Dal pane nero al pane bianco
E’ incredibile come il regime fascista riuscisse a propagandare come positive le rinunce anche in campo alimentare. La Mostra è piena di questi esempi: la carne fa male, il pane è migliore se non è bianco, il caffè è più salutare se è di cicoria, burro e olio possono essere sostituiti con la salsa rubra, cioè salsa rossa, cioè ketchup (che allora non si poteva chiamare così). Tutto ciò può anche essere vero ma deve essere una scelta, non un obbligo dovuto al fatto che quei prodotti non si trovano. Oggi molti coltivano per scelta sul proprio balcone piantine di pomodoro o di zucchine, è diventato di moda, ma nel periodo di guerra era un obbligo ed una necessità.
VIDEO Orti di guerra: raccolta delle patate nei giardini della Città universitaria. Pollai di guerra https://youtu.be/GgLbh_u8R9w (1.50 min)
Orti di guerra, persino in piazza del Duomo a Milano si coltivava il grano per fare il pane.
Il pane è sempre stato l’alimento più importante. Anche 4 mila anni fa nella tomba dei faraoni veniva messo del pane per l’aldilà, insieme a oggetti preziosi con gemme e oro. Nella Bibbia, il profeta Isaia, 600 anni prima di Cristo, prometteva al popolo, nel caso si fosse comportato bene,
“allora egli – cioè Jahvè, Dio – concederà la pioggia per il seme che avrai seminato nel terreno, e anche il pane, prodotto della terra, sarà abbondante e sostanzioso”.
Il sogno di un popolo: pane abbondante, ma anche sostanzioso. Già perché è importante anche la qualità del pane che si mangia.
Pane bianco, nero, giallo… Ma che pane mangiava la gente di Legnano nel periodo di guerra e nel primo dopoguerra?
Il pane bianco non esisteva più, se non sulle tavole dei tedeschi o, di nascosto, su quelle dei ricchi, era tornato il pane nero del tempo della prima guerra mondiale, stavolta ancora peggiore come qualità. E i panificatori erano costretti a non produrre pane bianco anche nel caso avessero la farina a disposizione.
Il pane nero era prodotto con farina integrale, con la crusca, e al frumento si aggiungevano le farine di mais, di segale e gli ingredienti più svariati, talvolta anche avariati. Alcuni panificatori aggiungevano persino segatura all’impasto. E il sale, soprattutto verso la fine della guerra, era un prodotto difficile da trovare, quindi il pane era insipido.
Se la qualità era pessima anche la quantità era scarsa. Già dalla fine del 1940 i generi più vari ed anche gli alimentari erano razionati per mezzo di tessere annonarie da cui venivano staccati i bollini per l’acquisto della razione di spettanza. Se un giorno si saltava il pane perché non si andava al panificio o perché il panificio non aveva avuto farina per produrre il pane, allora quella razione era persa. Le famiglie di partigiani o renitenti alla leva spesso venivano ricattate sospendendo loro la tessera annonaria, senza la quale era impossibile procurarsi legalmente il cibo. Ovviamente i partigiani, quelli in clandestinità o in montagna, di tessere non ne avevano e il pane dovevano procurarselo alla borsa nera o tramite contadini o panettieri che a rischio della loro vita glielo producevano. Nelle nostre cascine, tipo alla Mazzafame, il pane veniva preparato e cotto in cascina in un forno comune una volta a settimana.
La razione legale acquistabile di pane venne fissata a 200 grammi a testa, aumentabile fino a 400 per lavori manuali particolarmente faticosi.
“La massa dei consumatori – si legge sul giornale che annuncia la normativa di guerra – perfettamente conscia di quanto si attende dalla sua alta comprensione e dal suo patriottismo, ha accolto i nuovi provvedimenti con serenità e fiducia”.
Quello che ha compreso, la massa dei consumatori, è che la fame sta iniziando ad avere la F maiuscola. Chi ha dei soldi si rivolge alla borsa nera, chi non ne ha per sopravvivere cerca di scambiare oggetti, stoffe, quello che recupera, con alimenti.
