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Lenin e il movimento operaio italiano. Parte prima (1901-1911)

Capitolo primo

Analisi degli scritti di Lenin fino all’agosto 1911

Non c’è dubbio che l’attenzione di Lenin per il movimento operaio italiano è concreta solo a partire dalla data del congresso di Reggio Emilia, cioè dal luglio 1912, in seguito all’espulsione dal PSI del gruppo dei socialriformisti, e che il suo interesse aumenti poi in considerazione dell’atteggiamento coraggioso del PSI nei confronti della guerra di Libia e dell’impegno belligerante dello Stato italiano.

Infatti è solamente con la guerra di Libia che il capitalismo italiano, la politica estera di Giolitti, le divisioni interne del PSI e il suo rifiuto della politica colonialista italiana trovano ampio spazio nella pubblicistica europea. Secondo Cortesi “è soprattutto a partire dalla guerra di Libia che ci si accorge dell’Italia e si assegna al PSI un posto nella lotta di classe su scala europea” (1).

Se a partire da questo momento le informazioni che Lenin trarrà sulla situazione italiana attraverso la stampa europea saranno molto più numerose e specifiche, non si può certo affermare che gli fossero del tutto ignote le condizioni della lotta di classe in Italia, che seguiva con attenzione, a parere di Cortesi, “già dai primi anni del secolo” (2).

Questa opinione è confermata anche da Luciano, il quale ha analizzato in un suo articolo ”l’attenzione che il rivoluzionario russo dedicò ai problemi del nostro paese negli anni anteriori all’inizio della prima guerra mondiale” (3), come pure la diffusione e la conoscenza del nome di Lenin e delle sue posizioni politiche, sempre in questo periodo.

A suo parere, anche se Lenin non ha mai scritto un vero e proprio saggio sulla “questione italiana”, “fin dai primi mesi della sua emigrazione politica nei paesi dell’Europa occidentale, non mancò di interessarsi, sia pure con discontinuità, alla situazione politica e sociale dell’Italia e ai problemi del movimento operaio italiano, con particolare riferimento ai contrasti politici ed ideologici che si andavano manifestando tra i dirigenti del Partito Socialista” (4).

La “saltuarietà” e la “ discontinuità” dell’interesse di Lenin verso la “questione italiana” e i limiti di un’ “informazione non sempre sufficientemente ampia e particolareggiata, e quindi non adeguata per un apprezzamento di tutti gli elementi necessari alla formulazione di un’opinione precisa (5), non gli hanno impedito, a nostro parere, di formulare alcuni giudizi che, anche letti dopo molti dcenni, mantengono intatta la loro vitalità e la loro attualità.

Nonostante numerosi riferimenti alla situazione italiana sino al settembre 1911 siano incidentali, due sono i temi centrali su cui si fissa l’attenzione di Lenin: l’individuazione delle correnti fondamentali nel variegato e composito movimento operaio italiano e la politica colonialista del capitalismo italiano e di quello che Lenin definirà l’ “imperialismo della povera gente”.

Caratteri del socialismo italiano dell’età giolittiana negli scritti di Lenin

Nell’analisi che Lenin fa delle diverse correnti all’interno del PSI crediamo sia opportuno partire da una citazione tratta dal libro “Un passo avanti e due indietro”: “Certo, le particolarità nazionali dei diversi partiti e l’eterogeneità delle condizioni politiche esistenti nei diversi paesi lasciano la loro impronta, rendendo l’opportunismo tedesco affatto dissimile da quello francese, quello francese da quello italiano, quello italiano da quello russo. Ma l’omogeneità della divisione fondamentale di tutti questi paesi fra ala rivoluzionaria e ala opportunista, l’omogeneità del procedimento argomentativo e delle tendenze dell’opportunismo nella questione organizzativa emerge chiaramente, nonostante la diversità di condizioni sopraindicate” (6).

In una nota Lenin ribadisce che nella socialdemocrazia internazionale vi è una divisione della stessa natura tra “opportunisti” e “rivoluzionari”, nonostante tutte le differenze nazionali (7). Sulla base di una generalizzazione derivata dalle esperienze della lotta di classe in Europa, Lenin coglieva anche in Italia quella stessa polarizzazione tra “marxismo” e opportunismo che vedeva operante negli altri partiti socialdemocratici europei.

In realtà in Italia, nel movimento operaio del decennio giolittiano, vi erano tendenze eterogenee, che non si adattavano allo schema leninista. Proprio “l’enorme diversità delle condizioni storiche e dei fattori storici nella situazione attuale in tutti i paesi” (8), invece di favorire il coagularsi, nel socialismo italiano, di due tendenze precise e antitetiche, determinava un quadro politico ben più complesso.

Le generali condizioni di arretratezza della struttura economica italiana, il permanere di gravi residui feudali in larghe zone del Sud, le debolezze del giovane capitalismo finanziario, favorivano di riflesso il formarsi, all’interno del movimento operaio italiano, di correnti intellettuali piccolo-borghesi, vere rappresentanti dello stato di disagio in cui versava l’intellettualità minore, della crisi del ceto medio e dell’intrinseca debolezza politica del proletariato di fabbrica del Nord.

Già Engels, nella sua famosa lettera a Turati del 1894, dava un quadro fosco delle condizioni economiche e sociali dell’Italia, a quarant’anni dall’unificazione politica: “La borghesia, giunta al potere durante e dopo l’emancipazione nazionale, non seppe né volle completare la sua vittoria. Non ha distrutto i residui della feudalità né ha riorganizzato la produzione nazionale sul modello borghese moderno” (9). E poi, citando Marx, concludeva: “E’ ben il caso di dire con Marx che ‘noi siamo afflitti, come tutto l’occidente continentale europeo, e dallo sviluppo della produzione capitalistica e ancora dalla mancanza di questo sviluppo. Oltre i mali dell’epoca presente abbiamo a sopportare una lunga serie di mali ereditari, derivanti dalla vegetazione continua dei modi di produzione che hanno vissuto, colla conseguenza dei rapporti politici e sociali anacronistici che essi producono. Abbiamo a soffrire non solo dai vivi, ma anche dai morti. Le mort saisit le vif’ “ (10).

A Lenin (la mancanza di valide informazioni sul socialismo italiano è fondamentale) sfuggivano sia le caratteristiche peculiari del capitalismo italiano che le insufficienze politiche del movimento operaio in Italia durante i primi anni del secolo.

