoi scritti di questo periodo, erano senza dubbio gli apologeti del socialsciovinismo, ma non esaurivano certamente le forze dell’opportunismo in Europa.

Nell’opuscolo “Il socialismo e la guerra” (17), poi distribuito a tutti i congressisti di Zimmerwald, vi sono altre note di merito per i socialisti italiani che hanno espulso Bissolati e Mussolini. Ma, accanto a questa constatazione obiettiva, che senza dubbio è uno dei meriti del PSI in questo periodo, vi erano anche accenti di lode per un partito che Lenin pensava su posizioni realmente rivoluzionarie.

Ad esempio nel paragrafo “Il gruppo socialdemocratico alla Duma e la guerra”, così definiva l’uso della tribuna parlamentare dei socialisti russi, italiani, bulgari, (“che hanno rotto con gli sciovinisti”), in contrapposizione all’opportunismo europeo: “Altri si servono del parlamentarismo per rimanere rivoluzionari fino alla fine, per adempiere al loro dovere di socialdemocratici e internazionalisti anche nelle circostanze più difficili… Gli uni sono socialimperialisti. Gli altri marxisti rivoluzionari” (18).

Eppure in una lettera a Inessa Armand dell’aprile ‘14, Lenin scriveva che il “controllo sui parlamentari” (socialisti ndr) nella socialdemocrazia tedesca era “comunque migliore che non presso i francesi e gli italiani” (19).

Molto probabilmente anche il testo del bissolattiano Barboni, “Internazionalismo o nazionalismo di classe? Il proletariato d’Italia e la guerra europea”, stampato a Lugano nel 1915, letto da Lenin in Svizzera e commentato nell’articolo “Imperialismo e socialismo in Italia” nel “Kommunist” dell’agosto ’15, doveva contribuire a rafforzare la sua fiducia nel socialismo italiano. Infatti Barboni, in polemica con il neutralismo del PSI, tendeva ad unificare tutte le diverse correnti del partito turatiano sulla linea di un pacifismo rigoroso, piuttosto che evidenziarne le fratture e le divisioni interne.

Lo scopo di Barboni era, probabilmente, accentuare le differenze tra il partito bissolattiano e il vecchio ceppo socialista, forse per dare un maggior ruolo politico al primo.

Nasceva così un’analisi deformante del PSI: ne sono una riprova i passi di Barboni citati da Lenin e l’impressione che il capo bolscevico ne ricava. Ad esempio scrive Barboni: “… da questo punto di vista sento più rivoluzionarismo nell’azione dei socialisti riformisti… che non in quella dei socialisti ufficiali rivoluzionari che si sono chiusi entro il guscio di tartaruga della neutralità assoluta” (20).

Così per Lenin la divisione nel socialismo italiano doveva passare attraverso l’opportunismo del partito bissolattiano e l’internazionalismo del partito turatiano, che aveva avuto la “fortuna di sbarazzarsi prima della guerra dei riformisti Bissolati e soci” (21). Contro l’opportunismo kautskiano di Barboni, Lenin giunge a difendere il neutralismo pacifista italiano, non sottolineando, come altrove, l’equazione “pacifismo=sciovinismo”.

Molto probabilmente Lenin pensava che dietro il “né aderire né sabotare” vi fossero state lotte molto vigorose del proletariato italiano, con alla testa il PSI, per contrastare l’intervento. Infatti leggendo l’ “Avanti!” doveva essere venuto a conoscenza del violento sciopero spontaneo torinese del 17/18 maggio ’15 il quale, però, non essendo stato organizzato dal partito, era stato represso con relativa facilità.

L’ “Avanti!” in questo periodo, affidato a Serrati e agli “intransigenti”, ha un tono molto polemico contro l’imperialismo e il sciovinismo, e ciò poteva essere scambiato come espressione di una reale politica rivoluzionaria e internazionalistica. Ancora oggi Konig confonde la retorica sentimentale di Serrati sull’ “Internazionale tradita” e sulla “ricostruzione dell’Internazionale” con posizioni politiche che dimostrano, a suo parere, che “già prima della Conferenza di Zimmerwald”, l’ “Avanti!” e la direzione socialista “propendessero … per le idee di Lenin e dei bolscevichi a proposito della costituzione di una nuova Internazionale” (22).

In realtà il partito per tutto il 1915 è disorientato ed incapace di definire una coerente linea politica. Così il proletariato sarà disarmato e sconfitto dallo Stato. “L’entrata in guerra sanzionerà una grande sconfitta del proletariato italiano… L’enorme potenziale di opposizione rivoluzionaria all’intervento fu ridotto ad una sorta di resistenza passiva”, scrive Cortesi (23) sintetizzando una politica, quella del PSI, accondiscendente all’intervento italiano nel primo conflitto mondiale.

Anche in questo caso, quindi, pesava sul giudizio di Lenin una documentazione non sufficiente come lui stesso confermava nell’articolo “Imperialismo e socialismo in Italia” (24), auspicando che un compagno “il quale conosca il movimento italiano, raccolga ed ed elabori sistematicamente l’ampia ed interessantissima documentazione pubblicata da entrambi i partiti italiani… “ (25).

Più interessante è l’analisi di Lenin sulle ideologie socialimperialistiche italiane condotta sui testi di R. Michels, “L’imperialismo italiano”, pubblicato nel 1914 (26), e di E. Corradini, “Il nazionalismo italiano”, edito prima dell’inizio della guerra (27).

Indubbiamente l’ideologia difesa da Michels e Corradini dell’imperialismo italiano come l’ “imperialismo della povera gente” in lotta con l’ “Europa plutocratica”, idea propagandata anche da personaggi solo apparentemente diversi come Arturo Labriola e Leonida Bissolati (entrambi citati da Lenin), sottolineava l’unità profonda della “intellighenzia” di fronte alle necessità imperialistiche italiane di partecipare alla spartizione del mondo, anche a costo di spacciare, come lo stesso Corradini, il nazionalismo per il “socialismo” (28).

Nell’analisi di Lenin del socialimperialismo italiano sono interessanti la netta distinzione tra l’epoca delle guerre nazionali dell’Italia e l’imperialismo del 1915, i dati sulla grande emigrazione italiana e sull’endemica miseria del paese, la denuncia delle mire espansionistiche di una “borghesia brutale, sudicia, reazionaria in modo rivoltante” fin dagli ultimi anni dell’Ottocento (29).

In precedenza, soprattutto al tempo della guerra di Libia, la propaganda socialista aveva insistito sulla miseria di vaste zone del Sud per proporre una politica pacifista dell’Italia, orientata verso una “colonizzazione interna” pianificata da governi democratici.

Per Lenin, invece, lo squilibrio strutturale italiano non era incompatibile con una politica aggressiva all’esterno, anzi doveva esserne la risoluzione per ovviare alle carenze del mercato interno: “Politica coloniale ed imperialismo non sono affatto deviazioni morbose e guaribili del capitalismo (come pensano i filistei, Kautsky compreso), ma sono le conseguenze inevitabili dei principi stessi del capitalismo” (30).

Non c’è dubbio che la sua analisi delle peculiarità dell’imperialismo italiano e delle teorie socialimperialistiche, seppure elaborata sulla base di un limitato numero di fonti, fosse in grado, più della riformistica impostazione del socialismo italiano, di cogliere alcune caratteristiche e alcuni nodi strutturali dei paesi diventati imperialisti solo nei decenni precedenti lo scoppio del conflitto mondiale.

Primi incontri tra Lenin e il socialismo italiano: Zimmerwald (settembre 1915) e Kienthal (aprile 1916)

Dopo le già citate conferenze internazionali del 1914-15 o direttamente organizzate dal PSI, oppure che ne avevano vista la partecipazione, la prima iniziativa a livello internazionale, dopo l’entrata in guerra dello Stato italiano, furono i lunghi preparativi per la conferenza di Zimmerwald.

Morgari, “socialista giramondo”, fin dai primi mesi del 1915 prese contatti a Berna, Parigi e Londra con gruppi socialisti minoritari. L’11 luglio ’15 Morgari, insieme alla Balabanoff, incontrò a Berna Zinoviev, a nome del Comitato centrale dei bolscevichi russi, Axelrod (menscevico), Grimm (socialista svizzero) e altri rappresentanti dei partiti socialisti, provenienti sia dalle nazioni neutrali che belligeranti, per fissare lo scopo e i caratteri di una riunione internazionale da tenersi in settembre.

Questo convegno – scrive Rosmer – secondo le intenzioni di Morgari “non avrebbe avuto per nulla come scopo la creazione di una nuova Internazionale” (31), ma anzi obiettivi pacifisti. Infatti l’aver affidato queste delicate missioni all’estero all’ex “integralista”, il quale le viveva con l’animo dell’apostolo mazziniano e lo spirito del carbonaro risorgimentale, testimonia quanta importanza desse la direzione socialista italiana alla ricucitura dei rapporti internazionali lacerati dalle “unions sacrées” dell’agosto ’14.

Alla conferenza di Zimmerwald, svoltasi dal 5 all’8 settembre, presero parte cinque delegati italiani (Lazzari, Serrati, Balabanoff, Morgari e Modigliani), Lenin e Zinoviev per i bolscevichi e i delegati di altri nove paesi, compresi gruppi di opposizione delle nazioni belligeranti.

Solo otto tra i trentotto delegati, e tra di essi nessun italiano, votarono a favore della dichiarazione di principio “Sulla guerra e sui compiti della socialdemocrazia”, elaborata da Lenin e Radek, che esigeva “non la tregua dei partiti e delle classi, ma la guerra civile”, e definiva utopistico “creare con le decisioni dei diplomatici e dei governi una solida base per la pace e il disarmo” (32). Infatti la maggioranza dei convenuti votò a favore di un testo, redatto anche da Lenin e Trockij, passato alla storia come il “Manifesto di Zimmerwald”, il quale indicava al proletariato l’obiettivo di “impegnare un’azione per una pace senza annessioni e senza indennità di guerra”, nonostante la denuncia dei caratteri imperialistici della guerra in corso e del fallimento della II Internazionale.

Lenin, dopo aver tentato inutilmente di spostare a sinistra l’asse della conferenza, riproponendo le deliberazioni finali del Congresso internazionale di Basilea sul nesso tra guerra imperialista e guerra civile, metterà la sua firma sul documento finale.

Zimmerwald è senza dubbio la prima occasione per Lenin di guardare in faccia i socialisti italiani, di ascoltare il tenore dei loro discorsi e di rendersi conto della differenza politica, di toni e di accenti, rispetto alle focose pagine de l’ “Avanti!”.

Sono interessanti i ricordi di Serrati sui lavori di Zimmerwald pubblicati sull’ “Almanacco socialista” del ’17 (33). Appaiono non solo i dubbi personali di Serrati nei confronti della “sinistra”, le posizioni assunte collettivamente dal partito italiano, ma anche i motivi della successiva diffidenza dei socialisti italiani verso il movimento bolscevico.

Vi era in Serrati – riassume Ragionieri – “il riconoscimento di rimanere tagliati fuori dalla circolazione delle idee e di esperienze fondamentali del movimento operaio internazionale (‘una constatazione è comune a tutti: noi siamo completamente all’oscuro di quanto si fa fuori dal nostro paese…’) e una vaga conoscenza dell’opera di Lenin e dei bolscevichi, la rivendicazione orgogliosa dell’unità e della compattezza del PSI nella sua opposizione alla guerra e la diffidenza nei confronti delle discussioni interne alla socialdemocrazia russa (‘bisogna tenere conto di questi vecchi e dolorosi dissensi – inevitabili, pare, fra i nostri compagni russi – e saperli trattare con riguardo’), il contrasto sulle parole d’ordine politiche e sulle soluzioni organizzative, le diverse opinioni sui compiti e sui fini della conferenza di Zimmerwald (‘Zimmerwald non è un convegno, è un congresso simbolico in cui si riaccende la fiaccola dell’internazionalismo’)” (34).

Intervenendo a proposito del progetto di risoluzione finale della conferenza Serrati aveva dichiarato inutili le tesi disfattiste perché la guerra era già cominciata e non vi erano ancora condizioni rivoluzionarie: “La vostra tattica arriva troppo tardi, oppure troppo presto” (35), aveva rimproverato a Lenin, sottolineando così, implicitamente, il ruolo statico della politica del PSI indotto dalla formula lazzariana.

Secondo Lenin, invece, “dopo questa guerra si faranno altre guerre”, se nel frattempo il proletariato non attuerà la sua guerra. Per questo la classe operaia doveva combattere l’attuale socialimperialismo impedendo che i socialpatrioti, appoggiandosi al “Manifesto” zimmerwaldiano, potessero dichiararsi “contrari alla guerra e favorevoli alla pace”, frenando così l’ascesa del movimento rivoluzionario (36).

Queste posizioni saranno rifiutate esplicitamente dai socialisti italiani presenti ai lavori congressuali. Addirittura il filoirredentista Morgari, secondo il racconto della Balabanoff (37), ebbe problemi anche nel firmare il pacifistico programma finale perché esso, attribuendo le responsabilità della guerra al sistema capitalistico, lasciava in ombra, a suo parere, le responsabilità dell’impero austriaco.

Contro la maggioranza centrista, durante la conferenza, fu fondato il gruppo di sinistra di Zimmerwald con alla testa il partito bolscevico. Ne facevano parte i socialisti polacchi, lettoni, lituani, la sinistra svedese, svizzera e i “socialisti internazionalisti” tedeschi.

E‘ significativo che, per esporre le obiezioni della “palude kautskiana” alla tesi del disfattismo rivoluzionario a Zimmerwald, Lenin, in un articolo dell’ottobre 1915, abbia riproposto i dubbi di Serrati sull’opportunità della guerra civile, del “cambiamento del programma” dell’Internazionale e di ogni propaganda basata sulla violenza.