La razione di pane scende a 150 grammi a testa.
Come giustamente sostiene un protagonista di quei giorni quando andiamo nelle scuole a raccontare cosa sono stati la guerra e il fascismo, 150 grammi di pane sembrano tanto, ma allora erano quasi tutto ciò che c’era da mangiare nella giornata, non c’era il companatico, il primo, il secondo, il contorno e poi il pane. C’era il pane e basta o quasi.
Ma c’erano anche dei legnanesi che stavano peggio, quelli che non erano a Legnano.
I militari che all’armistizio dell’8 settembre 1943 avevano scelto di non schierarsi con i nazifascisti erano stati internati in alcuni lager in Germania, Austria o Polonia, stammlag per le truppe e oflag per gli ufficiali. I soldati vennero inviati al lavoro coatto quasi subito e tra loro i fortunati vennero mandati nei campi come contadini, dove riuscivano a rimediare qualcosa in più da mangiare. Gli ufficiali vennero tenuti fino a fine 1944 nei lager, continuamente invitati ad aderire e ricattati diminuendo ogni volta le razioni di cibo. Una brodaglia calda amara e puzzolente fatta con paglia e foglie varie chiamata the di tiglio, una zuppa di bucce di rapa o di patata o di poco miglio oppure una rapa da foraggio cruda (a seconda dei lager), ogni tanto un cucchiaio di un patè grigio chiamato margarina sui cui ingredienti mio padre, internato militare nell’oflag di Wietzendorf, dopo aver saputo a fine guerra dei forni crematori ha sempre avuto terribili dubbi. E poi c’era il pane. Il pane veniva distribuito in un pezzo unico da dividere tra una decina o una ventina di militari e per evitare liti si inventarono complicati sistemi di pesatura con bilancini e di distribuzione casuale dei pezzi (leggete l’achiquestiere in Diario Clandestino di Giovanni Guareschi e vi fate un’idea delle difficoltà). Alla fine la razione era una fetta alta un paio di centimetri e non più grande di un pugno. Era pane nero, raffermo, fatto con tanta segale e segatura (di betulla principalmente), paglia, sabbia, a volte mattoni sbriciolati, che immerso in acqua non si imbeveva, come se fosse un pezzo di legno. Uno dei nostri militari legnanesi, Giuseppe Biscardini, nel suo diario recentemente ripubblicato, racconta addirittura di un compagno che sminuzzando finemente il pane vi aveva trovato macinata dentro una lametta da barba. Anche Biscardini è stato a Wietzendorf, dove è stato mio padre: 1300 calorie al giorno quando il minimo per la sopravvivenza sarebbe 2000. Giovanni Guareschi sul suo diario annotava spesso una F maiuscola che significava “fame”. A Wietzendorf le F annotate erano ogni giorno tante, è arrivato a scriverne 26 una in fila all’altra. Fame. Biscardini, Guareschi, mio padre sono tornati ma molti non ce l’hanno fatta.
Ancora peggio stavano i nostri concittadini finiti nei lager come deportati politici. Ricordiamo ogni anno i deportati della Franco Tosi degli scioperi di gennaio 1944 (arrestati il giorno 5) e di marzo 1944. Da Legnano sono stati portati nel carcere di San Vittore a Milano.
Lì la colazione consisteva in un mestolo di acqua calda scura amara e puzzolente che chiamavano caffè e che la maggior parte usava per lavarsi i piedi perché era calda. Per lavarsi avevano un catino con acqua fredda che in inverno in cella congelava completamente, quindi il caffè era il benvenuto, per lavarsi. Poi avevano un mestolo di acqua senza sale in cui nuotava qualche pezzetto di verdura e un cucchiaio di risotto raggrumato. E due panini piccolissimi senza sale e spesso non del tutto cotti, su richiesta del comandante tedesco, il caporale Franz Staltmayr che risparmiava su legna per cuocere, su riso e verdure vendendoli per proprio profitto alla borsa nera.