A riprova di questa affermazione proponiamo questo passo di Lenin dell’aprile del 1908: “Per ogni socialista in qualche modo esperto e capace di riflettere non può esistere il minimo dubbio che i rapporti tra gli ortodossi e i bernsteniani in Germania, tra i seguaci di Guesde e quelli di Jaures (e oggi soprattutto i seguaci di Brousse) in Francia, tra la federazione socialdemocratica e il partito operaio indipendente in Inghilterra, tra De Brouckere e Vandervelde in Belgio, tra integralisti e riformisti in Italia, tra bolscevichi e menscevichi in Russia sono dappertutto, nella loro essenza omogenei, nonostante l’immane varietà di condizioni nazionali e situazioni storiche di questi paesi nel momento attuale” (11).

La corrente “integralista” nasce nel 1906 grazie all’alleanza tra Enrico Ferri e Oddino Morgari. A parere di Arfè, Morgari è un “socialista torinese di gran cuore e gran fede, inventore di una sorta di genealogia per la quale i socialisti risultan tutti fratelli” (12). Ferri, oratore trascinante e poderoso difensore dei contadini nelle regie corti d’assise, è “l’uomo nuovo” (13) della sinistra socialista. Nel 1904 strappa a Bissolati la direzione dell’ ”Avanti!” e, nel congresso di Bologna dello stesso anno, la sinistra ferriana e la corrente sindacalista coalizzate conquistano la maggioranza del partito.

La nascita della corrente “integralista”, vero “riformismo mascherato” secondo Turati, doveva permettere a Ferri di staccarsi dagli incomodi compagni sindacalisti e di avvicinarsi ai riformisti. Infatti nel congresso di Roma di due anni dopo, la corrente integralista e quella riformista conquistano la maggioranza del partito.

Le oscillazioni della sua politica, l’inconsistenza della sua opposizione al riformismo dal 1902 al 1906, la vuota fraseologia dietro cui si nascondeva l’incapacità di una autonoma elaborazione teorico-programmatica, sottolineano tutti i limiti non solo del “socialista” Ferri e della corrente intransigente da lui capitanata, ma anche di tutto quel “socialismo di sinistra” (compresi i socialrivoluzionari) che in nessun momento è in grado di proporre un’alternativa coerente ai maneggi riformistici.

E’ importante sottolineare che la storiografia italiana, pur con qualche differenza di tono, ha messo in risalto, spesso con asprezza, l’inconsistenza politico-ideologica di Ferri. Ad esempio scrive Arfè: “Dalle posizioni di Ferri nella breve stagione nella quale egli si sforza di apparire come il rappresentante della sinistra, c’è poco da dire. A voler raccogliere le affermazioni disseminate nei suoi scritti di questo periodo, si potrebbe presentare uno sconcertante campionario di banalità, frammiste ad autentica insulsaggine” (14).

Molto probabilmente Lenin parlando dell’ “integralismo” marxista in lotta con il riformismo in Italia, si rifaceva alla corrente di Ferri e Morgari. Avvalora questa tesi la seguente nota nella raccolta sovietica degli scritti sull’Italia di Lenin: “Integralisti, fautori del socialismo ‘integrale’, una varietà di socialismo piccolo-borghese. Il capo degli integralisti fu E. Ferri. Nei primi anni del XX secolo gli integralisti, come corrente centista in seno al Partito socialista italiano, lottarono contro i riformisti, che avevano posizioni estremamente opportunistiche e collaboravano con la borghesia rivoluzionaria” (15).

Molto probabilmente sulla stampa internazionale si dava spesso un’immagine di Ferri ben diversa da quella reale di opportunista piccolo-borghese, anche se sulla “Neue Zeit” Oda Olberg aveva dato alcuni giudizi non certamente positivi della vittoria di Ferri, al congresso di Bologna, sulla frazione di Arturo Labriola, rilevando che i vecchi vizi parlamentaristici del PSI non erano stati superati (16).

Ad esempio Lenin, in un articolo del 1906, articolo di polemica contro Plekhanov, riporta una citazione di un esponente del partito cadetto nella quale la lotta di Ferri contro Turati viene posta sullo stesso piano della lotta fra cadetti e bolscevichi, tra guesdisti e jauressisti, tra Kautsky e Bernstein (17).

Lenin in questo periodo cercava di seguire con attenzione la parabola politica di Ferri. In due lettere del febbraio 1908, ad esempio, inviate a Capri a Lunaciarski, chiedeva con insistenza un articolo per il “Proletarii” sul rifiuto di Ferri di partecipare alla redazione dell’ “Avanti!” (18). Ma un passo tratto da “Materialismo ed empiriocriticismo” del 1909, in polemica con Bogdanov, ci fa capire che Lenin aveva nel frattempo mutato il giudizio su Ferri. Infatti Lenin afferma che persino Bogdanov aveva polemizzato con i “tentativi social-biologici eclettici” di Ferri (19).

Per Lenin era obiettivamente difficile dare ogni volta un giudizio preciso, basandosi su una documentazione internazionale scarsa e spesso di seconda mano, ma la sua figura di capo internazionalista del proletariato russo gli imponeva una presa di posizione sulle più importanti questioni internazionali della lotta di classe. Se il revisionismo, nelle sue diverse caratteristiche, esprime a livello sociale le contraddizioni di un ceto medio continuamente “prodotto” dal capitalismo e rigettato nelle file del proletariato, in un paese così piccolo borghese qual era l’Italia giolittiana, l’opportunismo doveva assumere una notevole ampiezza e radicarsi nella struttura sociale.

Ciò che si vuol sottolineare è che l’Italia non riproduceva quell’unica divisione tra ortodossi e revisionisti in modo analogo a quanto avveniva nel resto della socialdemocrazia e che, soprattutto, il movimento operaio italiano era ben lontano da una prassi e da una politica marxiste.

Sempre nell’articolo “Marxismo e revisionismo” del 1908 Lenin sopravvalutava, nonostante la profonda influenza dell’anarchismo nei decenni precedenti, da lui più volte sottolineata (20), l’impronta del marxismo nell’organizzazione e nel programma dei partiti socialisti latini. Scriveva infatti: “Il marxismo ha ormai trionfato incondizionatamente su tutte le altre ideologie del movimento operaio. Negli anni novanta questa vittoria era, nel complesso, un fatto compiuto. Persino nei paesi latini, dove le tradizioni del proudhonismo hanno resistito più a lungo, i partiti operai hanno di fatto costituito i loro programmi e la loro tattica su un fondamento marxista” (21).

Anche in questo caso la realtà politico-sociale dei paesi latini, e dell’Italia in particolare, non corrispondeva in pieno ad una valutazione troppo ottimistica.

