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Le donne nella Resistenza

Le donne nella Resistenza

Il fondamentale contributo delle donne alla Liberazione

Vorrei iniziare con tre citazioni.

. Nicola Pende (sicuramente la personalità più importante tra coloro che firmarono il Manifesto della Razza e firmarono le Leggi Razziali del ’38) : “La cultura della donna non può che essere adatta alle sue caratteristiche sessuali. In caso contrario c’è il pericolo che ne vengano atrofizzati i lati più necessari alle funzioni di sposa e madre e di collaboratrice tenera e comprensiva del lavoro dell’uomo, o che venga deformata in senso maschile, così dal lato fisico come dal lato psichico. Quindi alla donna devono essere rigidamente proibiti quegli studi per i quali sappiamo che il cervello femminile non è per natura sufficientemente preparato: come sono le carriere delle scienze, delle matematiche, della filosofia, della storia, dell’ingegneria e dell’architettura”

. Fenoglio, “I ventitrè giorni della città di Alba”

“Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare – Ah, povera Italia!”, perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e s’erano scaraventate in citta”

. Miriam Mafai, “Pane nero”, 1987 / il ritorno alla normalità (1945)

“Siate miti, siate dolci, siate sottomesse, riprendono a consigliare i giornali femminili. Coltivate, suggeriscono, le vostre qualità di prima della guerra, quelle che gli anni della fame, della paura e della responsabilità vi hanno fatto perdere. Persino il giornale di sinistra “Noi donne” raccomanda – “Dovrai essere molto arrendevole, non dovrai imporre la tua volontà, dovrai far vedere che hai fatto progressi nel tenere la casa”

Tre citazioni che illustrano bene il prima della Resistenza (per la cultura cattolico-fascista le donne sono intellettualmente limitate e il loro posto è solo la casa-famiglia); la Resistenza (le donne hanno combattutto e sono fiere di se stesse tanto da violare irridendo il divieto di sfilare con i partigiani maschi); il dopo la Resistenza (ossia il ritorno alla normalità, ossia alla tradizionale sottomissione della donna all’uomo).

Ci vorrà un’altra generazione prima che emerga prepotente l’orgoglio di essere donna.

Il passo di Fenoglio, al di là della volontà di sfilare con i partigiani maschi, introduce il tema di questa sera: ossia il ruolo delle donne nella Resistenza.

Il contributo dato dalla donne alla Resistenza è stato molto importante, ma finita la guerra è stato in gran parte sottovalutato: procurare cibo e vestiti ai partigiani, confezionarli e portarli loro percorrendo chilometri per raggiungere le postazioni; procurarsi medicine e consigli medici, quindi avere contatti con medici, farmacisti, infermieri; trovare rifugi sicuri nelle case, in campagna, nei conventi, negli istituti religiosi, quindi avere contatti con parroci, suore, monache; raccogliere denaro per aiutare donne sole rimaste con i figli, quindi avere contatti con industriali e commercianti: tutto ciò con il costante pericolo della repressione nazista e fascista.

Ma le donne furono anche dirigenti politiche nei CLN, comandanti nelle formazioni partigiane (una brigata di GL ebbe al comando la studentessa Matilde Dipietrantonio). Abbiamo avuto anche distaccamenti composti solo da donne. 512 partigiane hanno operato come commissari politici in formazioni maschili. Molto importante fu il ruolo svolto dalle operaie negli scioperi del ’43 e del ’44.

Queste sono solo alcune delle iniziative che le donne portarono avanti dopo l’8 settembre del ’43.

– La storiografia post ’45 ha invece sottovalutato il ruolo delle donne confrontandolo indirettamente con la figura del partigiano maschio combattente e ignorando che vi furono non poche donne che combatterono al fianco dei partigiani, meritarono ben 17 medaglie d’oro al valore (di cui 13 alla memoria), furono arrestate, torturate, violentate e conobbero la durezza dei lager nazisti.

Alla fine della guerra il voto alle donne (1946) e l’eguaglianza dei due sessi introdotta nella Costituzione furono il traguardo di tanti sacrifici.

– Forse per le donne la definizione di protagoniste dimenticate non è esatta; in effetti più che dimenticate, le donne sono state relegate in secondo piano, indispensabili comprimarie tutt’al più, ma non dirette protagoniste.

I numeri

Il contributo numerico del resto appare impressionante: 35mila partigiane combattenti, 20mila patriote (donne che non presero le armi ma collaborarono con la Resistenza), decine di migliaia di aderenti ai GDD.

Tra le donne vi furono 623 morte in combattimento, 1500 deportate nei lager, 4500 arrestate e spesso torturate e violentate.