Lenin doveva spiegare a tutti i kautskiani (compreso Serrati) l’ abc del marxismo, scrivendo che la “lotta legale, il parlamentarismo e l’insurrezione sono connessi e devono inevitabilmente trasformarsi l’uno nell’altra, secondo il mutare delle condizioni del movimento”; e “l’inizio della rivoluzione con la sua propaganda aperta e diretta” (38), presuppone l’organizzazione dei rivoluzionari prima della rivoluzione.

Probabilmente tutti i socialisti intervenuti a Zimmerwald, anche Serrati, avrebbero avallato le dichiarazioni rese da Morgari al giornale “La Sera”, dopo la fine della conferenza, al fine di controbattere le accuse di disfattismo rivolte all’intero PSI dalla stampa borghese italiana: “L’atto pratico di Zimmerwald è quello di aver compiuto il nostro dovere di socialisti, che era di riunirci internazionalmente e di esprimere una parola concertata nei riguardi della guerra. Ma nello stesso tempo, pur volendo sfuggire alle responsabilità di questa guerra, noi non diciamo ai soldati di fuggire o di non sparare” (39).

Tuttavia se non si può parlare, dopo la conferenza svizzera, di una assimilazione delle tesi leniniste in Italia ma solo di una superficiale conoscenza, non c’è dubbio che questa esperienza sia stata positiva soprattutto per la maturazione politica di Serrati e della Balabanoff. Il successivo incontro di Kienthal e le posizioni ivi assunte da Serrati non sono comprensibili se non si tiene conto della prima conferenza svizzera.

Dopo la conferenza l’ “Avanti!” menzionò alcune volte Lenin, ma gli attribuì concezioni superficiali definendo il capo bolscevico “il rappresentante di una delle tendenze estreme, che ritiene che tutta la guerra non interessi la socialdemocrazia o al massimo la interessi solo come preparatrice della rivoluzione russa” (40). In questo caso l’ “Avanti!”, come sarebbe accaduto più volte negli anni successivi, non riusciva a cogliere la specificità del capo bolscevico all’interno della socialdemocrazia russa e nel panorama del socialismo europeo.

Va comunque dato merito a Serrati di aver pubblicato sull’ “Avanti!” del 14 ottobre, con un abile stratagemma contro la censura, la risoluzione della conferenza, nonostante un articolo del quotidiano socialista del 18 settembre avesse parlato in termini estremamente generici del convegno internazionale, in cui comunque si asseriva che “in nessun modo si deve dare adito alla supposizione che questo convegno miri ad una nuova scissione o alla creazione di una nuova Internazionale” (41). Nello stesso giorno il “Berner Tagewacht” di Grimm pubblicò il manifesto di Zimmerwald.

Lenin dette un giudizio duro della “manovra” di Grimm e del quotidiano socialista italiano in una lettera a Radek del 20 settembre: “E’ la ‘congiura’ di Grimm! Tutto il mondo sa già tutto! Questi sciocchi italiani dell’ “Avanti!”. Vergogna e disonore” (42).

Dopo la conferenza Lenin non ripeterà più i precedenti apprezzamenti del dopo-Reggio Emilia e dell’agosto ’14 nei confronti del PSI. Infatti il dibattito aveva rivelato le profonde incertezze di tutte le diverse sfumature del socialismo italiano e, soprattutto, il diminuire del prestigio internazionale che il partito aveva saputo conquistarsi dopo l’agosto ’14.

Impressione negativa nella sinistra di Zimmerwald fecero la consumata oratoria parlamentare di Modigliani, lo spirito democratico e unitario negli interventi di Lazzari, la profonda ignoranza di quanto stava avvenendo nel campo dell’opposizione a livello internazionale, l’incontro, in più di un’occasione, con le posizioni dei menscevichi.

Il convegno di Zimmerwald è dunque fondamentale per Lenin non solo per la conoscenza dei caratteri del socialismo italiano, ma, soprattutto, per una prima analisi e denuncia del kautskismo internazionale, non riducibile al solo Kautsky e al gruppo a lui vicino, ma a quella “ipocrisia internazionale… cento volte più dannosa e più pericolosa per il movimento operaio di quella di Sudekum” (43).

Lenin e la Luxemburg considerarono Kautsky, dopo l’agosto del ’14, il teorico della “palude socialista” per le sue tesi sul cammino interrotto da riprendere, la difesa della democrazia parlamentare, del pacifismo democratico e, soprattutto, per la teoria dell’ “ultraimperialismo”, che negava l’identificazione dell’imperialismo con la fase suprema del capitalismo.

In Italia il kautskismo è rappresentato da Treves, scrive Lenin in “A proposito del ‘Programma di pace’ “ del febbraio-marzo ‘16 (44). E’ la prima volta che Lenin individua una corrente opportunista in seno al PSI, al di là dei soliti richiami a “Bissolati e soci”.

A nostro parere è importante, per comprendere il maturare di questo giudizio, l’incontro di Zimmerwald e il coagularsi, a livello europeo, nel ’15-16, di una tendenza kautskista, rappresentata in Italia dal gruppo dei riformisti di Turati e Treves.

Per comprendere il “ritardo” di Lenin nell’individuazione del composito opportunismo italiano non bisogna dimenticare che le sue conoscenze sul socialismo italiano si basavano unicamente su una lettura saltuaria dell’ “Avanti!”. Scriveva, per esempio, a Zinoviev nel maggio del ’16: “Vorrei tanto ricevere l’ “Avanti!”, poiché qui lo vedo solo in biblioteca. Non ho letto quello di cui scrivete” (45). Poi, sempre a Zinoviev, nell’ottobre dello stesso anno: “L’ “Avanti!” mi capita di vederlo, ma non lo seguo sistematicamente” (46).

A Londra, nel febbraio del ’15, si era tenuta una “Conferenza dei socialisti dei paesi dell’Intesa”, alla quale presero parte gruppi pacifisti e socialsciovinisti della Gran Bretagna, Francia, Belgio e Russia. Nell’aprile dello stesso anno a Vienna si tenne un’analoga conferenza dei socialisti tedeschi e austriaci.

In questi due incontri internazionali si realizzò la congiunzione tra il dichiarato socialsciovinismo e l’ambiguo pacifismo pseudosocialista sui temi della “pace”, “contro le annessioni”, per l’ “indipendenza delle nazioni”, ecc. E’ vero che i socialisti italiani avevano rifiutato l’invito a partecipare alla Conferenza di Londra, ma, al di là del linguaggio battagliero ma povero di contenuti di Serrati sull’ “Avanti!”, la corrente turatiana (di cui faceva parte Treves) per tutto il ’15 e poi soprattutto con l’ascesa del ministero Boselli, con la presenza nel governo di Bissolati, del cattolico Meda e del giolittiano Corradini, amico personale di Turati, smorzò i blandi toni antibellici del ’14-15 e fece in modo di inserirsi sempre di più nel tessuto nazionale, in una vera e propria “union sacrèe” patriottica, che sarebbe culminata nelle clamorose dichiarazioni di Turati alla Camera del 17 dicembre 1916.

Non c’è dubbio che Lenin fosse riuscito a cogliere e a denunciare, prima ancora della professione di fede patriottica di Turati a Montecitorio, una differenziazione in seno al socialismo italiano e, soprattutto, l’ambiguità di una politica, quella di Turati, Treves, Prampolini e di altri leaders riformisti in questo periodo: “Da un lato – scrive Cortesi sintetizzando la politica socialista tra il 1915 e il ’18 – le concessioni formali al pacifismo popolare, all’avversione delle classi subalterne alla guerra, dall’altra la collaborazione dapprima segreta e poi palese con i governi nazionali per la vittoria” (47).

Però dopo Zimmerwald, in un articolo sul “Verbote” del gennaio ’16, poche settimane prima dell’individuazione del “kautskismo” in Italia Lenin, distinguendo in ogni paese i “socialsciovinisti” e gli “internazionalisti”, in Italia vedeva operante nel campo dell’opportunismo la sola corrente bissolattiana. E’ una oscillazione contingente che non si ripeterà più negli scritti successivi.

La conferenza di Kienthal

Un’altra occasione di contatto diretto tra il PSI e i bolscevichi fu la conferenza di Kienthal (24-29 aprile 1916), cui parteciparono quarantatrè delegati di dieci paesi.

Per il PSI, oltre alla delegazione di Zimmerwald, presero parte ai lavori anche Prampolini (l’ “apostolo della pace”, il “profeta della non-violenza” secondo Arfè) (48), Musatti e Dugoni, tutti e tre appartenenti al gruppo Turati-Treves. Mancavano però i giovani socialisti italiani della “nuova sinistra” ancora in formazione.

Kienthal segnò una radicalizzazione della “sinistra di Zimmerwald” attorno alla linea prospettata da Lenin. Infatti la conferenza si chiuse proponendo tesi più avanzate rispetto a Zimmerwald, nonostante la richiesta finale di una “pace immediata e senza annessioni”, ad esempio la condanna del pacifismo borghese e della politica dell’Ufficio socialista internazionale, fino a prospettare il problema dell’abbandono della II Internazionale per una III indipendente dalla precedente.

Tuttavia i quattordici punti del “Manifesto” ebbero il valore di mere affermazioni verbali per gran parte dei congressisti, compresa la maggioranza della delegazione italiana.

Solo Serrati, per il PSI, e in parte la Balabanoff, aderirono alle tesi disfattiste dei bolscevichi. Serrati, infatti, fu il solo italiano che votò una risoluzione della “sinistra” in cui il PSF (Partito socialista francese) era messo sullo stesso piano della socialdemocrazia tedesca.

Contro la risoluzione finale di Kienthal, contenente la richiesta di una pace senza annessioni, la sinistra presentò un “Programma di pace internazionale” che chiedeva di “volgere le armi contro il comune nemico, i governi capitalisti” (49). Dodici tra i presenti votarono questa risoluzione, e tra essi anche Serrati. Gli altri delegati italiani, invece, tra cui Lazzari, come al solito indeciso, manifestarono riserve (50).

Morgari si oppose alla risoluzione della sinistra perché pensava di poter giocare la carta vincente per la pace: prima di Kienthal aveva preso contatti con un fiduciario dell’industriale statunitense Ford, il quale aveva promesso ampi aiuti economici per formare in Europa un grosso movimento d’opinione favorevole alla pace. Anche Serrati fu favorevole alla continuazione dei contatti di Morgari, così come gli altri membri della direzione socialista (solo la Balabanoff si oppose).

L’intervento in guerra degli Stati Uniti ruppe il sogno di Morgari: l’ “integralismo pacifista”.

Nonostante l’adesione di Serrati alle tesi della sinistra di Kienthal, la sua azione politica sulle pagine dell’ “Avanti!” era ancora fortemente contraddittoria: da una parte la polemica, per tutto il 1916, contro il riformismo e il parlamentarismo a livello internazionale, dietro cui si celava la lotta interna che Serrati conduceva contro i rapporti sempre più stretti tra G.P.S. e governo (soprattutto dopo la costituzione del ministro Boselli); dall’altra i frequenti appelli all’unità del partito.

Un’eco di queste polemiche vi è anche in uno degli interventi di Lenin a Kienthal (51), quando plaudiva l’ “Avanti!” del 5 marzo del ’16 per l’opposizione a Treves e agli altri “riformisti possibilisti” i quali, scriveva il quotidiano socialista, “misero in opera ogni mezzo per impedire l’azione svolta dalla direzione del partito, a mezzo di Morgari, sulle vie di Zimmerwald verso la nuovissima Internazionale” (52).

Solo poco prima dello scoppio della rivoluzione d’ottobre, e sotto la sua spinta psicologica, Serrati identificherà Treves con il socialimperialismo europeo, paragonandolo a Bissolati, Briand, Senbat, Legien, Vandervelde, Davis i quali “già da tempo, con coraggio che li onora, avevano saltato il fosso” (53). Ma le sue preoccupazioni unitarie e lealiste frenarono le polemiche e, soprattutto, il lungo processo della scissione.

In nessun caso, a nostro parere, Serrati sull’ “Avanti!” dimostrò di voler applicare nella situazione italiana e del movimento operaio italiano le direttive rivoluzionarie della sinistra di Kienthal. Glielo proibivano la sua formazione politica, avvenuta negli ambienti riformistici, l’ambiguità ma, soprattutto, la carenza di una valida e chiara prospettiva politica del suo “massimalismo”.

Scrive Spriano sintetizzando la sua personalità politica e morale: “Il suo marxismo non ha di leninista se non la simpatia romantica per il rivoluzionario, e l’idea della necessità della rivoluzione, ché, per il resto, Turati è ancora il primo ispiratore e venerato maestro (anche se il direttore dell’ ”Avanti!” non risparmia rimbrotti alle sue dichiarazioni patriottiche). La matrice positivistica è la stessa, anzi essa si presenta col socialista ligure ‘intransigente’ in una versione più rozza, di primitivo razionalismo” (54).

Sbaglia Konig, a nostro parere, quando scrive che dopo Kienthal per Serrati “era spezzato ogni legame con la II Internazionale” (55).

La tesi di Konig si basa unicamente sulle campagne di stampa promosse da Serrati sull’ “Avanti!” e non sulle caratteristiche specifiche della sua politica. Per esempio il 13 marzo 1916 l’ “Avanti!” pubblicò una fotografia dei cinque deputati bolscevichi della Duma confinati in Siberia, che aveva “fatto nascere nell’animo dei nostri compagni – scriveva Serrati – il desiderio di sapere qualche cosa di preciso intorno ai bolscevichi” (56).

Il 16 maggio l’ “Avanti!” presentava i bolscevichi sulla base del IV capitolo dello scritto di Lenin “Socialismo e guerra” (57). In questo articolo, tra l’altro, Serrati scriveva ingenuamente che i bolscevichi erano fra i socialdemocratici russi, “press’a poco i nostri intransigenti rivoluzionari” (58).

