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“Gente di trincea, storie di soldati italiani al fronte”

“Gente di trincea, storie di soldati italiani al fronte”

Appunti per conferenza

I temi affrontati saranno tre:

L’entrata in guerra dell’Italia / 24 maggio ‘15

– le trincee e vivere in trincea / “Gente di trincea”

– La Guerra bianca in montagna

– La guerra sul Pasubio

 

L’entrata in guerra dell’Italia / 24 maggio ‘15

L’Italia entrò in guerra all’alba del 24 maggio del ’15 confidando in una rapida e risolutiva vittoria contro il nemico secolare: l’impero austro-ungarico.

In quei giorni il paese appariva unito come non mai nella sua storia recente (l’Unità era dal 1861): i neutralisti presero atto della sconfitta e da subito vollero sostenere la nazione in guerra.

Il Psi fece propria la formula del “non aderire né sabotare”, i cattolici e i giolittiani si dichiararono patriottici e mostrarono lealtà verso il re Vittorio Emanuele III. A Bologna, comune socialista, dopo 9 anni fu esposto il tricolore.

Dopo l’ubriacatura ideologica del “maggio radioso” e l’entrata in guerra a fianco dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) contro gli Imperi centrali (Germania e Impero austro-ungarico), i soldati partirono verso il fronte.

Nelle città e nelle campagne la maggioranza della popolazione appariva estranea od ostile alla guerra. Il mito di Trento-Trieste non scuoteva l’apatia dei fanti-contadini, la retorica delle “terre irredente” (da liberare) non era capita dalla gran massa dei soldati.

I soldati già ammogliati partivano subendo la guerra come nel passato era stata subita ogni avversità (siccità, inondazioni, fame), solo i più giovani tendevano a vedere la guerra come straordinaria avventura che li portava lontano da casa.

In ogni caso tutti erano convinti del “Natale a casa” e della “grande Libia”. Eppure la guerra era iniziata il 1 agosto dell’anno prima e c’era già stato un primo Natale di guerra.Cadorna era molto fiducioso: subito Gorizia, Trieste e Lubiana e dopo pochi mesi a Vienna.

C’era la convinzione che l’intervento italiano avrebbe risolto la guerra perché l’Austria dovendo già combattere contro la Russia e la Serbia non avrebbe potuto tollerare l’apertura di un terzo fronte. Nessuno sapeva quale terribile esperienza sarebbe stata la guerra nonostante fosse iniziata già da 10 mesi con terribili battaglie.

La minoranza intellettuale nell’esercito (ufficiali di carriera e di complemento) era convinta di combattere la quarta  guerra del Risorgimento dopo le precedenti tre (1848-59-66).

La guerra era immaginata come una avanzata inarrestabile guidate dalle bandiere al vento e dalle marce militari della fanfara del reggimento. I più ardimentosi sognavano di morire come Manara, Mameli e di combattere come Garibaldi.

Eppure la guerra, iniziata dall’agosto del ’14, aveva mostrato grandi novità rispetto alle già cruente battaglie dell’Ottocento: dopo la battaglia della Marna (ancora di movimento), la guerra si era impantanata nelle trincee che correvano dalla Manica fino alla Svizzera per 800km, la mitragliatrice aveva mostrato la sua potenza distruttiva, i fucili a ripetizione erano una realtà così come i canoni a tiro rapido (20 colpi al minuto), erano comparsi i primi grandi obici per sventrare la fortezze e il 21 aprile del ’15 i tedeschi avevano usato per la prima volta il gas in Belgio (Ypres).

Si può comprendere l’entusiasmo dei soldati che nulla sapevano di quanto era accaduto sul fronte occidentale e orientale, risulta invece incomprensibile l’esagerato ottimismo delle gerarchie militari.