La storiografia italiana è concorde, pur con le inevitabili divergenze, nel sottolineare la genesi “italiana” del PSI e, soprattutto, la distanza teorico-programmatica dalle esperienze della socialdemocrazia tedesca e del marxismo della Prima Internazionale: “Il partito socialista italiano – scrive Arfè – non incarna nessuna delle grandi tradizioni del socialismo europeo: non quella politico-ideologica della socialdemocrazia tedesca, non quella rivoluzionaria del socialismo francese e nemmeno quella tradunionistica del laburismo inglese. La genesi del socialismo italiano, lunga e dispersiva, era stata profondamente influenzata, oltre che dalle particolari condizioni dello sviluppo economico del paese, dalla tradizione risorgimentale o meglio dai valori più politici e psicologici che economici e sociali emersi dal Risorgimento” (22).

Nel socialismo italiano del 1892 erano molto vive le tradizioni anarchiche, nonostante il bando dell’anarchismo avvenuto nel momento della fondazione del nuovo partito, la tradizione del corporativismo operaio, derivato dal Partito Operaio (POI) e l’ispirazione mazziniana delle Società Affratellate, con la loro negazione aprioristica della lotta di classe.

Anche Konig, nel suo studio su “Lenin e il socialismo italiano”, sottolinea che nella formazione del nuovo partito prevalsero la realtà e i valori dell’esperienza nazionale, di cui il mazzinianesimo e il bakunismo erano le componenti fondamentali (23). La lunga e tormentata polemica tra Antonio Labiola e Turati sulle caratteristiche che il nuovo partito avrebbe dovuto avere, sottolinea le difficoltà che il socialismo italiano non era riuscito a superare negli anni Novanta del secolo scorso.

Fin dal 1890 Antonio Labriola aveva sostenuto la necessità per il proletariato italiano di un autonomo partito di classe, costruito sul modello della socialdemocrazia tedesca, ancorato al marxismo e quindi separato ideologicamente e politicamente dalla multiforme “sinistra borghese” italiana.

Tale direzione politica veniva giudicata giusta in astratto da Turati, ma poco praticabile nella situazione italiana, perché avrebbe rischiato di far nascere il nuovo partito su basi troppo ristrette. Da qui il profondo risentimento del “professorissimo” (secondo un’espressione di Anna Kuliscioff) già espresso sin dal 1891: “Io sono arrivato alla perfetta persuasione – scrive Turati – che il socialismo italiano non è il principio di una nuova vita, ma la manifestazione estrema della corruzione politica ed intellettuale” (24).

L’azione politica di Labriola si scontrava con tutti i limiti derivati da un’industrializzazione solo agli inizi e da un proletariato succube delle più diverse ideologie borghesi: “Perché il socialismo nasca e si sviluppi in Italia – aveva scritto Labriola ad Engels in una lettera del 9 novembre 1891 – c’è bisogno di molte condizioni che ora mancano” (25).

Labriola aveva però torto nel continuare a nutrire diffidenza e scetticismo nei confronti del “piccolo partito nato di sorpresa” e del “programma votato alla rinfusa (26) a Genova nel 1892. Labriola non capiva che il parto genovese, pur con tutti i suoi limiti, era un fatto davvero notevole nella storia del socialismo italiano perché, per la prima volta, il proletariato italiano si sarebbe organizzato in un partito e vi sarebbe riconosciuto, superando la precedente frammentazione corporativa e anarchica.

A questo proposito Cortesi sottolinea i limiti dell’ottica professorale di Labriola rispetto alle capacità del “politico” e “pratico” Turati di far sorgere, pur con basi eclettiche, il partito dei lavoratori. Scrive Cortesi: “In effetti il Labriola aveva perfettamente ragione di indicare e flagellare – soprattutto nelle sue lettere private – l’immaturità e i vizi della condizione italiana. Ma dove egli sbagliava era nell’estendere indiscriminatamente tale caratterizzazione e nel confinare ogni possibilità di modificazione positiva all’avvento in grandi forze di un proletariato moderno, e quindi al necessario rafforzamento del capitalismo industriale in Italia” (27).

Antonio Labriola godeva di una fortuna intellettuale nel movimento socialista europeo che invece gli era negata in Italia, perdurando con la dirigenza socialista uno stato d’animo d’incomprensione e di polemiche condotte talvolta a livello personale. Questa popolarità era dovuta alla pubblicazione, tra il 1895 e il 1898, dei “Saggi sulla concezione materialistica della storia (‘In memoria del Manifesto dei Comunisti’, ‘Del materialismo storico’, ‘Dichiarazione preliminare’. ‘Discorrendo di socialismo e di filosofia’ ”). Lenin, leggendo gli “Essais” di Labriola, già nel 1897 giudicava il libro “serio ed interessante” e ne auspicava una rapida traduzione in russo (28) che sarebbe uscita l’anno successivo a Pietroburgo.

Trotsky, nella sua biografia, ha ricordato l’entusiasmo con cui aveva letto i “Saggi” di Labriola, di cui poteva ripetere a memoria, a distanza di molto anni, alcune espressioni tipiche (29).

Anche nello scritto del 1897, “Perle della progettomania populista” (30), Lenin definiva “eccellente” l’”Essais sur la conception materialiste de l’histoire”, l’unico degli essais tradotto in russo, mentre nella recensione al testo di K. Kautsky, “Bernstein und das sozialdemokratiche Programm. Eine Antikritik”, sottolineava la incisività di alcuni giudizi di Labriola, espressi su una rivista francese (31), sulle contraddizioni e i limiti del revisionismo bernsteniano.

Se, a parere di Gerratana, “non per questo sembra il caso di parlare di un qualunque influsso rilevante di Labriola su Trotsky e su Lenin” (32), è indubbio che i due rivoluzionari russi riconoscevano a Labriola la statura teorica di un continuatore del marxismo classico.

Ciò che Lenin non poteva conoscere, e che avrebbe potuto influenzare il suo giudizio sul socialismo italiano, era la qualifica di socialista “in partibus infidelium” (33) appioppatagli dalla “Critica Sociale”, e la sua convinzione di essere uno “sbandato” nel socialismo italiano.

Più preciso è invece il giudizio che Lenin dà di Turati in una serie di articoli del 1905. Plekhanov, nel dibattito congressuale del terzo congresso del POSDR, aveva citato alcuni passi di una lettera di Engels a Turati del gennaio 1894 (della quale si è già parlato), nel quadro delle polemiche sulla partecipazione della socialdemocrazia russa al governo rivoluzionario provvisorio. Turati e la Kuliscioff avevano sollecitato un ‘intervento politico di Engels per chiarire quale ruolo politico-sociale avrebbe dovuto assumersi il partito socialista.