In questo caso vi è la tendenza a ridurre al metro delle esperienze italiane le caratteristiche intrinseche del movimento operaio russo. Colpisce però in questo articolo il silenzio di Serrati sull’atteggiamento di Lenin e dei bolscevichi a Kienthal e nelle precedenti riunioni internazionali.

E’ vero che l’ “Avanti!” si distinse anche per alcuni violenti articoli contro la visita, agli inizi del mese di giugno, di una delegazione della Duma russa al parlamento italiano (59). Konig però non ricorda che il 1° maggio ’16, quando il quotidiano socialista pubblicò la fotografia dei maggiori protagonisti dell’Internazionale dopo l’agosto ’14, nessun russo apparve fra questi.

Furono probabilmente questi atteggiamenti dell’ “Avanti!”, senz’altro coraggiosi (anche perché Serrati doveva sfidare giorno dopo giorno i rigori della censura italiana) ma non coerenti con le sue prese di posizione a Kienthal, a spingere Lenin, nell’estate-autunno ’16, a dare dell’ “Avanti!” alcuni giudizi lusinghieri (60).

Questo tipo di propaganda a favore dei bolscevichi da parte del quotidiano del PSI non si tradusse in un tentativo di analisi teorica e poi politica dell’esperienza leninista (e ciò rispondeva alla ben nota carenza del socialismo italiano, ed in articolare in Serrati, per il dibattito teorico), e nemmeno di seria divulgazione delle tesi della sinistra zimmerwaldiana.

Per esempio lo stesso Bordiga ignorò il delinearsi di una corrente di sinistra alla conferenza di Zimmerwald e l’affermarsi del leninismo in seno a questa.

A ragione Gramsci, nell’ottobre del ’20, chiedendosi quali fossero state le cause della disorganizzazione e dell’immaturità del proletariato nel “Biennio Rosso” e i motivi del ritardo nella nascita del partito comunista, scriveva: “Il Partito socialista come massa, ignorò l’esistenza dell’ala sinistra zimmerwaldiana, giudata da Lenin, ignorò l’atteggiamento assunto dai delegati italiani… ignorò il corpo di dottrine e di tesi in cui la sinistra zimmerwaldiana espose la sua concezione sulla disfatta della II Internazionale, sulla guerra imperialista, sulla dittatura proletaria, sull’organizzazione dei partiti rivoluzionari, sulla guerra civile, sui rapporti fra i vari strati della popolazione lavoratrice nello Stato operaio” (61).

Dopo Kienthal domina in Lenin la convinzione che la spaccatura nel socialismo italiano era analoga a quella di gran parte della socialdemocrazia europea: da un lato il “socialimperialismo aperto, cinico e meno pericoloso” di Bissolati, dall’altro l’ “opportunismo velato kautskiano… Treves e altri, i cosiddetti riformisti di sinistra, in Italia” (62).

Questa stessa concezione appare nel suo “Saluto al Congresso del Partito socialista italiano” (63), in realtà congresso delle sezioni estere del PSI in Svizzera, che si tenne a Zurigo il 15-16 ottobre 1916.

L’edizione russa degli “Scritti italiani” di Lenin sostiene che si tratti di un congresso del PSI all’estero (64), mentre giustamente Konig documenta le cause dell’equivoco (65).

Molto probabilmente l’errore è nato perché in questo articolo Lenin si rivolge sempre al “Partito socialista italiano” e all’ “Avanti!”, che hanno riunito il “loro congresso, la loro conferenza… fuori del tiro della patria censura militare, delle autorità militari, in un paese libero” (66).

In questo periodo i rapporti tra il socialismo italiano e quello della Svizzera italiana erano molto intensi grazie a Misiano e Balabanoff; infatti, proprio in questa occasione, l’ “Unione socialista di lingua italiana” in Svizzera si trasforma in “sezione svizzera” del PSI (67).

Crediamo sia importante l’analisi di questo scritto per i riferimenti a Zimmerwald e a Kienthal e per le lunghe citazioni dall’ “Avanti!”.

Nel suo indirizzo di saluto al presunto Congresso del PSI, Lenin si rifaceva ad un articolo del 27 settembre ’16, “La chiusura della conferenza socialista tedesca” (tenutasi il 21/23 settembre) in cui l’ “Avanti!” distingueva tre correnti nella socialdemocrazia tedesca: da una parte il socialsciovinismo dichiarato di David e Legien, poi la corrente Haase-Kautsky, infine il gruppo “Internazionale” di Liebknecht, Mehring, Zetkin e Luxemburg.

Questo articolo, chiaramente ispirato alla linea politica radicale che Serrati stava dando al quotidiano socialista, puntava il dito contro le ambiguità e le incertezze dei componenti la corrente di centro (“La tendenza kautskiana del socialismo mondiale” secondo Lenin) perché, a parere dell’ “Avanti!”, “non accettavano le logiche naturali conseguenze a cui sono giunti Liebknecht e compagni” (68).

L’individuazione delle tre correnti e la polemica contro le prime due con la valorizzazione della terza, cioè il sostegno alla corrente rivoluzionaria, rispondeva alla politica di Serrati e Lazzari e di tutta la corrente “intransigente” in questi anni, che tendeva a distinguersi ideologicamente e programmaticamente dalle diverse sfumature del socialismo riformista, senza mai arrivare, però, a minacciare neanche velatamente una possibile scissione nel partito.

Per Ragionieri i riferimenti nell’ “Avanti!” all’opera di Liebknecht piuttosto che a quella di Lenin possono essere interpretati tenendo conto del vecchio rispetto del socialismo italiano per la socialdemocrazia tedesca, ma sono “da vedersi anche sotto il profilo della continuità positiva dell’internazionalismo della II Internazionale” (69).

Lenin evidentemente riferendosi alla situazione italiana e non a quella del debole partito della Svizzera italiana sosteneva proprio ciò che in Italia nessuno vorrà attuare almeno sino agli anni successivi alla rivoluzione d’Ottobre: “Noi consideriamo la scissione dai socialsciovinisti storicamente inevitabile e necessaria per una lotta rivoluzionaria” (70); e non solo con il “socialsciovinismo aperto“ di Bissolati, già avvenuta nel ’12, ma anche con tutti coloro che condividono l’ idea fondamentale del socialsciovinismo, cioè l’idea della ‘difesa della patria’ nella presente guerra” (71), riferendosi così, seppure indirettamente e senza nominarla, alla “pianta” riformista di Treves e Turati.

E’ vero che in questo articolo è nominato alcune volte Bissolati, mentre nessun esponente della “palude kautskiana” è citato, ma non dobbiamo dimenticare che in questa occasione Lenin pensava di rivolgersi direttamente ai socialisti italiani. Da qui il tono cauto e controllato dello scritto, ma l’idea centrale è chiaramente espressa: “Noi speriamo che il Partito socialista italiano possa occupare un posto eminente nel socialismo internazionale con la sua difesa dei principi e della tattica di Liebknecht” (72).

Solo un breve resoconto del messaggio di Lenin fu pubblicato nell’ “Avanti!” del 18 ottobre, a riprova delle cautele della direzione del quotidiano socialista.

Turati “socialsciovinista”

La “svolta” socialsciovinista di Turati con il discorso del 17 dicembre al Parlamento italiano, che colse di sorpresa gli ambienti politici nazionali e mise in grave imbarazzo Lazzari e Serrati, da Lenin è riportata, coerentemente con le analisi precedenti, al “pacifismo predicato da Kautsky” (73).

Alcune pagine dell’articolo “Pacifismo borghese e pacifismo socialista”, nel capitolo dal titolo “Il pacifismo di Kautsky e di Turati”, sono dedicate al socialsciovinista italiano, ossia “socialista a parole e sciovinista nei fatti” (74).

E’ la prima volta dal lontano 1905, quando Lenin definì Turati il “Millerand italiano” (75), che il suo nome ritorna negli scritti del rivoluzionario russo. In tutto questo periodo egli aveva certamente sottovalutato il ruolo di Turati nel partito, non ignorandone, però, il peso politico.

Nel discorso del 17 dicembre ’16 Turati, deviando il discorso dalle precedenti richieste, a nome del PSI, di pace equa e soddisfacente per tutti i belligeranti, basate sulle proposte di Wilson e Kautsky contrarie (a parole) a qualsiasi “annessione” e “violazione dei diritti dei popoli”, sosteneva le rivendicazioni che l’Italia doveva pretendere partecipando al conflitto imperialistico: “ ‘Supponiamo che una discussione come quella che ripropone la Germania sia atta a risolvere facilmente solo talune questioni… ed io vi aggiungo una rettificazione del confine italico per ciò che è indiscutibilmente italico e risponde a garanzie di carattere strategico…’. A questo punto la Camera borghese e sciovinista interrompe Turati; da ogni parte si grida: ‘Benissimo! Dunque volete anche voi tutto questo! Viva Turati! Viva Turati!’…” (76).

Le dichiarazioni esplosive di Turati portano a compimento quel processo di progressiva integrazione tra PSI e Stato iniziato con l’ascesa del ministero Boselli (giugno ’16) e favorito dalla spinta delle diverse organizzazioni piccolo-borghesi e proletarie del partito per ottenere vantaggi economici e limitazioni della censura: CDdL, Federterra, Federazioni operaie e impiegatizie, Lega dei Comuni socialisti, Lega delle Cooperative, ecc.

Molto probabilmente Turati non si aspettava una reazione alle sue parole così vivace in Italia e all’estero. Lo testimoniano la replica imbarazzata del leader socialista alla Camera dopo il grido “Viva Turati!” dei parlamentari italiani, le spiegazioni banali da lui fornite nei giorni successivi, gli articoli dell’ “Avanti!” (77).

E’ certo, scrive Lenin, che “Turati si è tradito!… O meglio, non si è tradito Turati ma tutto il pacifismo socialista rappresentato anche da Kautsky”, ossia “nei fatti i due ottimi pacifisti sono giunti proprio a giustificare la guerra” (78).

Non ci fu da parte dell’ ”Avanti!”, successivamente alle dichiarazioni di Turati alla Camera, una seria presa di posizione, al di là delle solite note di biasimo di Serrati.

Lenin sottolinierà più volte in questo periodo, sulla base di una più compiuta lettura dell’ “Avanti!”, come emerge in una lettera a Inessa Armand del gennaio ’17 (79), il blocco di tutto il partito intorno a Turati scrivendo, per esempio, alla fine del ’16, che “in Italia il partito socialista si è tacitamente adattato alla fraseologia del gruppo parlamentare e del suo principale oratore Turati” (80).

Questo giudizio è apparso “eccessivo ed ingiusto” ad Ambrosoli, poiché non terrebbe conto delle difficoltà del PSI in questo periodo né dell’esistenza di posizioni più intransigenti (81). A nostro parere, invece, Lenin coglie con precisione la tendenza generale del partito e dei suoi gruppi dirigenti, al di là degli schieramenti ufficiali e delle convinzioni personali di ciascun leader.

In questi mesi negli articoli di Lenin sono numerosi gli accenni e le analisi derivate dal discorso parlamentare di Turati, a riprova della sua importanza nello smascheramento del centrismo europeo (82).

Contemporaneamente negli scritti dell’ “Avanti!” della seconda metà di dicembre, Lenin coglie una forte avversione per ogni scissione, anche a livello europeo, nella socialdemocrazia.

Per esempio in un articolo del 28 dicembre (83), Serrati metteva giustamente sullo stesso piano Bissolati, Sudekum, Sembat, David, ecc.; però – scrive Lenin – il quotidiano socialista “protesta contro la loro espulsione, contro la rottura con essi, contro la creazione della III Internazionale (84). Poi, molto ambiguamente, l’ “Avanti!” affratellava tra loro personalità politiche così diverse quali Liebknecht, Ledebour, Merrheim… il quale in questo periodo si dichiarava favorevole, sul “Voljstimme” di Chemnitz, all’espulsione dalla socialdemocrazia tedesca del gruppo dei rivoluzionari: “Guardate che confusione… questa confusione –continua Lenin – è dovuta al fatto che l’ “Avanti!” non fa distinzione tra il pacifismo borghese e l’internazionalismo socialdemocratico, mentre quei politicanti esperti che sono Legien e Jouhaux hanno capito benissimo l’identità del pacifismo socialista e di quello borghese” (85).

Sono giudizi molto duri che senz’altro coglievano con precisione un politica, quella del PSI, dove, al di là delle solite polemiche di corrente e delle oscillazioni contingenti di alcuni membri, esisteva una sostanziale coerenza lungo l’asse Serrati-Turati. E’ anche la prima volta che Lenin giudica negativamente tutto il partito, senza distinguere tra una corrente e l’altra.

Non riteniamo che questi articoli aprano un nuovo capitolo nelle relazioni tra Lenin e il socialismo italiano; infatti, soprattutto dopo l’Ottobre, alle ricorrenti accuse contro il gruppo di Turati, si contrapporranno gli appelli a Serrati e Lazzari per un’azione comune.

I frequenti richiami alla pace, le proposte della Germania del 12 dicembre e quelle di Wilson del 22, la concordia tra David e Kautsky sui temi della pace, cioè della “destra zimmerwaldiana” con l’ “ipocrisia del pacifismo borghese”, testimoniavano uno stato di disagio e di stanchezza tra le potenze belligeranti, unito alla paura che dalla guerra nascesse un incendio rivoluzionario di vaste proporzioni.

A parere di Lenin, alla fine del ’16, la situazione era rivoluzionaria e quindi richiedeva una decisa svolta da parte delle forze socialiste. Nel IV capitolo “Zimmerwald al bivio” di “Pacifismo borghese e pacifismo socialista”, Lenin affermava che “le due politiche radicalmente diverse che fino ad ora sono coesistite in seno all’unione di Zimmerwald si separano oggi in maniera definitiva” (86).