A livello di armamenti la situazione era precaria:

– le artiglierie erano carenti e il munizionamento inadeguato

– nel maggio del ’15 nessun reggimento possiede mitragliatrici (le prime solo a luglio/ due per reggimento)

– le bombe a mano erano sconosciute

– non tutti gli ufficiali avevano la pistola d’ordinanza / alcuni la comprarono a loro spese

– nessuno sapeva come si scavavauna trincea o una postazione al coperto/ gli austriaci sì

– non tutti i soldati avevano il fucile 91 / produzione 2500 pezzi al mese

– mancavano le cartucce

– il parco veicoli era inesistente / la II armata aveva una sola autovettura: per il comandante

– mancavano anche le famose pinze tranciafili fortemente chieste da Cadorna accanto alle artiglierie mentre le mitragliatrici non erano al centro delle sue richieste

– i soldati non avevano l’elmetto / arriveranno solo nel ’16

– L’esercito austro-ungarico aveva decisamente meno soldati, però era meglio armato con mitragliatrici e cannoni e aveva l’esperienza di un anno di guerra.

Però è vero che questa approssimazione era tipica di tutti gli eserciti:

– i francesi andarono all’attacco nel ’14 con i tradizionali pantaloni rossi

– gli ufficiali dei diversi eserciti fecero affilare le sciabole e tennero pronta la cavalleria per lo sfondamento delle linee nemiche

– prima del ’14 gli istruttori francesi non facevano scavare trincee e le tecniche di assalto non tenevano conto delle mitragliatrici

– per tutti l’assalto ideale era a ranghi compatti e paralleli di giorno. Anche i tedeschi andarono incontro a terribili carneficine (La “strage degli innocenti” che scandalizzò il fante Hitler)

– gli ufficiali mostravano con orgoglio fregi e mostrine al nemico così erano i primi a essere mitragliati

– non fu facile convincere gli ufficiali tedeschi a nascondere con un panno il “chiodo” dell’elmetto perché luccicava al sole

– tutti gli eserciti erano convinti della “guerra breve”

In sostanza è vero che i generali fanno la guerra con idee e strategie della guerra precedente: ossia sono sempre in ritardo di una guerra!

Ma se questa impreparazione poteva essere capita all’inizio della guerra, appare assurda dopo quasi un anno. Alcuni ufficiali italiani avevano assistito alle grandi battaglie in Francia, avevano relazionato sulle novità ma Cadorna non si era lasciato influenzare.

Cadorna, “Attacco frontale e ammaestramento tattico”

Il testo guida per tutti gli ufficiali italiani era il famoso libretto rosso di Cadorna: “Attacco frontale e ammaestramento tattico”. Descriveva nel dettaglio come attaccare: a ranghi paralleli, a ondate successive dopo la preparazione del terreno da parte dell’artiglieria.

Il risultato di queste direttive furono le prime 4 battaglie lungo l’Isonzo, da giugno a dicembre del ’15, con esiti fallimentari: 62mila morti, 170mila feriti su un totale allora di un milione di uomini mobilitati. Poco meno di 1 su 4 fu o ferito o ucciso.

Questo vuol dire che tra maggio e novembre le perdite giornaliere furono di 326 morti e 893 feriti. “Una guerra da pazzi” come scrisse il generale Caviglia nel suo diario.

Il “sacro entusiasmo” del ’15 scomparve anche negli ufficiali interventisti e dal “maggio radioso” si passò al “funereo autunno” segnato dalla pioggia, dal fango e da sofferenze che nessuno aveva messo in conto. Ovunque dominavano le trincee.

Ma come erano fatte le trincee?

Le trincee erano, in relazione alla distanza da quelle nemiche, “avanzate”, di “prima linea”, di “massima resistenza”, più dietro c’era il vasto universo delle “retrovie”.

Nelle retrovie, protette da altre trincee e camminamenti coperti, c’erano i comandi, le artiglierie campali, i centri di intervento sanitario, i magazzini, ossia le retrovie avanzate del campo di battaglia.

Le trincee avanzate e i piccoli posti di osservazione erano praticamente in “bocca al nemico” (poche decine o poche centinaia di metri). Non c’era il pericolo delle artiglierie avversarie ma delle proprie. La funzione era osservare il nemico a poca distanza.

Il pericolo era legato alla vicinanza del nemico. Più che trincee scavate i soldati utilizzavano ripari naturali oppure le asperità del terreno. In caso di offensiva nemica erano spazzate via.

Più dietro (poche decine di metri o poche centinaia) c’erano le trincee di prima linea in genere + accurate, scavate nella roccia a colpi di piccone o esplosivo rafforzate da sacchi a terra, scudi di ferro e protetta da reticolati mobili. Erano alte un metro e mezzo, fatte quindi per il combattimento molto meno per viverci.