Nell’Italia di fine secolo non vi erano assolutamente condizioni rivoluzionarie e, in più, si poneva il problema del rapporto con i partiti di democrazia radicale e repubblicana: mantenersi su posizioni intransigenti oppure collaborare, conservando la propria autonomia, con i partiti rappresentanti la borghesia per far avanzare la democrazia in Italia? Fedele al dettato del “Manifesto”, Engels risponderà scrivendo che nella situazione italiana di fine secolo compito dei socialisti era quello di appoggiare ogni battaglia progressiva, senza compromettersi in essa fino al punto di rinunciare alla propria autonomia, e riprendendo, a battaglia finita, la propria azione.

Commentando la lettera di Engels, Lenin definisce Turati il “Millerand italiano” perché Giolitti gli aveva offerto nel 1903 un portafoglio nel suo ministero. Secondo Lenin, Turati pensava di difendere gli interessi di classe del proletariato assumendo una responsabilità politica nel gabinetto Giolitti. E aggiunge: “E’ perciò molto probabile che Turati esprimesse fin da allora idee millerandiste” (35). Per questo motivo – continua Lenin – Engels spiegava a Turati la differenza tra la “rivoluzione democratica borghese” e la “rivoluzione socialista”.

“Abbiamo di fronte a noi – scrive Lenin – un caso caratteristico di quella posizione falsa contro la quale Engels da tanto tempo metteva in guardia i capi dei partiti estremi, e precisamente l’incomprensione del vero carattere del rivolgimento e l’inconsapevole difesa degli interessi di una classe estranea” (36).

Le parole di Engels saranno snaturate da una politica di intese elettorali e parlamentari (“popolarismo”, “bloccardismo”) con i partiti “affini” (sinistra democratica), che durerà per tutto un decennio e vedrà il PSI spesso in stato di subordinazione politico-ideologica nel confronti della sinistra borghese operante all’interno e all’esterno del partito.

Ad esempio in una lettera del 1905 (37) Lenin sottolineava l’influenza negativa dei repubblicani italiani sulla coscienza socialista delle masse italiane. Sempre nel 1905, nell’opuscolo “Due tattiche della socialdemocrazia europea”, il riformismo italiano nello spirito di Turati era posto da Lenin sullo stesso piano del “cretinismo parlamentare”, del “millerandismo” e del “ bernstenismo” (38).

L’accostamento di Turati a Bernstein può sorprendere se si pensa alla polemica del leader del riformismo italiano, sulla scia delle argomentazioni di Kautsky e Jaures, contro il revisionismo del teorico tedesco. Ma, al di là delle dichiarazioni di principio, esisteva una forte affinità tra Bernstein e la dirigenza riformista italiana.

Scrive Valiani: “In effetti il Turati, la Kuliscioff e il Treves non approvavano né il superamento crociano del marxismo, né la revisione bernsteniana, ancorchè ne fossero inconfessabilmente, ma non per questo meno profondamente, influenzati” (39).

La prova è che quando apparirà in Italia, nel 1907, il libro di Ivanoe Bonomi, “Le vie del socialismo”, copia sbiadita del testo di Bernstein, sarà ben accolto dal gruppo riformista, nonostante la sua “completa noncuranza per la teoria” e l’ “incapacità organica di interpretare giustamente il marxismo” (40). Da questo momento, nonostante alcune oscillazioni contingenti, Lenin vedrà in Turati l’esponente di spicco della prassi riformista e della degenerazione revisionistica in Italia.

Questi giudizi di Lenin su Turati coglievano un aspetto che in quel periodo in Italia solo i sindacalisti rivoluzionari comprendevano confusamente: l’estraneità di Turati, tipica di ogni riformismo, alla prassi marxista.

La storiografia attuale ha accettato questo giudizio sottolineando soprattutto l’inconsistenza della patina marxista di Turati: Mammarella sottolinea l’impronta positivista della sua cultura (41), Valiani la confusione tra marxismo scientifico ed evoluzionismo umanitario (42), Cortesi in “Turati giovane” (43) insiste sulla formazione letterario-filantropica del giovane Turati e sul lungo, spesso tortuoso, percorso che lo ha portato al socialismo evoluzionista, vero specchio delle difficoltà del processo di formazione del movimento socialista in Italia. Marramao (44) sottolinea nella “Critica Sociale” dei primi anni l’ingenua confusione tra marxismo e darwinismo, l’influenza del positivista Loira su Turati, le concezioni malthusiane e perfino dei “socialisti della cattedra” tedeschi nel dibattito ideologico in seno al socialismo italiano. A parere di Mammarella, in questo periodo, il “marxismo ebbe in Italia una breve stagione e un magro raccolto” (45).

Del resto il peso dei settori cooperativi, indirettamente aiutati dallo Stato, la tradizione corporativa, le alleanze con i partiti “affini” e i “blocchi” elettorali per la conquista dei municipi e dei seggi parlamentari (“ministerialismo”) favorivano in Italia, più che la penetrazione del marxismo, la diffusione degli scritti di Proudhon, Ferrari, Blanc, Lassalle, Cattaneo, Pisacane, De Amicis e spesso di un Marx manipolato e trasformato in un’icona inoffensiva.

I sindacalisti rivoluzionari introducevano, a loro volta, in Italia l’eredità della mitologia rivoluzionaria barricadera, risorgimentale e comunarda, e la pericolosa eresia soreliana.

In Italia, secondo Lenin, Turati ed Arturo Labriola (il “labriolino”) erano i capi rispettivamente del “revisionismo di destra” e del “revisionismo di sinistra” (46), la cui comune base sociale, piccolo borghese secondo Lenin, derivava dalla crescente proletarizzazione dei ceti medi, continuamente risospinti negli strati proletari (47).

L’origine meridionale ed in particolare napoletana, dei teorici del sindacalismo rivoluzionario è stata sottolineata da molti storici come elemento non accessorio per la comprensione della loro strategia e del loro pensiero politico.

Arfè interpreta questa corrente come prodotto ideologico di intellettuali irrequieti, vicino all’anarchismo tradizionale, rappresentanti delle masse meridionali e della disgregazione di ampi strati della piccola borghesia italiana durante l’età giolittiana (48).

L’analisi di Lenin dei fenomeni sociali che generano il revisionismo è molto importante perché riporta ad un’unica origine strutturale e sociale delle diverse forme dell’opportunismo, mentre nella storiografia italiana sono sottolineate, e talvolta accentuate, le differenze tra le due correnti (riformismo e sindacalismo rivoluzionario), spesso perdendone di vista i tratti comuni e, soprattutto, la sostanziale affinità.