** Le operaie negli scioperi del ’43 e ’44: una palestra per la Resistenza

Prima ancora che nasca la Resistenza le donne sono protagoniste degli scioperi del 1943.

Il fascismo aveva esaltato il ruolo solo domestico della donna, “angelo del focolare” ed educatrice dei figli ai valori patriottici. Molte voci si erano alzate per biasimare il lavoro femminile negli uffici e in fabbrica.

Ma ora non si bada al sottile: le donne sono importanti nelle fabbriche e nei servizi pubblici quando ci si accorge che la guerra sarebbe continuata a lungo.

Ma la guerra si abbatte pesantemente sulle donne:

–         partenza del fratello/i o del marito (miseria)

–         bombardamenti (60mila civili morti sotto le macerie). La notte quasi sempre nei rifugi

–         sfollamenti

–         mercato nero

–         sfruttamento in fabbrica (sono pagate a parità di mansioni la metà degli uomini, subiscono anche lavoro notturno e turni di 12 ore) e difficoltà nel tirare avanti con i figli

–         non dimentichiamo le donne ebree, cittadine italiane, perseguitate dalle Leggi Razziali del ’38 e poi deportate ad Auschwitz

L’esasperazione nel marzo del ’43 è arrivata al punto di esplodere:

“Si preparava lo sciopero contro la guerra, per i prezzi, per i cottimi individuali, contro le dodici ore, perché eravamo stufe e basta”, dice Anna Fenoglio, partigiana.

Anche negli scioperi del ’44 la presenza femminile è forte. Spesso sono le donne a indurre gli uomini a scioperare.

** Dopo l’8 settembre ‘43

Importante forma di assistenza che le donne non negarono ai tanti soldati sbandati dopo l’8 settembre (abiti civili oppure li tennero nascosti).

Nel novembre ’43 c’è un’importante novità: nascono a Milano i “Gruppi di Difesa della Donna per l’assistenza ai combattenti della libertà”. Nacquero per iniziativa di tre donne del Pci: Rina Picolato, Giovanna Barcellona e Lina Fibbi. Con loro anche Ada Gobetti per il Pd’A (GL) e Lina Merlin per il Psi. Nasce il giornale “Noi donne”.

Il lavoro dei GDD consisteva soprattutto all’inizio nell’assistenza in varie forme ai partigiani, sussidi in denaro o assistenza economica alle famiglie dei deportati o dei combattenti.

Ma con l’affermarsi della Resistenza le donne ricoprono più ruoli: staffette, infermiere, vivandiere, cucitrici, ricerca del denaro, stampa dei giornali, amministrazione del denaro, nascondere i loro uomini per evitare il lavoro coatto oppure l’arruolamento nelle milizie di Salò. Le donne non hanno una particolare specializzazione, così come in casa erano abituate ad occuparsi di tutto.

Ma ci sono donne che rifiutano questi compiti giudicati troppo femminili perché vogliono combattere.

Con l’andare del tempo nascono altre forme di lotta promosse all’interno dei GDD: il comizio improvvisato che dura pochi minuti in una piazza o in fabbrica.

Non ci sono rivendicazioni di tipo femminista (superiorità della donna sull’uomo): si desidera la partità dei sessi e una migliore giustizia sociale, migliori condizioni di lavoro e che finisca la guerra.

La Resistenza senza armi / La Resistenza civile

** Staffette

Vediamo più da vicino i singoli compiti svolti dalle donne nella Resistenza.

Il compito più caratteristico svolto dalle donne nella Resistenza è stato quello delle staffette e fu l’unico ufficialmente riconosciuto fino a diventare leggenda: non è un ruolo tradizionale che le donne possono svolgere tra le mura di casa (cura dei feriti, confezione degli abiti…) ma non è  neppure la lotta armata.

In ogni caso le staffette fanno parte della Resistenza organizzata.

Il nome staffette deriva probabilmente dai numerosi passaggi di mano dei messaggi, delle armi o quant’altro per evitare, se catturate, di rivelare quello che sapevano. Il loro numero fu molto alto. A Firenze ne furono censite circa 400.

La loro attività sarebbe stata impensabile prima della guerra perché presupponeva una notevole possibilità di movimento sia per le ragazze e per le maritate. I continui movimenti a piedi o in bicicletta erano giustificati agli occhi di genitori e vicini di casa con la necessità di trovare qualcosa da mangiare in campagna.

Si usa tutto per nascondere la “roba”: giarrettiere, reggiseni, calze, pancere.