Questa era la linea meglio presidiata con mitragliatrici, fucili, bombe a mano. Fungeva anche da linea in cui convogliare gli uomini destinati all’attacco i quali avrebbero dovuto raggiungere attraverso camminamenti protetti i “piccoli posti” ed essere pronti al balzo verso la trincea nemica.

Qualche centinaio di metri dietro correva la trincea di massima resistenza. Era la + forte posizione sul campo di battaglia. Era profonda e collegata a numerosi camminamenti alle posizioni precedenti e retrostanti, con piazzole per mitragliatrici e calibri da trincea. Era protetta da profonde siepi di reticolati fissi e mobili.

Più indietro ancora c’erano le retrovie immediate del fronte (alcuni chilometri dalla prima linea): in zone protette erano accolti i reparti di rincalzo, i comandi di reggimento e brigata, nonché i servizi ospedalieri di pronto intervento. E poi spazi per le importanti attività logistiche: magazzini viveri, attrezzature e munizioni, salmerie e carriaggi, animali da macello e trasporto.

Più lontano ancora c’erano le retrovie lontane dalla linea del fronte, importanti per rifornire di uomini e mezzi le linee avanzate.

Tutto questo presupponeva che una fascia di circa 30 km dal fronte fosse occupata dallo stato maggiore italiano. La stessa cosa facevano gli austro-ungarici. In totale una fascia di 60 km dalle prime linee era stata stravolta e adattata alla prima guerra moderna con i civili in gran parte evacuati.

Si rischiava molto a poche decine di metri dal nemico ma anche la trincee arretrate erano sotto il fuoco permanete dei grossi calibri soprattutto nell’imminenza di un attacco quando si ammassavano reparti di rincalzi in attesa di entrare in azione.

Qual era la disposizione dei reparti in trincea?

Due terzi nelle prime linee mentre il rimanente terzo veniva tenuto di rincalzo nelle più defilate trincee arretrate, pronto ad intervenire in caso di necessità.

In caso di attacco in poche centinaia di metri di profondità erano schierate decine di migliaia di soldati pronti all’attacco. In questi casi le perdite erano numerose perché i ripari erano poco protetti per numerosi soldati esposti al fuoco nemico

Le trincee avversarie erano molto simili a quelle italiane sia nelle ripartizione che nelle disposizione degli uomini.

Ne consegue che in prima linea:

– gli uomini sono esposti ad attacchi e contrattacchi frequenti, fortissimo stress, impossibilità di muoversi di giorno mentre di notte si lavorava fervidamente, cecchinaggio, azione dei piccoli obici da trincea (mortai, lanciagranate, bombarde, proiettili che scoppiavano sopra la trincea e caricati a pallettoni e spezzoni) ma anche mitragliatrici e bombe a mano. In sostanza forti perdite e morale molto basso

Quanto stavano i soldati in prima linea?

Nei settori del Carso e dell’Isonzo mediamente tra i 25 e i 30 giorni tra i “piccoli posti”, la prima linea, la linea di massima resistenza e le immediate retrovie. In caso di azioni belliche il periodo poteva essere minore perché i reparti dovevano “essere ricostruiti” oppure maggiore per necessità militari. In genere dopo un turno in prima linea le perdite erano di un terzo degli effettivi.

La permanenza nelle posizioni avanzate poteva essere così suddivisa (esempio da una testimonianza di soldati ungheresi sul San Michele):

– 8 giorni e 8 notti nelle primissime linee dove dormire era molto difficile e non c’erano ricoveri

– 4 giorni nelle posizioni di riserva dove il pericolo era minore ma di notte ferveva il lavoro

– dopo 13 giorni il reparto scendeva alle immediate retrovie (a un paio di km dalla linea del fronte) dove c’era la possibilità di lavarsi e riposare in baraccamenti o alloggi di fortuna in lamiera o in pietra (per tre giorni)

– al 16° giorno il reparto tornava di nuovo in prima linea fino al compimento di tre-quattro settimane

– se non c’erano azioni militari i soldati erano accantonati nelle retrovie lontane dove i pericoli erano molto bassi per alcune settimane

– l’unico divertimento nelle retrovie l’alcool (anche nelle trincee) e le case di tolleranza nelle retrovie dove la prostituzione era esercitata sotto il controllo delle autorità militari