Così Lenin definiva, in un altro articolo, la comune ispirazione delle due correnti al livello internazionale: “Gli uni e gli altri frenavano l’azione più importante e più necessaria: l’unione degli operai in organizzazioni grandi, forti, che funzionino bene in tutte le occasioni e siano impregnate dello spirito della lotta di classe, chiaramente coscienti dei loro scopi, educate alla vera concezione marxista” (49).

Questi due estremi apparenti, sindacalismo e revisionismo, si davano la mano, come fu fin da allora acutamente osservato da Plekhanov, per il loro comune carattere economicistico, di sottovalutazione dello Stato, della conquista del potere politico da parte della classe operaia e quindi del partito (50).

Individuazione dei caratteri imperialistici del capitalismo italiano

Solo con l’impresa libica Lenin denuncia il pieno ingresso del capitalismo italiano nella fase imperialistica e quindi il suo inserimento nella gara delle grandi potenze per la conquista delle colonie. Ma non c’è dubbio che questa convinzione fosse presente in Lenin sin da quando, in un articolo del 1905 (51), denunciava gli interessi delle maggiori potenze europee, inclusa l’Italia ultima arrivata, e del Giappone, nei riguardi del mercato cinese e, in uno scritto del 1908 (52), faceva riferimento alla diretta presenza dell’Italia nei trattati segreti che prevedevano la spartizione dell’impero turco fra le maggiori potenze europee. Nel medesimo articolo Lenin denunciava il Trattato di Berlino del 1878 con cui Francia e Italia progettavano di spartirsi i possedimenti turchi dell’Africa settentrionale.

Nello scritto del 1901 in cui indicava gli interessi italiani in Cina, così Lenin definiva le caratteristiche della ripresa mondiale iniziata negli anni 1898/1900: “Costruzione di gigantesche ferrovie, espansione dl mercato mondiale, sviluppo del commercio: tutto questo provocò un’improvvisa ripresa dell’industria, la nascita di nuove aziende, una frenetica ricerca di mercati di sbocco, la corsa al profitto, la costituzione di nuove società, l’investimento nella produzione di una massa di nuovi capitali costituiti in parte anche dai modesti risparmi dei piccoli capitalisti” (53).

Non c’è dubbio che la ripresa mondiale della produzione e degli scambi abbia investito anche l’economia italiana, infatti la costituzione del gabinetto Zanardelli-Giolitti (1901) segnò l’inizio di un’era di ascesa e di rigoglio per il capitalismo italiano in cui, a parere di Grifone, dopo il superamento della crisi del 1893-94 vengono gettate le basi del capitalismo finanziario italiano (54). Sorgono infatti nel 1894 la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano, le quali conglobano la duplice fisionomia di banche commerciali e di istituti finanziari.

“Le due banche – scrive Grifone – benché commerciali di nome, assumono presto, necessariamente – data l’assenza di un libero mercato di capitali – la fisionomia di banche miste, in cui la figura di ente di finanziamento sovrasta quella di banco di sconto” (55). La Comit gestisce il settore tessile, il Credito Italiano le prime imprese elettriche.

Secondo Grifone l’impresa di Adua non è stata promossa dal capitalismo finanziario italiano, e i fatti del ’98 come pure i governi Di Rudinì, Pelloux, Saracco, non sono espressione della nuova borghesia ma delle vecchie classi coalizzate con la monarchia.

Solo con Giolitti la borghesia italiana trova una propria autonomia e una linea di azione sulla base di un nuovo elemento di coesione: il capitale finanziario, derivato dalla fusione tra capitale bancario e capitale industriale.

Erano queste le forze che sostenevano una politica estera in cerca di mercati e zone di influenza per l’espansione del capitale finanziario italiano.

L’analisi di Grifone è stata confermata da molti altri storici i quali, pur non parlando di nascita del capitale finanziario in Italia sul finire del secolo scorso, hanno sottolineato la grande espansione dell’industria italiana, la nascita di un moderno capitalismo e l’ampliarsi del commercio estero.

Scrive Castronovo a proposito del take off dell’industria italiana: “La progressiva ascesa dei prezzi e degli scambi su scala internazionale offrì la più ampia opportunità commerciale alle nostre industrie: il commercio estero italiano crebbe fra il 1900 e il 1914 del 118% (rispetto al 55% dell’Inghilterra e al 92% della Germania), mentre le esportazioni aumentarono nel ventennio 1893-1913 di circa due volte e mezzo in termini di valore” (56).

Certamente a Lenin sfuggivano, per mancanza di sufficienti informazioni, le caratteristiche specifiche del capitalismo italiano e del nuovo fenomeno del capitalismo finanziario, che conoscerà solo durante la stesura dei “Quaderni sull’imperialismo”, nonostante ciò era in grado di sottolineare, molto più dei dirigenti socialisti italiani dell’epoca, le ambizioni colonialiste italiane unite a una politica estera aggressiva che poi sarebbero culminate nell’impresa di Libia e nell’intervento nella prima guerra mondiale.

Nei “Quaderni” emerge che alcuni osservatori europei, sin dai primi anni del ‘900, non avevano dubbi sul carattere imperialistico del capitalismo italiano. P. Louis nel 1904 scriveva: “L’imperialismo trionfa egualmente in Inghilterra e negli Stati Uniti, in Giappone e nell’Impero Russo, in Germania e in Italia” (57). Otto Bauer nel 1909 scriveva profeticamente: “Parlano di Trento e Trieste e penseranno all’Albania… Così alle masse della nazione italiana si riuscirà a presentare una guerra imperialistica di conquista come una guerra per la libertà nazionale” (58). A. Tardieu nel 1909 ricordava che l’Italia già da molto tempo (Mazzini nel 1838) avanzava pretese sull’Africa settentrionale e l’odio a causa dell’occupazione francese di Tunisi (1881) aveva spinto l’Italia verso la Germania (59). Fin dal 1902 A. Hobson nel suo saggio sull’imperialismo definiva “aspirazioni imperialistiche” le mire italiana in Abissinia (60).

A questo proposito è necessario sottolineare l’immaturità del PSI nell’analisi della trasformazione del capitalismo italiano durante l’età giolittiana e, quindi, della politica estera dello Stato italiano.