Questa alimentazione l’hanno subita tutti i partigiani legnanesi passati da San Vittore: Carlo Venegoni, Samuele Turconi, Giuseppe Rossato, Filippo Zaffaroni, Francesca Mainini, don Francesco Cavallini, don Mauro Bonzi.
Don Mauro Bonzi venne inviato poi nel lager di Dachau. Ricorda Giovanni Iacuzzo, un sopravvissuto salernitano:
“Mangiavamo pane nero condito da pulci ed erbacce e quando uscii dal lager non avevo neanche uno straccio per coprirmi, solo gli zoccoli. Ero ridotto a uno scheletro, io sono scultore e di quello scheletro ho fatto una statua per non dimenticare” (http://lacittadisalerno.gelocal.it/salerno/cronaca/2015/04/26/news/a-dachau-un-autentica-barbarie-1.11315116)
Don Bonzi tornò, minato nella salute. E’ sepolto nel nostro cimitero, nella cappella del clero.
Gli operai e l’ing. Cima della Tosi vennero inviati al lager di Mauthausen. Lì il pane non c’era sempre, era pochissimo di segale e farina di patate e rinforzato con segatura. Venivano nutriti con un litro di zuppa fatta di acqua e qualche pezzetto di rapa, qualche buccia di fagiolo. La sopravvivenza di solito non superava i tre mesi dall’entrata in campo. Dei nostri della Franco Tosi ne tornò uno solo, che si suicidò poco dopo.
Ma una volta finito tutto, dopo la Liberazione del 25 aprile 1945, tornò subito il pane bianco a Legnano?
“La guerra era passata ed aveva spazzato via tutta l’organizzazione nazionale; non c’era più niente che funzionasse; la gente aveva fame e freddo e non c’erano i generi alimentari ed il combustibile” ricorda Giovanni Brandazzi, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Legnano.
Subito dopo il 25 aprile urgente è la farina (spesso anche prima del 25 aprile, causa bombardamenti e carenza di carburante, i fornai avevano farina solo per il giorno stesso di panificazione) ma mancano anche pasta formaggio ecc. E manca la legna per cuocere il pane.
Il CLN con l’amministrazione comunale e l’aiuto degli industriali percorre tutte le vie possibili per ovviare alle esigenze più immediate e indispensabili. A dicembre 1944 vengono istituite delle “Squadre di reperimento” presso mulini, agricoltori e panettieri, con il duplice scopo di reperire la farina e di stroncare il mercato illegale della borsa nera, ancora ben funzionante.
Il pane bianco sulle tavole dei legnanesi a dicembre 1944 non c’è ancora, ma qualcuno già lo produce. Si legge infatti nel verbale della riunione del C.L.N. in data 17.12.1944
“Caso di Cerro: la squadra di reperimento su segnalazione si recava a Cerro presso un prestinaio dove trovava 1 quintale e mezzo di pane bianco. Parte di questo quantitativo era di proprietà del Sindaco di Cerro …”
Nello stesso verbale si legge
“Caso Re Calegari: questo esercente offre al C.L.N. un maiale per le prossime feste Natalizie. Questo sarà devoluto a completo vantaggio dell’U.D.I. che ne darà nei pacchi natalizi alle famiglie bisognose”.
Quel Natale del 1945 a Legnano fu davvero speciale: dopo anni per la prima volta si poteva andare alla messa di mezzanotte, probabilmente si mangiò il pane bianco sequestrato al prestinaio di Cerro e le famiglie più bisognose ebbero addirittura un pezzo di maiale in dono. Sembra poco ma è il segno che si sta andando verso la fine dei patimenti, verso la normalità. Il pane bianco esiste ancora e dal pane nero di guerra e di miseria e di lacrime si sta andando verso il pane bianco della rinascita. E questo non è poco!
Renata Pasquetto