Non è la fine di un’equivoca alleanza ma lo sviluppo coerente di una politica, quella della sinistra europea, che già durante la conferenza di Zimmerwald aveva preso pubblicamente posizioni precise sui temi della rivoluzione e della nuova Internazionale, poi ribadite a Kienthal.

Dopo il messaggio del presidente americano Wilson del 23 gennaio ’17, Lenin non esisterà a parlare di “svolta nella politica mondiale”: “La svolta dalla guerra imperialistica… alla pace imperialistica” (87). Le proposte wilsoniane in effetti avevano coagulato in tutta Europa le forze dei pacifisti democratici e socialisti, favorendo un’azione comune con la politica degli Stati in guerra e con tutto il vasto nazionalismo europeo.

Il dettato di Kienthal ormai rischiava di diventare inoperante e non vincolante per i sottoscrittori perché alcuni esponenti di spicco della socialdemocrazia europea, presenti alle due conferenze svizzere, avevano votato risoluzioni pacifiste: ad esempio il socialista francese Raffin Dugens, oltre gli “zimmerwaldisti” Merrheim e Bourderon.

Negli ambienti socialisti italiani le dichiarazioni americane furono accolte con sostanziale favore, nonostante l’impegno formale del PSI a Kienthal per un’energica azione contro il socialpacifismo: “In Italia – scrive Lenin – la destra di Zimmerwald è precipitata in tutto e per tutto in quel pacifismo che a Kienthal era stato condannato e respinto” (88).

Il G.P.S., proponendo alla Camera una mozione per la pace, definiva le proposte statunitensi una “forte e nobile iniziativa” (89). Serrati, come al solito ambiguamente, aveva definito le tesi di Wilson “valido strumento per una maggiore azione verso la pace”, ma pur sempre “atto capitalistico” (90).

L’utopia wilsoniana durerà poco: il 3 febbraio 1917 il presidente americano, prendendo atto della volontà tedesca di continuare l’uso dei sommergibili, annunciava la rottura delle relazioni diplomatiche con lo Stato tedesco, preludio all’intervento contro di esso. L’ “Avanti!” continuerà, invece, ancora fino all’ingresso americano nella guerra, a difendere le tesi di Wilson, non avvertendo quanto stava per accadere nell’arena mondiale.

Non si trattava solo di una generosa utopia, ma di carenze nell’analisi della natura del wilsonismo e, in genere, dell’ideologia pacifista; vi era, quindi, ancora una volta, nella direzione socialista, l’incapacità di comprendere storicamente il ruolo politico che il partito stava svolgendo nel conflitto.

Lenin e la Rivoluzione di febbraio nella stampa socialista italiana

Fin dai primi commenti, negli ambienti socialisti italiani, dei fatti russi di febbraio, è possibile rintracciare il delinearsi di quelle posizioni politiche, che poi troveranno sviluppo nella seconda metà dell’anno e, soprattutto, dopo l’Ottobre.

Il primo commento dei riformisti apparve sulla “Critica sociale” del 16-31 marzo con l’editoriale “Primavera di rivoluzione”.

Emerge l’impostazione umanista ed evoluzionista del gruppo turatiano e un’interpretazione del ruolo del proletariato nella rivoluzione russa derivata dall’ideologia della “via pacifica al socialismo”.

Seppure in sordina la rivista teorica milanese faceva propria la tesi intesista e del Sonnino, il quale il 16 marzo alla Camera aveva sostenuto che il movimento russo “era diretto non verso un rallentamento, ma verso una sempre più intensa e più energica prosecuzione delle operazioni belliche” (91).

Le stesse argomentazioni erano proposte da Turati alla Camera con un discorso del 23 marzo in cui si schierava a fianco degli interventisti democratici.

Come emerge dal carteggio Turati-Kuliscioff, nella parte relativa alla questione russa riproposta da Cortesi (92), fu l’esule russa, per prima nell’ambiente riformista italiano, ad intuire il significato di “democratizzazione” della Russia e dell’intero conflitto, l’arresto necessario della rivoluzione russa allo stadio borghese (“Nessun salto può varcare gli oceani” scrisse poi Treves il 16 aprile su “Critica Sociale”), i vantaggi militari per l’Italia e la possibilità di un più palese appoggio del PSI alla causa “progressista” del conflitto (ora che il vituperato zarismo era morto), poi favorito dall’intervento americano (93).

Serrati, forse volendosi contrapporre al “coro dei guerrafondai” dava alla rivoluzione, in un articolo del 19 marzo (94), limitate possibilità di espansione, giudicando i contenuti rivoluzionari già sconfitti dalla reazione borghese.

Eppure fin dal 16 marzo, quando giunsero le prime notizie dalla Russia, Serrati si distinse per lo spazio concesso ai fatti rivoluzionari sulle pagine de l’ “Avanti!”, per l’entusiasmo con cui li seguiva e il tono radicale dei commenti. Ma le sue prese di posizione, in tutto il ’17, appaiono più dettate dalle ricorrenti polemiche interne al PSI che ad una effettiva volontà di conoscere le forze operanti in Russia, al di là degli avvenimenti contingenti i quali, oltretutto, erano conosciuti con difficoltà e lacune evidenti.

Anche i primi moti operai italiani dell’inizio del ’17 hanno la loro importanza, così come la crescente tensione sociale in tutto il paese, nell’accentuazione del tono radicale di Serrati rispetto al ‘16.

Fu solo grazie all’entusiasmo di Serrati che nelle masse italiane, fin dal marzo ’17 e poi soprattutto dopo l’Ottobre, nasce lo slogan “Fare come in Russia!”; infatti la diffusione dell’esperienza russa dalle pagine del quotidiano socialista ebbe parte notevole nei caratteri eversivi dei moti operai nel corso del ’17.

Nonostante la polarizzazione sulle pagine de l’ ”Avanti!” tra “socialpatrioti” e “internazionalisti” in Russia, che certamente non aiutava a una più profonda conoscenza delle diversificate linee politiche all’interno dei Soviet, molto spazio veniva lasciato a Lenin: “Lenin decisamente è diventato l’uomo del giorno” scriveva ad esempio l’ “Avanti!” il 25 aprile in un lungo articolo sulla personalità del capo bolscevico.

E’ questo il primo momento in cui Lenin, precedentemente ignorato o confuso con gli altri zimmerwaldisti, emerge concretamente come uno dei protagonisti della rivoluzione in corso.

Nei giorni successivi Serrati difese Lenin da tutte le insinuazioni della stampa intesista sulle finalità del suo ritorno in Russia. Ma né di conoscenza del leninismo si può parlare, né del tentativo di comprendere la matrice marxista e non secondo-internazionalista del suo pensiero.

Lenin è presentato come il capo della sinistra zimmerwaldiana, ma vengono accentuate le componenti tipiche del “buon” massimalista: intransigenza, estremismo, intolleranza, onestà, dogmatismo… Qualità certamente del socialismo serratiano le quali, però, lasciavano in ombra le caratteristiche peculiari del marxismo di Lenin, dell’evoluzione del suo pensiero durante la guerra e della sua azione politica in Russia dopo la rivoluzione di febbraio.

Per Cortesi solo negli articoli del 25 aprile e del 5 maggio l’ “Avanti!” – tramite Junior – tentava di sottolineare alcune componenti del programma politico di Lenin confluito nelle “Tesi di Aprile” (95).

L’impoverimento nell’ ”Avanti!” del più importante documento di Lenin in questo periodo può essere derivato dall’imbarazzo di Serrati nel proporre le tematiche del capo bolscevico relative non solo alla nuova Internazionale, ma anche contro il “centro di Turati e soci” in Italia. Invece, a parere di Konig, “non è possibile accertare se esse non erano veramente giunte a conoscenza dei socialisti italiani, se Serrati non le pubblicò per evitare contrasti all’interno del partito o se furono soppresse dalla censura” (96).

Va anche tenuto presente che la stampa borghese italiana, soprattutto in rapporto al ritorno di Lenin in Russia attraverso la Germania, si interessò alla sua attività politica a Pietroburgo in rapporto alla originalità delle sue posizioni rivoluzionarie, mentre l’ “Avanti!”, scrive Cortesi, “tende in questa fase a svalutare tale novità” (97).

Tutto ciò nonostante, come abbiamo avuto occasione di sostenere, Serrati abbia avuto l’opportunità di conoscere personalmente Lenin a Zimmerwald e a Kienthal e la possibilità di aderire ad alcune delle sue tesi.

Anche la Balabanoff, che dalla Svizzera aveva raggiunto nel mese di maggio Pietrogrado, pur propendendo decisamente per i bolscevichi nelle sue “Lettere dalla Russia” pubblicate dall’ “Avanti!” e nonostante i suoi contatti con Lenin dal ’14 ai primi del ’17, non si distinse nel favorire un’effettiva penetrazione del leninismo politico-teorico in Italia.

Tra i diversi risvolti negativi di questa ignoranza vi era la confusione nell’ “Avanti!” nel delineare i veri caratteri del processo rivoluzionario in corso in Russia: per esempio il 27 marzo Ccheidze era definito “il vero rappresentante degli operai”, il 30 dello stesso mese “la più significativa espressione della rivoluzione russa” (98). Addirittura anche la “Frazione intransigente rivoluzionaria”, fondata a Firenze il 27 luglio, in una circolare “plaudiva all’appello lanciato da Ccheidze in nome del Soviet russo ai proletari di tutti i paesi” (99). Spazio nel quotidiano socialista è lasciato anche a Cernov e Cereteli, e quindi ai menscevichi e ai socialisti rivoluzionari.

Il contrasto di queste correnti del socialismo russo con Lenin è appena abbozzato nella convinzione, espressa da “Junior” alla fine di aprile, di una prossima “fusione”.

E’ vero che fino ai primi giorni di luglio fu Suchomlin-Junior ad egemonizzare l’analisi dei fatti russi, ma è altrettanto vero che Serrati, almeno fino alle prime testimonianze dirette della Balabanoff, contemporanee alle dimissioni dall’ “Avanti!” dell’emigrato russo di tendenza menscevica (a cui forse non è stato estraneo lo stesso Serrati), fu dipendente dal suo punto di vista.

Dal mese di luglio l’atteggiamento di Serrati è decisamente a favore dei bolscevichi e di Lenin, visti come i soli protagonisti della rivoluzione, nonostante qualche apertura a Cernov; ma il processo di “diffusione-riduzione del leninismo”, per usare un’espressione di Cortesi (100), non cessa: Lenin è visto come “uomo onesto, puro, forte… che dettò pagine memorabili per dottrine e per fede” (101).

Dipendente dall’ “Avanti!” e da Serrati, in questo periodo, era anche l’opinione di Gramsci sui protagonisti della rivoluzione di febbraio; addirittura il 29 settembre del ’17 così scriveva di Cernov e di Lenin: “Il massimalismo russo ha trovato il suo capo… l’uomo che non ammette collaborazioni…”, mentre Lenin era, più semplicemente, “il maestro di vita, l’agitatore delle coscienze” (102).

Quindi possiamo asserire che il Febbraio russo non rappresenta l’occasione di una vera e propria conoscenza del pensiero e dell’azione di Lenin, tale da modificare, in modo tangibile, i caratteri massimalistici del centrismo serratiano e da educare al marxismo le giovani forze rivoluzionarie, che proprio in questo periodo muovevano i primi faticosi passi.

Lenin e il PSI tra due rivoluzioni

In uno scritto di Lenin dell’aprile ’17 compaiono i nomi di Serrati e Lazzari, infatti l’articolo “Compiti del proletariato nella nostra rivoluzione” individuava tre correnti nel socialismo internazionale: la prima è il socialsciovinismo aperto e dichiarato (“Bissolati e soci in Italia”); la seconda tendenza, il “cosiddetto centro”, oscillante tra i due poli (“Turati, Treves, Modigliani, ecc., in Italia”; la terza tendenza, impersonata da Liebknecht, “è quella degli internazionalisti di fatto e rappresenta soprattutto la ‘sinistra di Zimmerwald…’. Il suo principio è ‘il nemico è in casa nostra’ “ (103).

Segue poi un lungo elenco in cui Lenin cerca di individuare in tutti i paesi capitalistici una corrente internazionalista: “In Italia, gli uomini che sono più vicini a questa tendenza sono il segretario del partito, Costantino Lazzari, e il direttore dell’ “Avanti!”, organo centrale del partito, Serrati” (104).

Lenin stesso era consapevole della difficoltà di riunire in un’unica tendenza uomini e correnti così diverse come Radek, Liebknecht, Rosa Luxemburg, il gruppo “Spartaco” o il “De Tribune” da una parte; dall’altra uomini eternamente oscillanti come Lazzari e Serrati e alcune espressioni del socialismo inglese e francese.

Ma l’accelerazione del processo rivoluzionario nel 1917 (Rivoluzione russa di febbraio, moti operai in Europa, prese di posizione per la “pace imperialistica”) imponevano una rottura non solo politica ma anche ideologica con la “destra zimmerwaldiana” in previsione della costituzione della Terza Internazionale. Per questo era necessario chiamare a raccolta tutte le forze proletarie disponibili, metterle alla prova e verificare la loro capacità di influenzare in senso socialista gli avvenimenti: “Poco importano le sfumature esistenti nel senso di questa sinistra. Tutto sta nella tendenza. Il fatto è che non è facile essere dei veri internazionalisti negli anni terribili della guerra imperialista. Questi uomini non sono numerosi, ma soltanto in loro è tutto l’avvenire del socialismo: essi soli sono le guide e non i corruttori delle masse” (105).

Dopo i perentori e duri giudizi negativi su tutto il PSI, in relazione alla tendenza giustificazionista dell’intero partito a favore del discorso parlamentare di Turati del 17 dicembre ’16, Lenin tende a diversificare le correnti all’interno del socialismo italiano.