Si rimane disorientati dopo la lettura di tante pagine della “Critica Sociale” e dell’ “Avanti!”, dedicate quasi esclusivamente a problemi tattici e organizzativi del partito, quando si cerchi di comprendere i motivi della quasi assenza di un dibattito sui problemi dello sviluppo del capitalismo italiano e delle sue profonde trasformazioni in quegli anni (61). Ancora più disorientati perché nel PSI non vi erano economisti di professione e quindi l’analisi economica veniva affidata a professori universitari di idee liberali come Einaudi, Pareto, Pantaleoni, che scrivevano su “Critica Sociale”, imponendo a tutto il partito le loro analisi.

Si tratta a nostro parere di profonda ignoranza di fronte ai complessi problemi del rapporto tra struttura economico-sociale e sovrastruttura politica, di incapacità nell’ancorare l’azione del partito ad un’analisi non solo delle forze politiche in campo ma anche alle trasformazioni strutturali e alle contraddizioni dell’imperialismo italiano. Basti pensare alle difficoltà che Turati avrebbe avuto nel comprendere come la “democrazia positiva e moderna” del governo giolittiano potesse imporre l’impresa libica (62).

Ha ben ragione Cortesi quando scrive: Il relativo aumento dei salari e dei consumi dell’ultimo decennio, gli inizi di una legislazione del lavoro, la ‘cittadinanza politica’ riconosciuta a un parte delle masse lavoratrici – che erano gli indici ai quali soprattutto guardavano i riformisti e i sindacal-riformisti – erano in realtà manifestazioni funzionali di una turbinosa e disordinata crescita industriale, avvenuta sotto l’ombrello protezionistico e il dominio via via sempre più ampio dell’ ‘alta banca’, cioè del capitalismo finanziario” (63).

Sfuggiva a tutta la dirigenza riformista, al tempo della guerra di Libia e nel periodo precedente, lo “scioglimento dei nessi tra la forma del reggimento politico e lo sviluppo ‘positivo e moderno’ del capitalismo italiano in imperialismo” (64). Tuttalpiù quando la dirigenza riformista parlava, nel decennio giolittiano, di “imperialismo” si riferiva esclusivamente alle potenze centrali. Così scrisse Bissolati, di fronte all’occupazione austro-ungarica del 1908 della Bosnia e all’inizio della guerra mondiale nel 1914, sottovalutando l’aggressività imperialistica della Francia e della Gran Bretagna. Così anche Arturo Labriola nella sua distinzione aprioristica, di fronte alla guerra russo-giapponese del 1905, fra potenze “moderne” e “democratiche” (Inghilterra, Italia, Francia) e potenze “assolutistiche” e “feudali” (Austria, Germania, Russia) (65).

Nel 1903 Costantino Lazzari, rispondendo a Bissolati, il quale sosteneva che nell’ “interesse della democrazia” l’Italia doveva avvicinarsi alla Russia contro la Triplice Alleanza (66), affermava che ai socialisti non doveva interessare la politica estera della borghesia italiana (!) (67).

Scrive Manacorda, riassumendo il dibattito sulla guerra russo-giapponese nel socialismo italiano, cercando di spiegare la presunta “missione civilizzatrice” del Giappone in Asia attribuitagli da Arturo Labriola e da molti socialisti italiani: “Tanto è lontana ancora dalla mente dei socialisti italiani la nozione stessa dell’imperialismo, del peso ormai determinante che hanno nei rapporti internazionali gli interessi capitalistici alla conquista di fonti di materie prime e di mercati” (68).

E’ necessario ricordare che Lenin aveva più volte sottolineato che il “nemico è in casa nostra” e che il primo compito del proletariato rivoluzionario è smascherare sia le trame imperialistiche del proprio Stato sia la politica di tutti i sedicenti partiti “socialisti” e “democratici”.

Siamo del parere che questo sia un punto su cui misurare tutta la diversità tra la prassi socialdemocratica e quella rivoluzionaria del leninismo.

Il primo apparire del nome di Lenin in Italia

Fino ai congressi di Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916), ma soprattutto fino allo scoppio della rivoluzione di ottobre, non si può assolutamente parlare di diffusione delle idee di Lenin in Italia, ma solo di una superficiale conoscenza del suo nome.

La prima volta in cui il nome di Lenin compare in Italia, secondo lo studio di Luciano (69), è nel 1902 in un testo di Achille Loira dal titolo “Marx e la sua dottrina” (70), nel quale si faceva riferimento, in modo incidentale e sulla base di fonti indirette, allo studio di Lenin sullo sviluppo del capitalismo in Russia (71). Nel 1904 “Critica Sociale” (72) pubblica un articolo di Rosa Luxemburg in polemica contro il testo di Lenin “Un passo avanti, due indietro”.

In questo testo (firmato E. M.) si tacciava Lenin di “blanquismo e di giacobinismo autoritario e carbonaro”, deformando così la concezione leninista del partito. Sempre in questo articolo veniva criticato il concetto leninista di avanguardia ed era rifiutata la formazione di una coscienza scientifica nel proletariato grazie all’azione di un ristretto gruppo rivoluzionario legato al partito.

Analizzando questo articolo scrive acutamente Marramao: “Segue infine la critica, ancora embrionale, all’avventurismo, che poi costituirà il cavallo di battaglia di Mondolfo contro il leninismo e la rivoluzione bolscevica (critica che ha la sua matrice teorica nella prefazione del ’59 a ‘Per la critica dell’economia politica’. Sin da allora dunque (1904, prima del tentativo rivoluzionario del 1905) sono dati i termini della polemica antileninista da parte del socialismo riformista” (73).

Questo stesso articolo della Luxemburg era apparso sulla rivista “Il Socialismo”, diretta da Ferri tra il febbraio 1902 e il febbraio 1905, che però pubblicava essenzialmente articoli di parte menscevica e molto riassunti.

Nemmeno gli avvenimenti del gennaio 1905 contribuirono ad una migliore diffusione in Italia dell’esperienza bolscevica e di Lenin, nonostante l’ “Avanti!” seguisse, sin dal gennaio 1905 e almeno per tutto il 1906, con attenzione e partecipazione emotiva i fatti della rivoluzione russa. A parere di Manacorda (74) fino al 1905 i contatti tra la socialdemocrazia russa e il socialismo italiano sono stati scarsi e molto vaga era la conoscenza dei partiti di sinistra che agivano in Russia.

Il socialismo italiano del 1905 non era assolutamente il grado di distinguere le due correnti fondamentali del socialismo russo e le rispettive posizioni politiche, perché la qualità e la quantità di fonti d’informazione erano molto precarie. Addirittura per Manacorda (75), fino ai grandi movimenti di massa del 1905 (ma in parte anche dopo), l’ ”Avanti!” riteneva che il terrorismo dei populisti russi fosse l’unica arma politica utilizzabile dal popolo russo contro lo zarismo. Erano soprattutto i sindacalisti rivoluzionari in Italia ad esaltare la violenza terroristica in Russia come unico mezzo di lotta politica.