Spesso trasportano armi e i bandi della repubblica promettono la morte a chi ne venga trovato in possesso.

Il loro compito era anche spiare i movimenti di tedeschi e fascisti, tenere i collegamenti tra bande e i partigiani operanti in città. Portavano di tutto: dal cibo al vestiario, alle medicine alle armi, alle ricetrasmittenti, ma soprattutto portano i messaggi.

Senza le staffette non si sarebbe fatto niente: non si ricevono né si mandano ordini, non si agganciano altri gruppi di sbandati, si perdono i collegamenti tra le bande, non si ricevono armi, non si diffonde la stampa.

Alcune sono quasi bambine come Oriana Fallaci che a 13 anni faceva da staffetta perché il padre è partigiano: portava copie di giornali, accompagnava prigionieri anglo-americani verso le linee alleate. Non aveva paura, la paura è degli adulti.

La più giovane staffetta fucilata dai tedeschi fu Ada Marongiu, aveva 18 anni ed era staffetta del gruppo di GL in val Maira. Tra di loro ci sono anche madri di bambini piccoli consapevoli dei rischi che correvano

** Fattorine

Le Fattorine. Sono donne che organizzano e diffondono la stampa clandestina.

Il giornale più diffuso è “Noi donne” ma sono tanti i fogli che nascono un po’ dovunque. Raramente le donne scrivono. Il loro compito è raccogliere i testi scritti dai partigiani, li portano in tipografia, poi ritirano i giornali, fogli, volantini, e soprattutto li distribuiscono in mille modi: porta a porta la mattina presto, li lanciano dai predelli del tram, li lasciano nelle piazze e nelle stazioni, sulle panchine dei parchi, nei mercati (magari con comizi volanti), nelle fabbriche (spogliatoi, sala mensa).

Nelle memorie le donne tendono a minimizzare i pericoli e a valorizzare le componenti di astuzia legati alla loro azione. Minimi sono anche i riferimenti ideologici della loro azione. Prevale l’azione e la soddisfazione del fare bene il loro compito

** Infermiere

Un’altra attività molto importante all’interno della Resistenza è quella della Infermiere: le donne assistono i partigiani feriti e i malati o negli ospedali pubblici o in centri di pronto soccorso creati da loro.

Renata Viganò segue il marito e il figlio nella Resistenza e dirige il servizio sanitario della Brigata che operava nelle Valli di Comacchio.

** Come Antigone

Sicuramente tutti conoscete Antigone, sorella di Polinice, che vorrebbe seppellire il fratello (tragedia di Sofocle) nonostante l’opposizione di Creonte.

Infatti un altro compito specifico riservato alle donne è la cura dei morti, ossia la preparazione della sepoltura e il funerale dei partigiani. I funerali sono sempre preparati dalle donne spesso sfidando la volontà delle autorità fasciste che vietano le esequie pubbliche.

** Mercato nero

Ricorrere al mercato nero era diventa un’attività fondamentale delle donne a difesa della propria famiglia. Ma ora è necessario ricorrere al mercato nero per nascondere un rifugiato in casa propria o sfamare i combattenti in montagna.

** Ricerca del denaro

Un’altra attività importante era l’amministrazione e la ricerca del denaro necessario per la Resistenza: era necessario convincere borghesi e industriali con la promessa che le operaie avrebbero difeso la fabbrica alla fine della guerra.

La Resistenza armata

Le Partigiane combattenti

Vediamo ora la figura delle Partigiane combattenti. Furono 35 mila, forse poche rispetto ai 235mila partigiani combattenti, perché la differenza tra i due sessi era fondamentale: gli uomini hanno conosciuto l’addestramento e la vita militare e quindi per loro fu quasi normale continuare a combattere nelle formazioni partigiane.

Poi è necessario dire che se per molti maschi la lotta partigiana fu inevitabile (evitare i bandi o l’arresto in fabbrica), per le donne fu possibile scegliere o meno di combattere.

Poi bisogna riconoscere che era difficile per una donna e per i familiari accettare di far parte di una banda maschile, sia per le nubili e le sposate.

Alcune diventano combattenti per seguire il marito, il fratello, il fidanzato. In altri casi raggiungere la banda partigiana voleva dire evitare il probabile arresto.

Da notare che per molte donne e uomini è la prima volta in cui vivono accanto a persone dell’altro sesso.

Una ragazza raggiunge la II Brigata Beltrami. Dopo qualche giorno dice: “Non sono venuta qui per cercare un innamorato: io sono qui per combattere e rimango solo se mi date un’arma e mi mettete di guardia e alle azioni. In più farò l’infermiera. Se siete d’accordo resto, se non me ne vado”.