In prima linea:

– era impossibile lavarsi e farsi la barba, soprattutto perché l’acqua scarseggiava

– si dormiva di giorno (se non c’erano azioni belliche) e si lavorava duramente di notte, tranne i posti avanzati

– si mangiava irregolarmente di notte, a volte freddo, perché di giorno i portatori erano sotto il fuoco nemico. A volte i soldati dovevano ricorrere alle razioni di emergenza: gallette, scatolame, cibi liofilizzati detestati dai soldati (riso e minestra) / guerra industriale

– cosa mangiavano: quando era buio arrivavano le marmitte che contenevano il cibo in genere caldo: pasta in brodo cotta alle 16, un pezzo di carne lessata in sacchi, una pagnotta, caffè caldo, vino e a volte formaggio / il tutto una sola volta al giorno

– la razione di pane è 750gr all’inizio e poi 600gr dalla fine del ’16. / gli austriaci stavano peggio

– cronica mancanza di acqua in prima linea / in genere la razione era di mezzo litro di acqua al giorno / razione insufficiente

– in realtà la razione invernale doveva essere composta da 750gr di pane, 375gr di carne, 200di pasta + cioccolata, formaggio, vino, liquori, caffè, zucchero. La realtà era diversa

– la vicinanza del nemico produceva una forte tensione psico-fisica

– in prima linea il rischio di essere coinvolti in attacchi in massa oppure di azioni notturne per il taglio dei reticolati (tubi di gelatina) era molto forte

– era molto difficile l’evacuazione dei feriti mentre i morti non erano sepolti (calce oppure bruciati con la benzina, se c’era la possibilità)

– i rigori del clima carsico: estati afose e umide e inverni rigidi sferzati dalla bora

– i soldati erano esposti alle intemperie oppure sotto ripari di fortuna (buche, uso di lamiere, teli da tenda…)

– nel fango e sotto la pioggia proliferavano il “piede da trincea” (congelamento degli arti inferiori), i reumatismi, polmoniti, raffreddamenti, infezioni intestinali, malaria

– l’abbigliamento era inadeguato: mancavano scarpe e stivali di buona qualità / suole di legno o di cartone, tomaie rigide, mantelline e cappotti inadeguati, il soprabito di gomma arriverà solo nel ’17 (in precedenza le mantelline di lana si impregnavano di acqua)

– condizioni igieniche pericolose: i bisogni corporali erano buttati all’esterno, proliferavano pidocchi e cimici, mosche, topi che rifiutavano il formaggio

– rischi di malattie contagiose come il tifo petecchiale (pidocchi), colera / dall’estate del ’15 con alcune migliaia di morti

– Caccia Dominioni: se moriva un mulo, inchieste su inchieste, se moriva un fante, un “frego sul ruolino e via”

– nella memorialistica le trincee sono state paragonate a degli immondezzai rigurgitanti di rifiuti, liquami, escrementi in cui proliferavano solo insetti, scarafaggi, parassiti

– tutto questo in cambio con un solario di 0,50 centesimi mentre a Torino un operaio a cottimo percepiva 7,60 al giorno. Cadorna percepiva 4000 lire al mese. Un soldato 15 lire. Una famiglia priva del capofamiglia sotto le armi percepiva meno di 2 lire al giorno per moglie e 4 figli. In totale il soldato arrivava a 2,50 per un carico di famiglia di questo tipo

Come passavano il tempo i soldati in trincea, se non c’erano offensive o attacchi nemici?

In una condizione di assoluta immobilità l’unico passatempo era scrivere a casa: 4 miliardi di lettere scritta dal fronte a casa e viceversa nonostante una buona parte dei soldati fosse analfabeta. Diari di guerra.

Un’altra forma del vivere in trincea era la socialità che nasceva su base fortemente regionale o locale

Nelle retrovie le condizioni di vita del soldato miglioravano considerevolmente nonostante affollamento nelle baracche, sorveglianza militare, limitazioni di movimento, corvèe pesanti, addestramento.

Il riposo nelle lontane retrovie durava tra i 15 e i 30 giorni. Il rischio di bombardamenti era ridotto.