Subito dopo gli avvenimenti del gennaio 1905 l’ ”Avanti!” identifica nella frazione menscevica la guida dell’intero proletariato russo. Solo sulla base di un’ampia citazione di un articolo di Kautsky apparso nella “Neue Zeit”, i socialisti italiani venivano a conoscenza del fatto che i socialdemocratici russi erano divisi in due distinte correnti e che i socialisti rivoluzionari provenivano, più che dal marxismo, dall’anarchismo.

Ma l’ ”Avanti!”, più che il profondo contrasto politico-ideologico tra bolscevichi e menscevichi, coglieva unicamente i dissidi sulle questioni tattico-organizzative, delle quali non comprendeva l’importanza politico-teorica: “Pare che Lenin sia più favorevole dei compagni dell’Iskrà alla resistenza armata su tutta la linea e più scettico di fronte all’aiuto che la rivoluzione possa aspettare dai liberali” (76). “Questa è probabilmente – scriva Manacorda – la prima volta che l’ ”Avanti!” parla di Lenin (77).

Ancora il 29 novembre 1905 il quotidiano socialista dava notizia della pubblicazione della nuova rivista russa “Novaja Zizn” che conteneva, nel primo numero, le posizioni programmatiche della fazione bolscevica di “cui Lenin è l’anima”. Il giorno dopo l’ “Avanti!” definiva Lenin uno dei principali redattori della rivista russa.

Come è chiaro le informazioni su Lenin spesso venivano ricavate da fonti socialiste di altri paesi oppure erano banalizzate dalla stessa redazione dell’ “Avanti!”. “Pertanto – scrive Luciano – se è completamente infondato pensare che le sue idee politiche potessero entrare in circolazione proprio in questo periodo nel nostro paese, si può perlomeno ipotizzare che il suo nome incominciasse ad essere conosciuto quanto meno nella ristretta cerchia di alcuni leaders socialisti” (78).

Può sorprendere che nemmeno nel momento in cui il socialismo italiano si interroga sulla natura della rivoluzione russa e sui compiti del proletariato, né l’ “Avanti!” né il resto della stampa socialista sentano il bisogno di studiare l’originalità politico-sociale della realtà russa. Infatti la rivista “Il Socialismo”, alla vigilia della “Domenica di sangue”, pubblicava solo uno sbiadito riassunto dell’articolo di Lenin “L’autocrazia e il proletariato” (79) in cui venivano affrontati tutti i complessi problemi relativi ai compiti del proletariato nella rivoluzione democratico-borghese in Russia.

Anche i caratteri peculiari delle rivoluzione russa e dei compiti del proletariato sono esaminati sulla base delle esperienze “italiane” del socialismo di casa nostra: i sindacalisti rivoluzionari avevano proposto di organizzare una spedizione di tipo garibaldino in aiuto dei rivoluzionari russi (80); Costantino Lazzeri, vecchio operaista, sosteneva che il proletariato internazionale e il proletariato russo non dovevano interessarsi della lotta tra autocrazia e borghesia, perché non era in gioco il socialismo; i riformisti, Turati in testa, sottolineavano velatamente che il proletariato dei paesi occidentali non poteva imparare nulla dalle esperienze di lotta di un popolo immerso ancora, nel XX secolo, nelle tenebre del Medioevo.

In sostanza in Italia tutti erano d’accordo nel sottolineare che il proletariato russo, prima di emanciparsi definitivamente, doveva sopportare ancora per molti decenni lo sviluppo del capitalismo in Russia. L’analisi rigidamente deterministica del socialista di destra Podrecca arrivava a conclusioni fatalistiche e opportunistiche: “E’ possibile il salto della Russia autocratica e teocratica a una repubblica comunista?” (81). Naturalmente la risposta era negativa e il principale errore dei socialisti russi era stato quello di fare paura alla borghesia.

Il determinismo più piatto di stampo tipicamente positivistico, che in Italia veniva utilizzato per giustificare la prassi riformista dei “tempi lunghi”, era espresso anche da Ferri quando scriveva che le fasi di sviluppo non potevano essere soppresse tanto nella vita dell’individuo quanto nella storia dei popoli (82).

Talvolta invece l’ “Avanti!” sembrava quasi sottolineare che in Russia il proletariato stava combattendo una propria battaglia per una propria rivoluzione (83).

“E’ evidente – scrive Manacorda – l’oscillazione tra due posizioni antitetiche che non si riesce a superare dialetticamente” (84), ma più ancora è evidente l’incapacità di comprendere la specificità della situazione russa e la sordità nei confronti delle posizioni politico-ideologiche che Lenin e i bolscevichi stavano elaborando in questo periodo.

Se si scorre la “Critica Sociale” si rimane sorpresi osservando il poco spazio da essa dedicato agli avvenimenti russi tra il 1904 e il 1907: la rivista non si occupò mai della guerra russo-giapponese e, in tutto il 1905, dedicò solo due articoli alla rivoluzione russa.

Crediamo che su questi problemi si possa misurare appieno l’immaturità e l’ingenuità del socialismo teorico in Italia.

Con il colpo di stato zarista della primavera 1906 molti entusiasmi popolari si affievolirono e la questione russa decadde anche sulle pagine della stampa socialista italiana. Così anche il magro interesse per le posizioni leniniste sparì del tutto.

Eppure è interessante sottolineare il grande interesse delle masse popolari italiane per le vicende russe tra il 1903 e il 1908. Infatti fin dal 1903, in occasione del mancato viaggio in Italia dello zar Nicola II, è evidente nell’ “Avanti!” e nelle masse socialiste italiane, un diffuso stato d’animo antitirannico di derivazione risorgimentale, e di simpatia per i rivoluzionari che combattevano in Russia. Basti pensare ai numerosissimi comizi e cortei in tutta Italia quando si diffuse la notizia della “Domenica di sangue” (85), agli entusiasmi suscitati dall’arrivo in Italia (a Napoli) di Gorkij, visto come l’eroe della rivoluzione, e alle vivaci proteste della classe operaia torinese – ricordate da Lenin in uno scritto del 1908 (86) – che avevano impedito i festeggiamenti di Nicola II in viaggio in Italia nello stesso anno.

Per quanto ingenue e spontanee potessero essere alcune proteste dei lavoratori italiani, non c’è dubbio che esse esprimessero un sentimento di solidarietà politica e anche di vero internazionalismo che avrebbe potuto maturare politicamente se la stampa socialista avesse utilizzato gli avvenimenti russi per una riflessione che, partendo dalle esperienze russe e leniniste, arrivasse a investire la concezione del socialismo, del partito, della strategia e della tattica rivoluzionaria.