Un’altra disse: “Curavo i miei compagni, ma non li servivo. Se uno voleva un panino se lo faceva. Io non ero andata lì per lavare i piatti”.

Una volta accolte è imperante la parità: le donne hanno gli stessi compiti degli uomini: le guardie, la pulizia delle armi, i combattimenti. Non c’è femminismo ante litteram, è solo desiderio di giustizia e volontà di far finire la guerra al più presto.

Il reclutamento: staffette o combattenti avviene all’interno dei GDD.

Lea Baravalle: “Io voglio andare a fare la partigiana. Ma perché vuoi andare? Ma proprio perché ho perso i miei fratelli (due fratelli arrestati), proprio perché è tutta la vita che soffriamo e tutto questo si sente dire che è ingiustizia del fascismo… io voglio dare il mio contributo”.

Nonostante tutto le resistenze maschili sono notevoli. In Val d’Ossola, durante i 40 giorni della repubblica, votano solo i capifamiglia, le donne no. Solo Gisella Floreanini diventa Commissario.

** Donne torturate

Quante donne vennero torturate e violentate? Sicuramente tante anche se molte finita la guerra preferirono non parlarne. Si può a ragione parlare di Resistenza sofferta e taciuta.

– Una storia agghiacciante in “Mai morti”, testo teatrale di Renato Sarti con Bebo Storti

Cuorgnè / Caserma Pinelli, meglio nota come “Albergo Bertozzi”. Bertozzi era un fascista violento e sadico

Dal testo di Sarti: “Fra i 500-600 casi, il più significativo è quello della nipote di un comandante partigiano accoltellato e ucciso in un’imboscata.

“Ha solo 18 anni la staffetta partigiana? È giovane. Molto giovane. E allora? La ragazza sa nomi, cognomi, indirizzi, nascondigli? Certo che li sa, quindi… diciotto o non diciotto… o parla o… si proceda lo stesso. Violentata sul serio, a turno, uno alla volta. Come alla posta, fuori c’è la fila.

La lingua si scioglierà dopo una giornata come questa. No? Be’, dopo due… nemmeno? Dopo tre, quattro, cinque giorni, una settimana ancora niente? E allora avanti per due settimane, avanti per tre settimane, quattro, avanti per un mese continuo! Niente? Allora via, Torino, che anche lì non si scherza.

Commissione Medica per le pensioni di guerra… estratto del verbale di visita subita dall’ex militare partigiano nome, cognome eccetera… figlia di … presso Commissione Medica gennaio 1964. Ecco qua.

Infermità riscontrata: psiconevrosi ansiosa con note depressive in soggetto che ha subito violenza carnale e isterotomizzato. Isterotomizzato? I medici! Troppo tecnico come termine. Era meglio…. utero di staffetta partigiana infetto asportato del tutto”.

Le ragazze dei GAP / Gruppi azione patriottica

Altro capitolo importante: la presenza femminile nei GAP.

I Gruppi azione patriottica erano nati subito dopo l’8 settembre del ’43 e dipendevano dalle Brigate Garibaldi.

Si trattava di piccoli nuclei di uomini e donne (max 5 persone) che colpivano in città fascisti e nazisti sparando contro obiettivi specifici oppure contro i soldati tedeschi.

Tra le donne dei GAP ricorderei Carla Capponi (“Con cuore di donna”) e Maria Teresa Regard nei GAP di Roma. Irma Bandiera nel GAP di Bologna, Onorina Brambilla e Tosca Bucarelli la quale, catturata dopo aver fatto esplodere una bomba a Firenze, non rivelava quello che sapeva e moriva sotto tortura.

** Onorina Brambilla / Medaglia d’oro della Resistenza

Dall’8 settembre del 1943 nei Gruppi di difesa delle donne prima e poi nei GAP con il nome di battaglia “Sandra”. Agli ordini di Giovanni Pesce, comandante “Visone”, compì imprese leggendarie, nel cuore di Milano, contro obiettivi strategici tedeschi e repubblichini. Arrestata a Milano il 12 settembre 1944, in seguito a delazione, venne torturata nel carcere di Monza dalle SS. Successivamente venne internata nel lager “di transito e di polizia” di Bolzano. Liberata il 30 aprile 1945. Giunta a Milano, riabbraccerà la famiglia e il suo comandante “Visone”, di cui diverrà la compagna di una vita.

La deportazione femminile nei lager nazisti

Veniamo ora alle donne deportate nei lager. Furono poco meno di 24mila i Triangoli Rossi deportati nei lager nazisti. Tra di loro 1500 erano donne.