Molto probabilmente, nel caso di Serrati, Lenin avrà letto con piacere i numerosi articoli dell’ “Avanti!” dedicati alla rivoluzione russa e alla difesa dei suoi caratteri proletari, soprattutto quelli scritti dal suo direttore. Più difficile è invece capire per quali motivi Lenin abbia inserito anche l’ “intransigente” Lazzari all’interno delle forze rivoluzionarie internazionali. Al di là dell’adesione formale alla rivoluzione russa, venata anche dall’improvvisazione (un messaggio firmato da Lazzari, a nome del PSI, alle forze rivoluzionarie russe era indirizzato a Ccheidze!) (106), per tutto il ’17 il vecchio operaista sembrò staccarsi dall’orientamento radicale di Serrati avvicinandosi ai riformisti.

La prova migliore è la lettera che Lazzari scrisse il 24 agosto ai rivoluzionari torinesi, i quali avevano dato vita, a Firenze tra il 24 e il 27 luglio, con i delegati di altre sezioni italiane (per esempio Bordiga a nome della sezione di Napoli), a una Frazione intransigente rivoluzionaria basata su contenuti classisti e antipatriottici.

Per comprendere interamente questa lettera e il clima in cui è nata, è necessario ricordare che proprio a Torino, fra il 22 e il 25 agosto del ’17, vi era stato un grande moto di protesta operaio che causò quasi cinquanta morti tra le file proletarie e dieci tra le forze dell’ordine.

Barberis, Rabezzana, dirigenti rivoluzionari torinesi, avevano proposto di “fare come in Russia” dando quindi alle proteste nate per la fame un contenuto rivoluzionario.

Unica forma di “partecipazione” della direzione del PSI al moto torinese fu la lettera del segretario del partito. In essa, dando ragione in astratto alle tesi dei rivoluzionari torinesi e riconoscendo “non essere conforme all’assoluta intransigenza la teoria di non favorire né sabotare la guerra” (107), Lazzari ribadiva la validità di tutto il patrimonio ideologico del partito, cioè di venticinque anni di riformismo, quando scriveva che la dottrina socialista era “ripugnante ai metodi di sabotaggio” e che “il partito socialista ha una tradizione di miglioramento sociale e di bontà e non può mettere a suo carico la responsabilità di aumentare i danni e i dolori” (108).

Vi era il tentativo, che gli anni successivi avrebbero dimostrato sempre più vano, di riassorbire all’interno dell’alveo riformista quelle forze rivoluzionarie nate proprio dalla disgregazione di un certo modo di intendere la politica socialista.

Per Cortesi “Lazzari oscillava come sempre, nel tentativo di salvare insieme la collaborazione allo sforzo bellico e il pacifismo di principio” (109). Solo così possiamo spiegare il suo invito, tramite circolare del 12 agosto a tutti i sindaci socialisti, ad eventuali dimissioni collettive in caso di continuazione della guerra e anche la sua partecipazione, il 28 e 29 agosto con Modigliani e Serrati (il quale dimostrava così le ambiguità del suo “bolscevichismo”) alla conferenza di Londra dei socialisti dell’Intesa.

Anche Serrati, di fronte alle sempre più accentuate spinte patriottiche del gruppo turatiano, mostrava ancor più l’impronta unitarista della sua politica, arrivando ad esempio a partecipare alle due conferenze londinesi dei socialisti dell’Intesa (la seconda si svolse dal 21 al 24 febbraio ’18) che negavano definitivamente ogni presunto legame del PSI con i dettati di Zimmerwald e Kienthal.

In questi mesi vi furono talvolta aspre reazioni di Serrati ad ogni mossa socialpatriottica dei turatiani, sfoghi risentiti talora fino alle minacce; l’impressione però è che Serrati non abbia saputo comprendere, nonostante il tono accorato del suo sincero “bolscevichismo”, il nuovo ruolo che Lenin attribuiva a tutti i capi rivoluzionari in questo periodo di forti convulsioni internazionali.

Non c’è dubbio che l’equivoco massimalista italiano del 1919-20 trovi la sua origine nel carattere mitologico e “immediatistico” della “lettura” serratiana dell’esperienza leninista, favorito anche dalla stampa borghese che, dall’agosto ’17, parla insistentemente di un “leninismo italiano”.

Tra tutti gli articoli di Lenin di questi mesi sull’Italia merita spazio la pubblicazione, sulla “Pravda” del 23 maggio ’17, di una lunga dichiarazione del menscevico Vodovozov, il quale il 6 maggio aveva scritto sulla rivista “Den” un caustico commento sul Patto di Londra reso pubblico per decisione del governo rivoluzionario in quei giorni.

La decisione di pubblicare il trattato italiano firmato da Sonnino nell’aprile del ’15, rispondeva alla volontà della nuova dirigenza russa di rivedere gli accordi presi in precedenza dal governo zarista per mercanteggiare la prosecuzione della guerra.

Indubbiamente il Patto di Londra sacrificava molte delle aspirazioni russe nell’area dell’Egeo e nella Turchia; infatti prevedeva per l’Italia il Tirolo meridionale con Trento e tutto il litorale adriatico, la zona settentrionale della Dalmazia con le città di Zara e Spalato, la zona centrale dell’Albania con Valona, le isole dell’Egeo preso le coste dell’Asia minore e una concessione ferroviaria nella Turchia con il controllo di un’ampia zona ricca di miniere di carbone.

“Kerenski racconta – scrive Petrocchi – che alla lettura del Patto londinese i rappresentanti democratici del governo provvisorio furono presi da una violenta reazione anti italiana. ‘Non possiamo accettare questi trattati’ urlò anche il procuratore del Santo Sinodo, ministro L’vov, che era ‘un uomo di mentalità conservatrice’. Alle accuse di ‘imperialismo brigantesco’ il governo italiano reagiva sabotando apertamente le manovre revisioniste della diplomazia russa” (110). Da qui la decisione di pubblicare il Patto di Londra, probabilmente a scopo intimidatorio.

Era la conferma di quanto Lenin aveva scritto fin dall’inizio della guerra mondiale, e soprattutto dopo l’ingresso italiano nel conflitto, sui caratteri “briganteschi” della politica di Sonnino. Per esempio il giorno stesso dell’entrata in guerra dello Stato italiano, Lenin scriveva in un articolo che l’imperialismo italiano mirava all’Albania, voleva “depredare l’Austria e la Turchia”, mentre la Triplice Intesa “vende all’imperialismo italiano gli interessi della libertà serba in compenso del suo aiuto per la spoliazione dell’Austria” (111).

Dopo questo articolo Lenin ribadirà molte volte i caratteri aggressivi della politica italiana, trovando poi conferma nei fatti, mentre in Italia, anche all’interno del PSI, la tendenza era quella di coprire e mascherare i fini imperialistici dando al conflitto scopi idealistici di carattere democratico, irredentista, mazziniano e finanche pacifista.

Il giudizio di Vodovozov era molto duro: “ E’ questo il solo trattato riguardante la guerra in corso in cui conosciamo il contenuto, ed è un trattato cinico e brigantesco” (112). Il tentativo, neppure troppo nascosto del menscevico, era di polemizzare contro tutti i trattati stipulati dal governo zarista, mascherando i fini imperialistici della “democratica” politica russa dopo febbraio: No signor Vodovozov – scrive Lenin – noi lo sappiamo molto bene: i trattati segreti sulla spartizione della Persia e della Turchia, sulla conquista della Galizia e dell’Armenia sono ignobili trattati di rapina né più né meno del brigantesco trattato concluso con l’Italia” (113).

I rapporti tra i due Stati si inasprirono quando, alla fine di maggio ‘17, gli italiani proclamarono l’ “indipendenza” dell’Albania sotto la “protezione italiana”.

Anche la missione in Russia dei socialisti interventisti Labriola, Raimondo, Cappa e Lerda, mandati a spiegare gli scopi di guerra dell’Italia e per conoscere le intenzioni belliche russe (missione precedente la notizia di fatti albanesi), secondo Petracchi finì nel ridicolo (114).

Molto probabilmente Lenin, in un articolo sulla “Pravda” del 19 giugno, si riferiva proprio alla missione italiana, cioè al viaggio dei “patrioti italiani”, secondo Suchanov (115), quando sottolineava la “modesta” proposta degli “imperialisti italiani” al Soviet di Pietrogrado: “Attaccherete o no?” (116).

La missione della delegazione socialimperialista italiana va inserita nelle manovre dei governi dell’Intesa sotto l’incalzare dell’interrogativo: “Che faranno i russi?”.

Soprattutto Sonnino subì il contraccolpo psicologico della rivoluzione di febbraio e dell’incertezza che essa apriva per le sorti belliche dell’Italia nel conflitto. Ma vi era anche la speranza che il rivolgimento politico in Russia accelerasse lo sforzo bellico. Da qui, secondo Petracchi, il tentativo del governo italiano di rinsaldare l’alleanza con il governo provvisorio (117) stigmatizzato da Lenin: “Finché non saranno riveduti i trattati segreti che legano la Russia agli imperialisti degli altri paesi, finchè Ribot, Lloyd George e Sonnino come alleati della Russia, continueranno a parlare degli scopi di conquista della loro politica estera, l’offensiva delle truppe russe rimarrà un servizio reso agli imperialisti” (118).

In “Stato e rivoluzione”, scritto nell’agosto-settembre 1917, per la prima volta “Turati, Treves e gli altri rappresentanti della destra nel partito socialista italiano” (119), erano messi sullo stesso piano dei vari Legien, David, Vandervelde, dei fabiani, jaurressisti…

E’ questo un giudizio nuovo rispetto al passato prchè in precedenza il gruppo di Turati era stato spesso posto al livello del “centro kautskiano”.

Il discorso del leader socialista del 17 dicembre del ’16 alla Camera era stato interpretato da Lenin come espressione del carattere equivoco di un socialismo che voleva, non perdendo i contatti con le masse istintivamente pacifiste e rivoluzionarie e quindi da “controllare”, favorire il trapasso dalla guerra imperialistica alla pace borghese, evitando che le spontanee proteste del proletariato sortissero una risposta politicamente rivoluzionaria.

Poi, durante tutto il corso del ’17, il gruppo socialista accentuerà sempre di più i toni della collaborazione nazionale nei discorsi parlamentari e negli interventi sulla stampa borghese e di partito.

Certamente a Lenin non sarà sfuggito sulla stampa europea (dal mese di aprile aveva lasciato Zurigo per la Russia) l’eco del discorso parlamentare di Turati del 30 giugno ’17 quando prometteva i voti socialisti per un governo capace di ottenere una pace “dignitosa” ma “soprattutto italiana”, in relazione alla revisione degli accordi di guerra voluti dalla Russia per evitare che questo paese, chiedendo la pace separata, indebolisse l’Intesa. Poi, in questa occasione, il leader lombardo aveva ammonito i presenti facendo riferimento ai pericoli di guerra civile e di rivoluzione, “che noi non temiamo, ma che non desideriamo in questo momento” (120).

In questo intervento vi erano due componenti: da una parte un sempre più dichiarato e aperto socialsciovinismo, che attirava sul PSI i favori del governo e della stampa borghese; dall’altra una professione di fede pacifista, da “centro” kautskiano sempre più compromesso: “Nell’inverno venturo non ci deve essere più guerra”, affermazione che Treves, “marchese di Caporetto” per i nazionalisti, il 12 luglio trasformò nell’altra più famosa: “Il prossimo inverno non più in trincea”.

Le giornate popolari di maggio a Milano per la penuria dei viveri e per il caro-vita (pura “jacquerie” per Turati) (121); i riflessi ideologici sulle masse proletarie italiane della missione Goldenberg (“gli argonauti della pace”), effettuata dal 5 al 14 agosto in vari centri italiani e dovunque accolta, tra lo stupore degli uomini politici russi e dei socialisti italiani, con un corale “Viva Lenin!”; la grande ribellione del proletariato torinese dal 22 al 25 agosto; il rinforzarsi alla sinistra del PSI di una corrente marxista rivoluzionaria; la copertura lazzariana e l’eclettismo serratiano dovevano rafforzare, proprio in questi mesi, la spinta collaborazionista dei riformisti.

Ad esempio il 14 agosto Turati protestava, in una lettera a Corradini, capo gabinetto del ministro dell’Interno Orlando, per i frequenti interventi della censura sulle pagine dell’ “Avanti!” scrivendo: “Si tratta di sapere se il Governo è proprio deciso ad allearsi con gli elementi estremisti e leninisti del partito socialista e delle masse operaie contro di noi che teniamo testa e siamo i moderatori… Nelle masse socialiste la tendenza sabotatrice, che sin qui potemmo contenere con sufficiente fortuna, acquista vigore e decisione; contro di essa non avete altra difesa che la tendenza conciliante e media rappresentata dal gruppo parlamentare” (122).

Oltre all’aperta professione di fede collaborazionista vi è in questa lettera anche l’equazione leninismo=estremismo, che diventerà poi il cavallo di battaglia delle polemiche riformiste contro l’ Ottobre.

Negli scritti degli ultimi mesi del ’17 vi sono alcuni significativi riferimenti di Lenin ai moti operai torinesi dell’agosto (123), grande prova di forza, di vitalità e di capacità organizzativa di un proletariato che voleva “fare come in Russia” e aveva assunto Lenin a proprio simbolo e guida ideale, benché quasi sconosciuto ai più.

E’ senza dubbio possibile rintracciare il filo comune di tante esperienze operaie nel biennio 1916-17 in Europa nella comune matrice pacifista ed internazionalista: l’intenso sviluppo del movimento degli shop-stewards in Inghilterra, lo sciopero di Berlino del luglio ’16, lo sciopero generale politico del gennaio ’18 in Germania, i grandi scioperi delle officine metallurgiche di Pietrogrado nell’inverno ’16 e ’17 e decine di altri movimenti di lotta nei paesi belligeranti.