Nelle retrovie c’erano i bordelli e la possibilità di frequentare civili e luoghi di ritrovo

La Guerra bianca

Bisogna premettere subito che se la Grande guerra è stata in gran parte dimenticata dall’opinione pubblica, la “guerra bianca” è stata praticamente cancellata dalla memoria collettiva.

Il confine italo-austriaco nel ’14 sembrava una lunga S rovesciata: partendo dallo Stelvio il confine correva sulle vette + alte del gruppo Ortles-Cevedale e dell’Adamello-Presanella (toccando i 4000 metri di quota) per poi scendere a sud verso il Garda di cui tagliava la punta settentrionale . Poi il confine risaliva dalla Val d’Adige verso il Pasubio fino a sopra Asiago. Superata la Valsugana il confine saliva verso nord-est toccando la Marmolada e Cortina d’Ampezzo per poi unirsi alle vette delle Alpi Carniche. Successivamente il confine scendeva verso sud a Cividale.

Qui finivano le grandi vette e il confine correva per ampi tratti lungo l’Isonzo fino a Gorizia e lungo il Carso dove vennero combattute le battaglie + sanguinose.

Questo vuol dire che dallo Stelvio fino all’Adriatico, per 500 km, si estendeva una continua linee di trincee e fortificazioni da una parte e dall’altra e per 400km, almeno fino al Sabotino (Gorizia), la guerra era combattuta su cime che andavano dai 1000 ai 3000m.

Sulla “guerra bianca” ci sarebbero tante cose da dire. Vista l’ora mi limito a qualche episodio significativo.

Si è combattuto spesso a 3000m. e oltre ma la battaglia + alta di tutta la storia è quella di punta San Matteo, nel gruppo dell’Ortles, a 3.684 metri. L’evento è del 13 agosto del ’18.

Punta San Matteo aveva una notevole importanza strategica per il controllo del settore. Quel giorno gli italiani conquistarono la vetta con una assalto ardito condotto da tre compagnie di sciatori  e una di mitragliatrici di un battaglione alpino.

Ma il 3 settembre le artiglierie austriache iniziarono a demolire le postazioni italiane. Dopo un terribile fuoco preparatorio due reparti dei Tirolen Kaiserschutzen (alpini tirolesi) si lanciarono all’attacco lungo la difficile parete sud e occuparono la cima catturando una 50ina di soldati italiani ma non il comandante, il capitano Berni, sepolto dal crollo di una caverna di ghiaccio in cui si era riparato.

Ma l’episodio che forse riassume di più il significato della “Guerra bianca” è sicuramente il combattimento sul monte Paterno (Dolomiti di Sesto) in cui trovò la morte la guida alpina Sepp Innerkofler di origine austriaca.

Innerkofler cercò di conquistare questa cima dominante con un colpo di mano il 4 luglio del ’15. Sepp scalò una parete del Paterno ma il presidio italiano reagì anche con lancio di sassi. Sepp fu colpito da un proiettile, forse da un masso, e cadde in un profondo camino.

Il giorno dopo alcuni soldati italiani, noncuranti del fuoco nemico, si calarono a recuperare la salma e dare degna sepoltura sulla cima del Paterno. Erano combattimenti sicuramente cruenti ma improntati a lealtà e rispetto reciproco. Sul Carso il rapporto tra italiani e austriaci era improntato spesso a reciproco odio.

Al di là degli scontri e delle epiche battaglie nell’”inferno bianco” delle Alpi la “Guerra bianca” volle dire un totale mutamento della conformazione dei luoghi investiti dall’arrivo e dal posizionamento di migliaia e migliaia di soldati.

Venne avviata rapidamente la costruzione  un imponente sistema di trincee, camminamenti, postazioni di artiglieria con un’estesa rete di infrastrutture di supporto con la costruzione di nuove tratte ferroviarie, strade, mulattiere, impianti di trasporto a fune e a trazione elettrica. Venne realizzato anche un complesso sistema di acquedotti e di reti telefoniche e telegrafiche.

Un’opera di “urbanizzazione diffusa” che mutò profondamente le caratteristiche di spazi fino a quel momento poco o nulla frequentati.

Pensiamo solamente alla costruzione di veri e propri villaggi di baraccamenti ai piedi delle montagne che erano dotati di molti servizi essenziali: dagli ospedali, ai bagni e agli impianti di disinfestazione, dai depositi di armi, proiettili e cibo fino ai baraccamenti in quota a ridosso del nemico.