In realtà nessuno dei temi fondamentali della fallita rivoluzione russa – rapporto fra movimento operaio e socialismo, fra sindacati e partito, fra lotta economica e lotta politica – troveranno sviluppo nel dibattito teorico e tanto meno nella coscienza delle masse.

I limitati e saltuari incontri tra Lenin e i socialisti italiani nelle aule dei congressi della Seconda Internazionale non contribuirono certamente ad una conoscenza, seppur parziale, delle esperienze politico-teoriche di Lenin.

E’ significativo il fatto che nei resoconti di Lenin dei vari congressi dell’Internazionale a cui aveva partecipato fino al 1914 egli non riporti mai gli interventi dei socialisti italiani, il che può essere interpretato come specchio del ruolo subalterno che il socialismo italiano ricopriva a livello internazionale.

Ancora più curiosa è la mancanza, nei resoconti dell’ “Avanti!” dei congressi dell’Internazionale, fra il 1907 e il ’12 (ad eccezione del Congresso di Stoccarda) del nome di Lenin tra i componenti delle delegazioni russe, nonostante la sua attiva partecipazione congressuale.

Nemmeno la presenza in Italia della rivoluzionaria russa Angelica Balabanoff, che conosceva molto bene Lenin, ha contribuito ad una diffusione meno epidermica delle idee politiche leniniste.

Lenin in Italia

Lenin venne due volte in Italia, nell’aprile del 1908 e nel luglio del 1910, ospite a Capri di M. Gorkij.

Questi due viaggi, giudicati dai biografi una semplice vacanza, sono spesso sconfinati nella leggenda. Invece, sulla base della ricerca di Bruno Caruso, “Lenin a Capri” (87), possiamo affermare che proprio nella bellissima isola del golfo di Napoli, Lenin ha combattuto e risolto una delle sue più impegnative battaglie politico-teoriche.

A Capri, sotto la protezione di Gorkij, alcuni intellettuali di tendenza revisionista, che si proponevano di adeguare il marxismo alla religione e alla nuova “scienza” borghese (il “machismo”), avevano tentato di far nascere, come a Bologna, una scuola di partito per quadri bolscevichi.

Lenin verrà la prima volta in Italia per sottrarre Gorkij alle influenze revisionistiche di Bogdanov, Lunaciarski, Bazarov.

“La visita a Capri – scrive Luciano – e i colloqui con Gorkij, Bogdanov e compagni, occupano, come è noto, un posto di qualche rilievo nella storia della costruzione dei fondamenti ideologici della rivoluzione bolscevica” (88).

E’ significativo il fatto che, al ritorno dal primo viaggio a Capri, Lenin continuerà la stesura del libro “Materialismo ed empiriocriticismo” (89), iniziato nel febbraio del 1908 e terminato nel mese di ottobre dello stesso anno, dedicato alla difesa del materialismo storico marxista contro i seguaci di Mach e Avenarius.

Lenin tornò di nuovo a Capri nel luglio del 1910 quando ormai il distacco di Gorkij dai “frazionisti capresi” aveva reso impossibile la continuazione della scuola di partito nata nel 1909.

Si può affermare, basandosi sulle analisi di Caruso (90), Fischer (91), Ulam (92), Luciano (93), Bociarov (94), e sui preziosi ricordi di Maksim Gorkij (95), che Lenin a Capri non ebbe, probabilmente per mancanza di tempo materiale, alcun contatto con esponenti del socialismo italiano, ma ciò non va interpretato come disinteresse nei confronti del movimento operaio italiano, come ben dimostrano alcune significative lettere inviate a Lunaciarski, tutte dei primi mesi del 1908.

Nella prima (scritta tra il 14 gennaio e il 13 febbraio) Lenin chiedeva a Lunaciarski per il “Proletarii” delle “corrispondenze dall’Italia di 8-12 battute, due volte (approssimativamente) al mese” (96). Nella seconda chiedeva all’interlocutore russo un “articolo sull’uscita di Ferri dall’ “Avanti!” (97) in quello stesso periodo”. Nella lettera del 27 febbraio 1908 scriveva a Lunaciarski: “Ancora una volta vi rammento di Ferri. Se non l’avete inviato è proprio un bel guaio” (98).

Scrivendo a Gorkij il 19 aprile del 1908 sollecitava a Lunaciarski al più presto l’ “articolo promesso sullo sciopero di Roma” (99), che uscì poi sul “Proletarii” il 29 aprile 1908; in un’altra lettera ai coniugi Gorkij, del 15 gennaio 1908, Lenin scriveva che stava imparando l’italiano (100).

Molto probabilmente Lenin, che in quel periodo si trovava a Ginevra, voleva utilizzare Lunaciarski per saperne di più sulla realtà italiana e per fare del “Proletarii” una rivista capace di dare voce ai più giovani movimenti socialisti europei ma, come si capisce dalle lettere di Lenin, Lunaciarski, che in quel periodo era fedele a Bogdanov, non aveva intenzione di impegnarsi a fondo con la rivista parigina.

La stampa italiana aveva parlato della scuola bolscevica a Capri e aveva intentato una campagna scandalistica sostenendo che Gorkij stava per essere espulso dal partito.

Il “Giornale d’Italia” del 3 settembre del 1909 titolava: “I russi a Capri; che cosa si sta macchinando?”. Il “Corriere della Sera” del 1 dicembre 1909, riprendendo un telegramma inviato da Pietroburgo al “Daily Mail”, titolava: “Massimo Gorkij espulso dal partito”. Tre giorni più tardi la testata milanese faceva un passo indietro, intervistando direttamente Gorkij a Capri e dichiarando infondata la notizia della sua espulsione.

In questa intervista, “Un colloquio con Massimo Gorkij”, si parlava anche di Lenin come del direttore del “Proletaire”. Lenin stesso dovette intervenire sul “Proletarii” dell’11 dicembre ’09 per smentire i fatti con un amaro corsivo dal titolo “Una favola della stampa borghese sull’espulsione di Gorkij” (101).

Non sembra invece che la stampa socialista italiana abbia dato spazio alle controversie di Capri, forse giudicando le polemiche tra i profughi russi come banali liti tra intellettuali, perdendo così una preziosa occasione per avere una conoscenza non episodica e di prima mano delle idee leniniste e del divario che separava a Capri il materialismo storico dal revionismo empirista ed eclettico.

Note al capitolo primo