Questi fenomeni sociali, tra cui anche gli ammutinamenti militari nella marina tedesca nel mese di agosto, sono espressione, per Lenin, “della vigilia di una rivoluzione su scala mondiale” (124)..

Con grande intuito politico, pochi giorni prima dell’Ottobre, egli scriveva che “non c’è dubbio che alla fine di settembre si è prodotta una grande svolta nella storia della rivoluzione russa e, secondo le apparenze, della rivoluzione mondiale” (125).

Lenin aveva perfettamente ragione perché il 1917 è l’anno culminante del moto di ascesa rivoluzionaria delle masse durante la guerra, mentre già nel 1918-19 il movimento comincerà a rifluire.

Questo contrasto tra l’esplosione delle contraddizioni del capitalismo e l’assenza di un’organizzazione politica che consentisse di sfruttare lo stato di crisi per guidare il proletariato alla conquista del potere, costituisce il dramma del marxismo rivoluzionario nello scorcio finale del primo conflitto mondiale.

Prova evidente è la debolezza organizzativa dei rivoluzionari tedeschi, che riusciranno solo un anno dopo ad acquistare libertà d’azione scindendosi dalla socialdemocrazia per fondare il KPD, e il grave ritardo della presenza rivoluzionaria in Italia, che giungerà a maturare la propria coscienza politica dopo un lungo travaglio che culminerà con il gennaio 1921. anche la Terza Internazionale nascerà in ritardo, considerando la forza dimostrata dalle lotte operaie nel corso dell’intero 1917 e ciò costituirà la sua debolezza originaria.

Lenin era perfettamente consapevole di questi gravi problemi. Sapeva che era necessario lottare subito per la formazione della nuova Internazionale, la quale avrebbe potuto operare nei singoli paesi per far maturare quelle forze rivoluzionarie che la guerra e le contraddizioni del capitalismo avevano determinato.

La consapevolezza del clima di “vigilia della rivoluzione mondiale” (126) imponeva la connessione tra il moto ascendente delle masse e la nascita del “cervello” politico di esse: la Terza Internazionale.

Il Partito rivoluzionario nasce sempre, infatti, dall’incontro tra il movimento operaio e la scienza marxista: nel 1914-15 questo incontro non solo non si era verificato, ma neanche avrebbe potuto aver luogo perché i due fattori erano entrambi in formazione.

Ma per realizzare questo progetto Lenin doveva combattere una dura battaglia sia all’interno del partito bolscevico, la cui maggioranza ritardava il processo di scissione dal movimento zimmerwaldiano, che contro la maggioranza di Zimmerwald, sempre più incline ad accettare l’invito del B.S.I. dell’aprile ’17 a coagulare tutte le forze socialiste in una conferenza pacifista da tenersi a Stoccolma.

Dalla “Lettera all’ufficio esteri del Comitato centrale del POSDR” dell’agosto ’17 si possono rintracciare i “punti d’appoggio” in Europa su cui Lenin pensava di poter contare: “I bolscevichi, la socialdemocrazia polacca, gli olandesi, la ‘Arbeiter-Politik’, il ‘Demain’ (127). Accanto a queste forze proletarie “si aggiungevano di certo, se si agisce con energia, una parte dei danesi… una parte dei giovani svedesi…, una parte dei bulgari, i sinistri dell’Austria… una parte dei sinistri in Svizzera… e in Italia…” (128).

“Una parte dei sinistri in Italia” e non “i sinistri dell’Italia” o “tutti i sinistri italiani” conferma le cautele di Lenin nella questione italiana, dopo la dichiarazione di aperto socialsciovinismo di Turati, derivate anche dalla difficoltà di seguire periodicamente (in questo periodo Lenin è a Stoccolma) la stampa europea, tra cui l’ “Avanti!” (129).

Invece la conferenza panrussa dei bolscevichi, tenutasi nell’aprile ’17, ritenne utile rimanere nel blocco di Zimmerwald, pur deplorando l’opportunismo ivi presente, per lavorare a favore della Terza Internazionale.

La direzione socialista italiana, dopo le prime incertezze, decise di partecipare alla conferenza del B.S.I. proponendosi di chiedere la riorganizzazione della vecchia internazionale. Lazzari e Serrati da una parte, Turati e Treves dall’altra, erano d’accordo nel “partecipare al Convegno di Stoccolma portandovi lo spirito delle deliberazioni di Zimmerwald, in pieno accordo coi compagni russi” (130).

L’ambiguità dei socialisti italiani raggiunse il culmine quando decisero il 23-27 luglio (Direzione del partito) di partecipare al Convegno zimmerwaldista, terzo e ultimo di questa unione, svoltosi a Stoccolma dal 5 al 12 settembre, e contemporaneamente a quello indetto, sempre nella capitale svedese dai menscevichi il 15 settembre, a cui erano invitati tutti i partiti aderenti alla Seconda Internazionale, compresi quelli che facevano parte – scrive Malatesta – del movimento zimmerwaldista (131).

Al posto della Conferenza di Stoccolma del B.S.I., vietata dai governi, ci fu una conferenza fra i socialisti dei paesi dell’Intesa a Londra (28-29 agosto) con una larga partecipazione italiana: Lazzari, Serrati, Modigliani, Berenini e Silvestri.

Nell’articolo “La questione di Zimmerwald” vi sono alcuni sprezzanti giudizi di Lenin sul carattere ora apertamente socialopportunistico del socialismo italiano: “E Zimmerwald aspetta Stoccolma. I kautskiani, + gli italiani – cioè la maggioranza di Zimmerwald – ‘aspettano’ Stoccolma… E’ una vergogna. Bisogna immediatamente uscire da Zimmerwald” (132).

Era la conferma delle tesi precedenti: la maggioranza di Zimmerwald non ha mai lottato per la Terza Internazionale e per la scissione dall’opportunismo, le ambiguità nei programmi e nelle direttive hanno favorito la spinta del socialsciovinismo.

La bandiera di Zimmerwald, ormai logora, copriva una politica di aperto collaborazionismo con le borghesie belligeranti.

Prime interpretazioni dell’Ottobre nel Psi

In Italia la notizia della vittoria bolscevica rimane priva per alcune settimane di validi commenti.

La pesantezza della censura (le scarse notizie della conquista bolscevica riportate dall’ “Avanti!” del 10 novembre sono emblematiche), il clima di feroce patriottismo dopo la rotta di Caporetto degli ultimi giorni di ottobre (la catastrofe militare si arrestò sul Piave solo il 7 novembre, il giorno della presa del potere bolscevica a Pietrogrado), le difficoltà nel ricevere sufficienti informazioni a causa delle operazioni belliche dell’esercito italiano lungo i confini orientali, congiuravano nel mettere in ombra i “dieci giorni che sconvolsero il mondo”.

Significativamente anche la risoluzione del 18 novembre della Frazione intransigente non faceva cenno agli avvenimenti russi. Solo con la stabilizzazione sul Piave e l’annuncio del ritiro russo dalla guerra (15 dicembre), si incominciò a discutere su ciò che era accaduto in Russia.

I primi commenti della sinistra del PSI rivelavano tutte le carenze derivate dal mancato approfondimento dell’esperienza leninista e della strategia bolscevica dopo il febbraio ’17.

Mentre Lazzari, distorcendo la realtà dei fatti in uno dei suoi tipici “spostamenti” a sinistra, scriveva alla fine dell’anno ai funzionari periferici del partito: “Noi che fummo a Zimmerwald solidali coi compagni di Russia, dobbiamo dare con entusiasmo i nostri voti perché la repubblica proletaria debba trionfare contro tutti i suoi nemici” (133), Gramsci mostrava la confusione mentale del suo “marxismo” giovanile con l’articolo “La rivoluzione contro il ‘Capitale’ ” (134).

La rivoluzione contro il ‘Capitale’ “

Pensiamo che lo scritto del rivoluzionario torinese, più di altri, possa sottolineare le debolezze e le carenze complessive a livello teorico, in questo periodo, delle giovani forze rivoluzionarie, le quali però cambieranno il volto della sinistra italiana con Livorno.

In realtà a Gramsci sfuggiva non solo l’essenza del marxismo di Lenin ma addirittura confondeva e non distingueva tra la dottrina di Marx e l’impianto scientificamente rivoluzionario de “Il Capitale” con l’adulterazione scientista del marxismo riformista ed evoluzionista della II Internazionale, che aveva trovato in Italia validi interpreti da Turati a Modigliani fino a Treves.

Scrive Gramsci: “Essa è la rivoluzione contro il ‘Capitale’ di Carlo Marx. Il ‘Capitale’ di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi, secondo i canoni del materialismo storico” (135).

Il fondo filosofico della sua cultura, derivato da Benedetto Croce, il massimalismo politico di impronta mussoliniana e interventista, la precarietà e la lacunosità della sua conoscenza dell’opera di Marx (in questo momento storico), la tendenza a risolvere le questioni del proletariato in termini di propaganda culturale e non di organizzazione partitica, la sua tormentata biografia, sono gli aspetti che ci permettono di sostenere, riprendendo una valutazione di Cortesi, l’ “assenza del marxismo dalla formazione dell’ormai ventiseienne Gramsci” (136).

Anche Marramao sottolinea nell’articolo di Gramsci l’ “oltranzismo indeterminista”, l’esaltazione dell’ “ideologia”, l’apologia della “pratica”: “La rottura della cappa di piombo riformista si risolve, nella fattispecie, in una fuga dai problemi della storia (non ultima causa l’ignoranza dell’ ‘essenza’ marxista del leninismo), implicita nell’esaltazione della volontà creatrice del soggetto storico dell’ ‘uomo’ che fa la sua storia in barba alle condizioni oggettive’ “ (137).

E’ interessante notare che dopo la “santificazione” togliattiana della figura di Gramsci, usata anche per misconoscere il fondamentale contributo dato da Bordiga alla costituzione del PCI e per sostenere un’improbabile “ortodossia” leninista nel pensiero del giovane Gramsci (138), molti autorevoli interpreti del pensiero gramsciano non abbiano fatto altro che esaltare l’articolo contro “Il Capitale” senza “metterne neanche in discussione – scrive ancora Marramao – il carattere genuinamente marxista” (139).

Bordiga e l’Ottobre

Analisi ben più penetranti dell’Ottobre, nonostante la scarsità di informazioni, si possono ritrovare negli articoli che Bordiga scrisse sull’ “Avanguardia”, il primo dei quali a partire dal 21 ottobre.

In essi la rivoluzione russa è innestata nella più generale crisi del capitalismo mondiale e la genesi dell’imperialismo è ricercata, in un articolo “anti-Gramsci” e coerente con l’analisi marxista del “Capitale”, nella necessità del modo di produzione capitalistico di “sfuggire alla catastrofe della produzione capitalistica” (140).

In questi articoli, che certamente rappresentano il punto più alto raggiunto in questo periodo dall’elaborazione teorica della “nuova sinistra” socialista, Bordiga mostrava di aver capito, anche senza alcuna vera conoscenza dell’opera di Lenin (si potrebbe parlare di “leninismo senza Lenin”), il nesso tra “guerra alla guerra” e “guerra civile”, tra disfattismo e lotta rivoluzionaria nella strategia bolscevica ma, soprattutto, e ciò dimostra il grande divario in questo momento tra il rivoluzionario napoletano e il redattore dell’ “Ordine Nuovo”, la matrice marxista dell’Ottobre, interpretata come la grande riprova della validità del metodo e della prassi marxiste.

Eppure queste certezze politiche non riusciranno a calarsi nella realtà e gli insegnamenti della rivoluzione bolscevica, in questo periodo, non trovarono applicazioni in Italia: “La smania dell’unità prevalse su tutto anche in noi… nelle polemiche… dominava la prospettiva della scissione ‘subito dopo la fine della guerra’ “ (141). Così scriveva Bordiga nel giugno ’21 criticando il comportamento proprio e della “Frazione intransigente” subito dopo Caporetto e le dichiarazioni socialscioviniste dei riformisti.

Infatti dopo la rotta di Caporetto lo stesso unitarismo si ritrova nello spostamento a sinistra di Serrati e Lazzari per riassorbire, all’interno dell’apparato di partito, i rivoluzionari della “Frazione intransigente” che si erano riuniti a Firenze il 18 novembre, ciò subito dopo le dichiarazioni difensiste di Turati e Treves.

Anche per la presenza del direttore dell’ “Avanti!” e del segretario del partito, la riunione fiorentina non fece fare alle forze rivoluzionarie nessun passo in avanti verso la scissione e la costituzione del partito di classe, anzi diede quasi l’impressione a Bordiga e soprattutto a Gramsci di aver conquistato alla loro causa il centro del partito.

Ben più coerenti con la loro storia e con le prospettive della loro politica furono i riformisti che, sulla scorta della lettera antileninista di Martov del 16 dicembre 1917 (pubblicata il 25 dicembre sull’ “Avanti!” e su “Critica Sociale” dell’ 1-15 gennaio ’18), fecero una precisa scelta politica ponendosi nel campo degli oppositori dell’Ottobre.

Martov insisteva sul “carattere utopista del movimento leninista, che cerca di introdurre il collettivismo nella Russia arretrata economicamente”, in ciò coerentemente, come sottolineò Treves nella sua analisi del documento del leader menscevico, con tutta la linea del marxismo secondo-internazionalista ed evoluzionista (142).

La replica di Serrati a Martov, pur criticando talune affermazioni, non polemizzava contro la sommaria riduzione del leninismo ad utopia nel momento in cui, dopo l’Ottobre, con alcuni articoli sull’ “Avanti!” (143), tendeva a porsi come il più coerente interprete e difensore del leninismo in Italia, vantando la partecipazione a Zimmerwald e la collaborazione con Lenin a Kienthal.