Oppure pensiamo all’estesa rete di gallerie scavate da italiani e austriaci sotto i ghiacciai della Marmolada, dell’Ortles e dell’Adamello.

In particolare nel massiccio della Marmolada gli austriaci costruirono a partire dall’estate del ’16 una vera e propria “città di ghiaccio” fino a una profondità di 40 metri con 8 chilometri di gallerie (scavate nel ghiaccio e nella roccia) per permettere il ricovero della truppa, lo spazio per magazzini, depositi e perfino la stazione di arrivo di una teleferica.

Tra le gallerie + grandiose ricorderei la galleria Vittorio Emanuele in cima al Grappa con uno sviluppo di 5.110m. di lunghezza e con varie aperture nella roccia per posizionare 23 batterie di cannoni e 70 mitragliatrici. All’interno, oltre a depositi e ricoveri, si potevano “ospitare” 1500 soldati.

Ma fu imponente anche l’utilizzo di funicolari per far affluire anche nelle zone + impervie materiali (soprattutto legname per i baraccamenti), munizioni e per evacuare feriti e morti.

Ma dove non c’erano teleferiche era la forza muscolare di uomini e muli ad assicurare il rifornimento degli uomini in quota. L’utilizzo dei muli fu così accentuato che quasi rischiarono di scomparire dalle Alpi nel coro della guerra.

La guerra sul Pasubio

Il massiccio del Pasubio si trova in provincia di Vicenza esattamente nel punto di confine tra Veneto e Trentino. Anche allora il Pasubio divideva l’Italia rispetto all’Austria-Ungheria.

Fino alla “spedizione punitiva” voluta dal maresciallo Conrad nella primavera del ’16 il Pasubio rimane relativamente lontano dai punti caldi del confine italo-austriaco.

L’attacco austriaco iniziò il 15 maggio del ’16 con 400.000 uomini e ben 1150 pezzi di artiglieria di cui 60 di grosso calibro. Fu la più grande battaglia combattuta in montagna.

Anche il Pasubio cadde in parte di fronte all’avanzata nemica. Il 16 giugno l’offensiva termina per sfinimento e gli austriaci occupano una nuova linea difensiva basata su alcuni capisaldi strategici tra cui il Pasubio e l’Ortigara.

Quindi a metà del 1916 la situazione si stabilizza con l’occupazione della cima del Pasubio da parte dei due eserciti. In particolare gli austriaci occupano il cosiddetto “dente austriaco” a quota 2.203 mentre gli italiani il “dente italiano” a 2.220.

Dopo i primi sanguinosi tentativi da parte italiana di conquistare la posizione austriaca durante il ’16, nel ’17 è il momento della “guerra di mine”, che interesserà tutto il fronte italo-austriaco con il brillamento di 33 mine di varia potenza, che pur portando alcune volte all’occupazione della posizione nemica, non risulteranno mai decisive per la guerra. L’obiettivo della “guerra di mine” era quello di scavare profonde gallerie sotto le trincee avversarie per farle poi saltare assieme ai difensori.

Un lavoro durissimo che mise a dura prova sul piano fisico (le lunghe gallerie da scavare) che psichico (la paura di venire improvvisamente schiacciati e travolti da una mina nemica).

La guerra di mine fu + dura in cima al Pasubio con una continua attività di mina e contromina per intercettare la mina avversaria prima che questa fosse fatta esplodere.

Dal settembre del ’17 sul Pasubio vi fu un’impressionante serie di scoppi (5 mine italiane e 5 austriache) culminata il 13 marzo 1918 con l’esplosione di una grandiosa mina austriaca caricata con 50.000 kg di esplosivo (la più potente della guerra) che devastò l’avamposto italiano del Dente causando anche il brillamento della mina che gli italiani avevano nel frattempo predisposto. Nonostante il carattere terrificante dell’esplosione il Dente italiano rimase inattaccabile. Gli effetti furono così sconvolgenti che finì da ambo le parti la guerra sotterranea.

Nessuna di queste esplosioni fu risolutiva perché nessun lavoro di mina riuscì ad arrivare sotto il Dente avversario. I lavori di contromina riuscirono sempre a evitare la perdita della posizione fortificata (Dente). Per l’ascolto dei lavori avversari si usavano geofoni e telegeofoni.