L’egemonia che acquistò in Italia l’interpretazione dell’Ottobre nella letteratura riformista rappresentò un grosso ostacolo che il movimento rivoluzionario farà fatica a superare. Il confinamento all’area russa, cioè ad un contesto sottosviluppato, l’utopia di una rivoluzione che vuole saltare aprioristicamente le “fasi della storia” (e da qui i caratteri volontaristici, “violenzistici”, anarchici, anzi di “utopismo antico” del leninismo) (144), argomentazioni condotte con grande lucidità da Treves (145) e da Mondolfo (146), troveranno ben poche critiche adeguate.

Oltre a Bordiga solo Belloni (147) e Schiavi (148) mostravano di aver capito l’essenza marxista della rivoluzione bolscevica. Troppo poco per far uscire Lenin e la rivoluzione comunista dal mito o dalla denigrazione in cui erano avvolti e per permettere una coerente traduzione politica in Italia di questa esperienza.

Crediamo che non sia possibile spiegare l’insufficiente analisi dell’Ottobre nelle forze rivoluzionarie italiana solo con le debolezze teoriche del marxismo in Italia. E’ necessario considerare anche il ferreo “cordone sanitario” attorno alla Russia sovietica che impediva ogni scambio di esperienze: “Quello che si sa all’estero della nostro rivoluzione – scrive Lenin il 5 luglio ’18 – è cosa da ridere, è terribilmente poco. Là c’è una censura militare che non lascia passare proprio nulla” (149).

Allo stesso modo Lenin non saprà nulla di Caporetto (anche se, come risulta da un suo discorso dell’agosto ’18, era a conoscenza del fatto che “le montagne d’Italia sono piene di disertori” (150), della politica socialsciovinistica dei riformisti e delle prime interpretazioni di quanto era accaduto in Russia nel ’17.

Poi vi era il ritardo del governo rivoluzionario russo, causato dalla guerra civile, nella pubblicazione di opuscoli e materiali di propaganda da inviare all’estero, nonostante le notevoli potenzialità finanziarie dei bolscevichi: “Bisogna assumere traduttori per pubblicare in quattro lingue: francese, tedesco, inglese e italiano – scriveva nell’ottobre ’18 Lenin a Berzin, capo della missione sovietica in Svizzera – da Voi non c’è niente nelle due ultime lingue. E’ uno scandalo! Uno scandalo!! Avete molti fondi… ve ne daremo ancora moltissimi” (151).

E’ interessante, sempre in questa lettera, l’attenzione di Lenin per la storia, ancora da elaborare, della lotta contro il socialsciovinismo nei diversi paesi europei: “Commissionate una storia della lotta contro il socialsciovinismo in Inghilterra, Francia, Germania e Italia. Costituite allo scopo un gruppo (Gorter, Balabanoff, più? più? ecc.)” (152).

Anche per tutto il ’18 in Italia la sorveglianza alle frontiere, e soprattutto a quella italo-svizzera, doveva impedire l’introduzione di scritti e opuscoli di propaganda di Lenin e del bolscevismo russo. Donati Torricelli ha documentato l’attività dell’U.C.I., che vagliava con molta attenzione la corrispondenza che arrivava in Italia (153).

Fu soprattutto G. Sacerdote (“Genosse”), corrispondente dell’ ”Avanti!” da Zurigo, che tentò più volte di introdurre in Italia materiale di Lenin. Il nome dell’ “Avanti!” con quello della Balabanoff e di qualche socialista di origine russa in Svizzera ritornano spesso, in questo periodo, nelle carte della polizia, “tutti sotto lo stesso titolo: propaganda bolscevica” (154).

Negli ultimi mesi del ’18 i rapporti italo-svizzeri si infittirono, ma la censura italiana proibì la pubblicazione degli scritti di Lenin che erano entrati in questo periodo in Italia. A parere della Torricelli le carenze teoriche di Gramsci, la “visione mitica della rivoluzione russa” e la generica esaltazione di alcune parole d’ordine leniniste, anche nel periodo successivo, trovano la loro radice nella completa interruzione dei rapporti, tra l’ottobre e la fine del ’18, fra la Russia rivoluzionaria e il socialismo italiano (155).

Però dobbiamo tenere in considerazione altri fattori per comprendere le cause della debolissima rete di legami tra il socialismo italiano e il bolscevismo russo dall’ottobre alla fine del ’18.

A parere di Venturi solo dopo il mese di ottobre vi fu un “primo, serio contatto del PSI con il mondo del bolscevismo russo”, tramite V. V. Vorovskij, membro dell’Ufficio esteri del Comitato Centrale a Stoccolma (156). Fu il primo bolscevico i cui scritti apparvero sull’ “Avanti!” con tutta la loro carica dirompente e chiarificatrice (157), ma il processo di approfondimento dell’esperienza russa fu indubbiamente ritardato dall’ “equivoco ed indeterminato ‘estremismo’ di ‘Ing’ ” (158).

Dopo aver sostituito Suchomlin all’ “Avanti!” (l’ultimo articolo di “Junior” è del 17/6/17), Vorovskij (“Ing” fino al gennaio ’18 e “Nado” dal febbraio), continuò, come il suo predecessore, a coltivare l’illusione di una riunificazione a breve termine di tutte le forze del socialismo russo con articoli venati di simpatia per Cernov e Martov (159).

Dopo Brest-Litovsk, “Nado”, pur favorevole all’accordo, mostrava un altro aspetto ambiguo: una notevole aggressività antitedesca, solo in parte coincidente con il desiderio di una rivoluzione in Germania, e una sorta di nazionalismo russo, in parte temperato da professioni di fede politica ortodossa (160).

Per tutto il ’18 l’atteggiamento solo formalmente attivo del PSI nei confronti del socialismo russo doveva favorire la manovre di “Nado” tese, scrive Venturi, ad uno “spiccato filointesismo” volto a chiedere la fine dell’intervento alleato in Russia, il riconoscimento diplomatico del nuovo governo e la nascita dei primi rapporti economici.

Venturi ha ricondotto la confusione ideologica e la povertà teorica delle analisi fatte dai principali collaboratori dell’ “Avanti!” sull’Ottobre all’egemonia incontrastata di Suchomlin- Vorovskij (161). Ma non c’è dubbio che quando Serrati, nel gennaio ’18, scriveva che il leninismo “più che dottrina” era “soltanto un metodo, anzi una forma di lotta del proletariato europeo” (162), a nostro parere, oltre all’ombra dei due russi, vi era anche il tipico rifiuto del massimalismo italiano per la “dottrina”, vista platonicamente come una serie di “principi” eterni, ma lontani dalla “pratica”, dal “fare” concreto.

La visione metafisicizzante della teoria lasciava spazio, quasi gramscianamente, all’esaltazione di un operare politico che, disancorato da qualunque analisi teorica, diventava davvero veicolo di opportunismo mascherato e di impotenza politica. In più vi era l’implicita sottovalutazione della statura marxista del leninismo ridotta, rifiutando al capo bolscevico ogni spessore ideologico, a puro volontarismo, a causa della presunta struttura arretrata della Russia zarista; caratteri rintracciabili nel dibattito su Lenin in Italia fin dal febbraio ’17 e pienamente coincidenti con la forma mentis del massimalismo italiano.

Potenzialità rivoluzionarie e problema del partito tra Caporetto e la fine del 1918

Dopo la rivoluzione d’ottobre non sono molti i riferimenti di Lenin alla situazione italiana, ma la maggior parte di essi insiste su un unico punto: le agitazioni operaie del ’17 in Italia (moti operai di Torino) sono un segnale che sta nascendo un forte movimento di massa che prelude ad un’aspra guerra civile (163). Questa prospettiva è estesa a tutti i paesi europei in cui il proletariato aveva espresso un positivo potenziale di lotta: Francia, Inghilterra, Germania e Austria.

Lenin guardava con molte speranze soprattutto ai grandi progressi della lotta di classe in Germania con la nascita del KPD alla fine del dicembre ’18.

Siamo convinti che i continui rifermenti, nel ’17 e ’18, alla situazione internazionale, l’attenzione con la quale Lenin analizzava la crescita del movimento di massa in Europa, si possano comprendere solo individuando il significato profondo dell’ Ottobre nella strategia leninista: “I bolscevichi – scrive Milos Hajek – avevano deciso di impadronirsi del potere in Russia considerando tale azione, cui a loro parere sarebbero seguite altre analoghe in vari paesi, semplicemente l’inizio della rivoluzione socialista mondiale: l’idea della vittoria a breve scadenza – in pochi mesi o anni – della rivoluzione proletaria in paesi importanti era un momento sostanziale dell’ideologia della III Internazionale nel periodo post-bellico” (164).

La rivoluzione russa era interpretata da Lenin nient’altro che un episodio di un’operazione più vasta: l’ “inizio della rivoluzione socialista mondiale” e le masse che la compiranno “un distaccamento dell’esercito mondiale” costituito dal proletariato internazionale.

Il legame tra la rivoluzione russa e la rivoluzione proletaria internazionale, concepito rigorosamente in termini politici e teorici, faceva del bolscevismo “la teoria e la tattica mondiale del proletariato”.

Vi era in Lenin, sin da questo momento, la consapevolezza, poi negata dallo stalinismo, dell’impossibilità di costruire il socialismo in Russia senza contare sulle forze del proletariato dei paesi più avanzati.

Fin dalle “Tesi di aprile” (165) e poi, alla vigilia della rivoluzione, con lo scritto “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” (166), le trasformazioni economiche che Lenin indicava quali compiti della rivoluzione in Russia, rimanevano totalmente all’interno del modo di produzione capitalistico.

Lenin poneva in campo economico la necessità del controllo da parte dello Stato sovietico, provvedimenti già presi da tutti i governi borghesi a vantaggio della borghesia per fronteggiare analoghi pericoli di catastrofi economiche.

“Ciò che propone Lenin – scrive Liliana Grilli – non è quindi ‘instaurare il socialismo’, cosa impossibile in un paese di piccola produzione contadina, ma di avanzare verso di esso” (167).

Rimane valida per Lenin la tesi esposta da Marx ed Engels sul “salto” del capitalismo in Russia sulla base della saldatura tra l’antica comunità contadina del “mir” e la rivoluzione proletaria in Occidente (168). Solo attraverso la vittoria del proletariato nei paesi capitalisticamente avanzati d’occidente, la rivoluzione in Russia poteva passare alla trasformazione in senso socialista dei rapporti di produzione: “Il nostro compito, quando siamo andati al potere – scriverà Lenin il 29 luglio ’18 – era di conservare questo potere, questa fiaccola del socialismo, perché continuasse a lanciare quante più scintille poteva sull’incendio crescente della rivoluzione socialista… ma non ci siamo mai illusi di poter raggiungere lo scopo con le forze di un solo paese” (169).

Bordiga, negli anni ’50 e ’60, porrà in evidenza la continuità che esiste nella posizione di Lenin a tale riguardo, rintracciandola in tutti i suoi scritti dal ’17 al ’23 (170).

Lo stretto nesso tra rivoluzione in Occidente e realizzazione del socialismo in Russia, nel pensiero di Lenin nel ’17 e ’18, è sottolineato in un recente saggio di Cortesi: “La posizione di Lenin al riguardo può essere riepilogata in tre punti:

  1. La vittoria della rivoluzione è (finora) avvenuta solo in Russia;
  2. La Russia lotta sul piano internazionale in appoggio al maturare di altre rivoluzioni e contro il blocco e le minacce del capitalismo, ma imposta contemporaneamente una ‘edificazione socialista’;
  3. Questa, tuttavia, non può essere condotta a termine se non in unione con rivoluzioni vittoriose in paesi più progrediti: fino a quel punto ‘la nostra vittoria sarà una mezza vittoria se non meno’ “ (171).

La spinta impressa da Lenin al lavoro di propaganda in Europa può essere spiegata solo sulla base di questa prospettiva che fa della stalinistica “costruzione del socialismo in un paese solo” la parodia del significato profondo dell’Ottobre, il tradimento di tutta l’azione di Lenin e dei presupposti internazionalistici fissati sin dal primo congresso dell’Internazionale.

L’Italia è alla “vigilia della rivoluzione”?

Per quanto riguarda l’Italia vi era davvero una situazione rivoluzionaria tra la fine del ’17 e il ’18? Era proprio vero che l’Italia era alla “vigilia della rivoluzione”, come scrive Lenin nell’agosto del ’18?

Sono numerosi gli accenni all’Italia nell’intero 1918 nei quali Lenin giudicava la situazione favorevole per le ampie lotte proletarie o addirittura rivoluzionarie; per esempio il 30 agosto del ’18, scrive: “Gli operai inglesi, francesi, italiani e di altri paesi lanciano appelli e formulano rivendicazioni da cui risulta che il trionfo della causa della rivoluzione mondiale è vicino” (172).

La storiografia italiana si è posta questo problema soprattutto sulle effettive potenzialità rivoluzionarie del “Biennio Rosso”, trascurando in parte (fa eccezione Caporetto) la situazione sociale tra la metà del ’17 e il primo Congresso dell’Internazionale comunista (marzo ’19).

Dopo i moti operai di Torino dell’agosto ’17 il punto più alto della crisi dello Stato borghese e della protesta popolare è raggiunto, nel biennio ’17-’18, dalla rotta di Caporetto (dal 24 ottobre ’17) e dalle diserzioni di massa che non avranno eguali in Europa: i disertori erano il 30 settembre ’17, secondo i dati forniti da Del Carria, 56.268 in Italia contro 33.394 nel resto dell’Europa; alla fine del ’18 risulteranno istituiti o in corso di istituzione ben 1.100.000 processi per diserzione (173).

Caporetto “è stato un vero fenomeno di leninismo alla russa”, secondo la nota espressione del generale Cadorna del 31 ottobre, con la quale tentava di scaricarsi dalle sue colpe e di proteggere le deficienze degli alti gradi militari e dell’organizzazione complessiva delle truppe italiane.