La prima mina austriaca scoppiò il 29 settembre del ’17 provocando la morte di una trentina di soldati. Il 2 ottobre ’17 scoppiò la contromina italiana (16 tonnellate di gelatina) con effetti grandiosi: ci fu l’escavazione di un imbuto di 40 metri di diametro e 20 di profondità. Il 13 febbraio del ’18 una mina austriaca provoca la morte di 54 soldati.

E poi la terribile esplosione del 13 marzo ’18.

Per alimentare questa strana guerra di posizione a più di 2000 metri che riproduceva in piccolo la paralisi sul fronte dell’Isonzo fu costruita la famosa “strada delle 52 gallerie”, che è una delle costruzioni più mirabili dei reparti del genio italiano durante la G. guerra.

Questo percorso ha inizio a Bocchetta Campiglia a m. 1216 e arriva fino al rifugio Achille Papa (poco più di 1900) ai piedi della cima dominata dai due Denti.

La strada fu costruita durante la primavera–estate del ’17 e completata prima della fine dell’anno. Fu costruita al riparo dei bombardamenti per evitare la carozzabile degli Scarubbi, che corre in gran parte sopra i 2000m., ma troppo esposta al fuoco nemico e al rischio neve alta e valanghe.

Tra le gallerie più spettacolari, che danno la misura della complessità del tracciato, c’è la 12° lunga 95m., la 19° galleria è lunga 320 metri e si arrampica all’interno della roccia in 4 spirali rischiarata da alcuni grandi finestroni.

La 20° è forse la più spettacolare. Lunga un centinaio di metri, supera un consistente dislivello di 50 metri inerpicandosi a tripla spirale all’interno di un picco conico fino sbucarne presso la sommità. Notevole è anche la 34° lunga 132m.

Il paesaggio uscendo dalle gallerie è spettacolare con profondi canaloni a strapiombo.

Le gallerie furono aperte lavorando giorno e notte utilizzando mine e martelli perforatori (con lunga punta perforatrice) il cui funzionamento era assicurato dall’aria compressa proveniente da impianti a valle.

La tecnica era questa: i martelli foravano le pareti rocciose fino ad ottenere un canale cilindrico entro i quali venivano inserite cariche di gelatina esplosiva. Spesso gli uomini lavoravano sospesi nel vuoto per collocare i candelotti di dinamite.

In totale la strada è lunga 6550 metri scavati nella roccia, sono state perforate 52 gallerie per un totale di 2280 metri. La larghezza minima della strada è di 2.20m, normale 2.50. La pendenza media è del 12%. In qualche tratto arriva al 22%.

Furono aperte numerose finestre per l’areazione e l’illuminazione. Furono costruiti a completamento gallerie accessorie per postazioni d’artiglieria, muri di sostegno e ricoveri, baracche e magazzini, furono installate numerose teleferiche per il trasporto di materiali.

La strada era percorribile in condizioni di assoluta sicurezza. Era protetta a valle da una particolare ringhiera formata con funi metalliche, inoltre vi erano piazzole di sosta e lungo il percorso furono sistemate delle baracche contenenti attrezzi e viveri; speciali protezioni dalle valanghe e slavine furono costruite nei tratti rientranti dei canaloni.

La strada era percorribile in ogni condizione meteorologica (grandi nevicate, valanghe), al coperto della vista e dal tiro nemico.

Per facilitare l’afflusso di uomini, materiali, cannoni (alcuni 149), venne costruita anche la cosiddetta “strada degli eroi” che parte dal Pian delle Fugazze e raggiunge il rifugio Papa come la strada delle 52 gallerie.

La Strada degli eroi conta altre 11 brevi gallerie (per un totale di 1 km), quindi in totale le gallerie sono 63 (52+11).

Anche la Strada degli eroi fu completata alla fine del ’17. L’obiettivo era costruire un grande anello di strade che permettesse la difesa del Pasubio e la costante alimentazione della guerra di fronte alle postazioni austriache.

Per concludere un giudizio interessante: il generalissimo Cadorna definì la “Strada delle 52 gallerie”“Impresa da giganti, che nessun’altra opera eguaglia su tutta la fronte europea”. In questo aveva sicuramente ragione.

Giancarlo Restelli