La crisi di Caporetto ha le sue cause anche nella tragedia della guerra, nella stanchezza generale delle truppe italiane a cui il conflitto pareva non avere mai fine e nella superiorità, tattico-strategica in quel momento, delle truppe austro-tedesche. Infatti le stesse testimonianze del Cadorna escludono la presenza di attivisti socialisti o anarchici in trincea, in genere di frange rivoluzionarie all’interno dell’esercito e, soprattutto, escludono il diffondersi tra le truppe di parole d’ordine leniniste: “I soldati … non si rivoltano, ma buttano le armi e si sbandano” (174).

L’immaturità delle forze rivoluzionarie in Italia alla fine del ’17, ben espressa dal convegno fiorentino del 18 novembre, che si chiuse con la maggioranza fedele al vecchio “né aderire né sabotare”, la mancata presa di coscienza della funzione fondamentale che solo il partito rivoluzionario poteva svolgere (il convegno fiorentino ignorò il problema del partito), le prese di posizione nettamente socialscioviniste dei riformisti (Treves e Turati su “Critica Sociale” del 1° novembre ’17), la mobilitazione della piccola borghesia con lo slogan della “patria sul Grappa”, il temporaneo regresso delle lotte operaie dopo l’apice del periodo maggio-agosto dovevano impedire lo sfruttamento di una situazione potenzialmente rivoluzionaria che destò vivi allarmi nel governo italiano: “Io credo che il generale (Cadorna ndr) avrebbe avuto pienamente ragione – scrive Melograni – nell’indicare lo stato d’animo nelle truppe nel corso di un fenomeno ‘leninista’. Un Lenin italiano, in altre parole, avrebbe dovuto tener conto che nell’esercito esisteva una situazione più esplosiva che nel paese” (175).

Il 1918 è una fase di regresso rispetto agli indici della lotta proletaria nel corso del ’17, non solo in Italia, ma in genere in tutta Europa prima dell’esplodere del “Biennio Rosso”.

Lo stesso Lenin disse che l’offensiva tedesca dell’11 febbraio ’18 segnava la fine della marcia vittoriosa e trionfale della rivoluzione russa; poi la pace di Brest-Litovsk doveva aggravare ancora di più la situazione: “La rivoluzione mondiale non verrà così presto come ci aspettavamo… Sì, noi vedremo la rivoluzione mondiale ma per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola… “ (176).

Le masse italiane, come erano state galvanizzate dalla rivoluzione di febbraio e poi dall’Ottobre, ora avvertivano la nuova situazione venutasi a creare in Europa con la pace di Brest, la quale sottolineava indirettamente anche il riflusso, seppure momentaneo, delle lotte a livello europeo.

La riorganizzazione dell’esercito italiano e il successo di Vittorio Veneto, il minor numero di vittime nell’ultima parte della guerra nell’esercito italiano, avrebbero impedito ogni altro fenomeno di generalizzata diserzione di massa.

Altro elemento, a parere di Melograni, oltre a quelli sottolineati, nel declino della fase ascendente del prestigio rivoluzionario russo in Italia (che iniziò nella primavera del ’18), è l’ascesa del mito wilsoniano (177).

Per tutto il 1917 l’oratoria di Wilson aveva influenzato solo ristretti ambiti politici e culturali italiani, tra cui, come detto, i riformisti del PSI, perché il mito delle due rivoluzioni russe era tale da soverchiare nelle masse popolari la propaganda americana.

Tra la fine del ’17 e l’inizio del ’18 gli USA, per sostenere a livello propagandistico lo sforzo militare in Europa, dettero vita, a parere di Melograni, “al primo grande ‘bombardamento’ psicologico e propagandistico subito dalla società italiana, divenuta società di massa soltanto da poco” (178).

Il mito americano, i profondi legami con l’emigrazione nella “Terra promessa”, il fascino di una democrazia moderna, il tema della pace, sempre presenti nella retorica di Wilson, dovevano contribuire ad abbassare il livello di adesione spontanea delle masse popolari italiane alla rivoluzione bolscevica e, indirettamente, anche il potenziale delle lotte operaie, spinte sempre più dalla linea riformista del PSI nell’alveo della pace sociale e della collaborazione di classe. Del resto erano stati proprio i riformisti, sin dalla fine del ’16, ad esaltare Wilson, inserendolo in un rapporto di connessione-successione con la linea Zimmerwald-Kienthal.

Un partito rivoluzionario nato contemporaneamente al livello più alto della disgregazione dello Stato borghese e delle lotte popolari in Italia avrebbe potuto oggettivamente sfruttare l’ “occasione” della rotta di Caporetto, coordinando anche i vari focolai di rivolta che nascevano qua e là nei centri industriali, facendo propaganda disfattista nell’esercito soprattutto per superare l’odio del “fante contadino” nei confronti dell’ “operaio imboscato” (nell’agosto del ’17 a sparare contro gli operai di Torino erano i giovani contadini di leva della brigata “Sassari”), nodo cruciale che impediva il possibile coagulo delle energie di classe.

Nel 1918 il partito non avrebbe avuto alcuna vera e propria occasione rivoluzionaria da utilizzare, ma avrebbe potuto lavorare per la prevedibile ascesa del movimento operaio italiano, infondendo nell’avanguardia del proletariato, attraverso una propaganda sistematica, quella coscienza di classe marxista che allora mancava del tutto negli operai più coscienti. Invece il proletariato venne abbandonato a se stesso dal socialismo borghese e dal rivoluzionarismo massimalista; cosicché il “Biennio Rosso” riproporrà la sfasatura tra l’ascesa del movimento di classe e la mancanza di direttive tattico-strategiche di carattere rivoluzionario.

Solo Bordiga in Italia e pochi altri dirigenti minori lavoravano per la rivoluzione e la mobilitazione del proletariato: “Bisogna agire – disse al convegno della ‘Frazione intransigente rivoluzionaria’ del 18 novembre ’17 – il proletariato delle fabbriche è stanco. Ma è armato. Noi dobbiamo agire” (179). Ma anche in lui, almeno in questi mesi, la questione del partito, del “cervello della classe operaia”, era insufficientemente avvertita oppure subordinata al “dopo”.

Tutta la strategia di Lenin, invece, si fonda sul presupposto che l’organizzazione è la premessa del processo rivoluzionario. L’evoluzione del capitalismo determina squilibri e svolte particolari, ma solo la premessa organizzativa li trasforma in processi rivoluzionari e in risultati per il proletariato.

Confusione ed equivoco dominarono anche al Congresso di Roma (1-5 settembre ’18), il primo dopo l’inizio della guerra.

Priva di Bordiga, sotto le armi, la nuova sinistra, come nella riunione fiorentina del novembre precedente, appare divisa e soprattutto incapace di definire linee politiche ed obiettivi che permettessero di far uscire le forze rivoluzionarie italiane da una situazione di stallo in cui emergevano solamente la coerenza socialimperialista del gruppo turatiano e l’immobilità del centro, ora oltretutto più debole per l’arresto di Lazzari (24 gennaio) e Serrati (29 maggio).

Il Congresso si concluse con una votazione a larga maggioranza per la mozione Salvadori che raccolse 14.015 voti su 19.027, la quale deplorava il discorso sciovinista del 16 giugno di Turati (senza accennare ai precedenti) e la solidarietà espressagli dal G.P.S., ma concludeva invitando i parlamentari “ad attenersi rigidamente alla volontà del Partito e alle direttive segnate dagli organi responsabili dello stesso” (180).

L’espulsione, nel documento finale, era minacciata solo per i casi più gravi di inosservanza delle regole e comunque, vera concessione al democratismo, era ritenuta di competenza delle sezioni tramite referendum oppure del Congresso se già indetto (181).

La piattaforma della sinistra, di cui ora Salvatori era il membro più influente, dopo l’aut-aut di Modigliani, che aveva minacciato le dimissioni dell’intero Gruppo parlamentare se il documento finale non fosse stato ammorbidito, doveva incontrare il favore della maggioranza del congresso ma nello stesso tempo sottolineare le remore dei sinistri e la loro confusione ideologica: “Essi erano già la scissione, ma una scissione senza analisi, senza strategia, senza capi” scrive Cortesi (182) analizzando le ragioni del “ritardo” del problema del partito rivoluzionario in Italia.

A questo proposito non riusciamo a capire su quali ragionamenti e osservazioni Konig, sintetizzando i risultati di Roma, scriva: “Lenin e i bolscevichi russi furono assunti… ancora più fortemente dai socialisti italiani, a comprovare la giustezza e la lungimiranza dell’atteggiamento da essi tenuto” (183).

Nonostante la realtà dei fatti, con un giudizio senza dubbio discutibile, Ambrosoli, ripercorrendo i giorni di settembre ‘18, scrive che “il Partito comunista italiano nasce ora e nasce di gran lunga prima che negli altri paesi dell’Occidente europeo” (184).

In realtà mancava ai “rivoluzionari” presenti a Roma una posizione chiara e ferma come quella di Lenin, che denunciava nell’ideologia della “difesa della patria” del kautskismo internazionale e di Turati il maggior punto di contatto tra il socialsciovinismo e il socialpacifismo, l’abbandono ipocrita dell’internazionalismo, l’aperto passaggio nel campo dell’imperialismo: “Riconoscere la ‘difesa della patria’ significa giustificare dalle posizioni del proletariato la guerra attuale, ammetterne la legittimità. E, poiché la guerra continua ad essere imperialista… riconoscere la difesa della patria significa appoggiare di fatto la predonesca borghesia imperialistica e tradire completamente il socialismo” (185).

Queste posizioni presupponevano l’immediata scissione, la nascita del partito rivoluzionario senza ulteriori indugi, un deciso contributo alla creazione della Terza Internazionale. Invece le forze rivoluzionarie nel PSI, non avendo analizzato il ruolo politico del centrismo lazzariano e serratiano (la mozione Salvadori aveva toni entusiasti per l’azione de l’ “Avanti!”) pensando possibile rigenerare al suo interno il partito semplicemente conquistando una democratica maggioranza, e non avendo ancora assimilato, al di là di aspetti superficiali, la “lezione” dell’Ottobre, videro l’assise di Roma, tranne pochi casi isolati, come il “trionfo del socialismo” (186).

In sede di prospettiva storiografica non appare del tutto giustificato il giudizio che Lenin dava, nell’ottobre ’18, del viaggio di Gompers in Italia: “Durante la guerra il Partito socialista italiano ha fatto un immenso passo in avanti, cioè a sinistra” (187).

Lenin aveva ripreso una notizia pubblicata sulla “Pravda” di Mosca il 25 settembre sul rifiuto della nuova dirigenza socialista italiana di accettare l’invito del capo dei sindacati americani Samuel Gompers a partecipare alla conferenza di Londra (17-18 novembre ’18) di tutte le organizzazioni socialiste dell’Intesa.

E’ vero che il rifiuto del PSI fu molto netto e il giudizio su Gomprs durissimo (era accusato di “concezione corporativa e di adesione alla guerra”) (188), ma la prospettiva a cui guardava il PSI era ancora la “ricostituzione dei rapporti internazionali tra tutti i socialisti refrattari ad ogni tregua con le classi dominanti” (189), cioè la rinascita della II Internazionale.

I riferimenti a Zimmerwald e a Kienthal erano molto chiari nella delibera della direzione, in un periodo in cui, come Lenin aveva scritto un anno prima a Radek, “in un modo o nell’altro bisogna seppellire l’esecrabile… Zimmerwald ad ogni costo e fondare una vera III Internazionale composta soltanto dalle sinistre soltanto contro i kautskiani. Meglio un pesce piccolo oggi che un grosso scarafaggio” (sott. dell’autore). E polemizzando con il rivoluzionario tedesco, sostenitore del possibile utilizzo politico dell’organismo zimmerwaldiano, aggiungeva: “ ‘Impadronirsi di Zimmerwald’? cioè accollarsi il peso morto del partito italiano (dei kautskiani e dei pacifisti)… Ciò significherebbe gettare a mare tutti i nostri principi, dimenticare tutto ciò che abbiamo scritto e detto contro il centro, confonderci e disonorare noi stessi” (190).

Un’eguale concezione ottimistica, questa volta sulle forze umane presenti nel PSI, verrà espressa da Lenin il 5 luglio ’18 a proposito del processo Lazzari: “In Italia il vecchio segretario del partito, Lazzari, che a Zimmerwald guardava i bolscevichi con diffidenza, è ora in prigione per aver espresso la sua simpatia verso di noi” (191).

Il 26 febbraio ’18 il Tribunale di Roma condannava Lazzari a due anni e due mesi di reclusione e Bombacci a due anni e quattro mesi perché, dice la sentenza, “vollero spingere il proletariato a un movimento atto a troncare bruscamente la guerra e a conseguire una pace immediata”. In realtà, scrive Malatesta, attento osservatore di questo processo, “l’azione risoluta (di Lazzari ndr)… si riduceva… a un irrigidimento dell’intransigenza socialista di fronte alla guerra e al governo espresso in una serie di ordini del giorno e di circolari” (192).

Sotto accusa erano quattro circolari di Lazzari, dal 25 novembre al 12 dicembre ’18, ai dirigenti del partito, ai funzionari delle Camere del Lavoro, ai sindaci socialisti per richiamare il partito all’ordine dopo le dichiarazioni di Turati e Treves successive a Caporetto e per boicottare un’iniziativa patriottica di Orlando a Milano indetta per il 20 gennaio.

Solo nella terza circolare, inviata il 30 dicembre ai fiduciari del partito, vi era un breve accenno alla situazione russa e veniva chiaramente espressa la simpatia di Lazzari per gli avvenimenti russi (193).

E’ però interessante sottolineare che nel dispositivo della sentenza non vi era alcun accenno all’adesione sentimentale di Lazzari alla Rivoluzione russa, a riprova del carattere pacifista e neutralista del suo intervento personale, che le autorità statali avevano voluto colpire duramente.

Note al capitolo terzo