Si trattava di partigiani, sindacalisti, operai in sciopero, antifascisti, collaboratori veri o presunti della Resistenza. La mortalità fu del 40 per cento: ossia 10mila persone.

Le donne deportate finirono in prevalenza a Ravensbruck e vennero utilizzate nelle fabbriche belliche e in mansioni pesanti e pericolose, come se fossero uomini. La mortalità femminile fu di 85 su 1240 deportate / il 7%.

– Un numero maggiore di donne ebree furono deportate ad Auschwitz (totale 8mila ebrei)

La Liberazione

È il 26 aprile del ’45 a Torino. La città non è ancora liberata. Ada Gobetti: “Pinella preparò un po’ di cena, accese il fuoco nel caminetto: regnava una gran pace intorno, rotta soltanto, di quando in quando, da qualche sparo lontano. E il tepore del fuoco e la sicurezza che ci dava l’essere insieme e  di sentire di volerci bene, di essere tutte una per l’altra, la sensazione che non eravamo sole, ma lo stesso sentimento che ci univa era quello che animava nelle nostre città, nel nostro paese, e anche al di là delle frontiere, tutti gli uomini e le donne di buona volontà, ci diede un senso di distensione, quasi di gioia, a cui più o meno inconsciamente ci abbandonammo”.

Poi la doccia fredda dell’atteggiamento delle gente durante le sfilate in cui i partigiani cercarono in tutti i modi di impedire alle donne partigiane di parteciparvi.

Le partigiane che non sfilano sono il preludio al silenzio che da quel momento coprirà tante storie di donne.

Nasce così la leggenda di una concezione ancillare della Resistenza delle donne, considerata al max un aiuto o assistenza secondaria rispetto alla vera resistenza.

Tacquero anche le donne che subirono violenza.

Medaglie d’oro

** Livia Bianchi / Nome di battaglia “Franca“, nata nel 1919 e fucilata a  Porlezza nel gennaio 1945. Aveva 26 anni. Si sposò a soli sedici anni con un giovane di (Mantova) che, chiamato alle armi, cadde prigioniero degli Alleati. Rimasta sola con un figlio piccolo, senza marito e senza lavoro, sul finire del 1942 Livia raggiunse Torino, ove entrò in contatto con ambienti antifascisti.

In coincidenza con l’armistizio dell’8 settembre 1943 si unì alla 52ª Brigata Garibaldi , fu operativa come staffetta porta-ordini e combattente nella regione del Lago di Lugano.

Il 21 gennaio 1945, a seguito di un violento combattimento contro le forze nazifasciste fu costretta con altri compagni a cercare rifugio in una casa a Cima di Porlezza. Circondato e indotto alla resa dallo scarseggiare di munizione e dalla falsa promessa di aver salva la vita, il gruppo di partigiani asserragliato nell’abitazione fu invece speditamente condotto al locale cimitero e schierato di fronte al muro di cinta per essere sommariamente passato per le armi.
A Livia Bianchi fu offerta la grazia e la libertà in quanto donna, ma ella rifiutò per la sua dignità di donna e di partigiana, restando unita ai compagni nel supremo sacrificio.

** Irma Bandiera.

Nasce a Bologna nel 1915 e a Bologna è uccisa nell’agosto del 1944. Aveva 29 anni.

Di famiglia benestante, divenne staffetta partigiana nei GAP di Bologna col nome di battaglia di Mimma. Catturata dai fascisti venne torturata e infine fucilata a Bologna. Il suo corpo fu esposto dai fascisti sulla strada adiacente alla sua abitazione per un intero giorno.

** Gabriella Degli Esposti / Nome di battaglia Balella.

Nasce nel 1912 in un piccolo centro in provincia di Bologna ed è fucilata nel dicembre 1944. Aveva 32 anni

Originaria di una famiglia contadina socialista, dopo l’8 settembre 1943 Gabriella, assieme al marito trasformò la propria casa in una base della Resistenza. Nonostante fosse madre di due bambine piccole e fosse in attesa di un terzo figlio, partecipò ad azioni di sabotaggio e si impegnò anche nell’organizzazione dei primi Gruppi di Difesa della Donna.

Il 13 dicembre 1944, a seguito di un rastrellamento dei tedeschi, Gabriella Degli Esposti fu catturata da un gruppo di SS; benché incinta, viene prima picchiata e poi minacciata di morte affinché rivelasse dove si trovava il marito. Il 17 dicembre, Gabriella Degli Esposti e nove suoi compagni di prigionia sono trasportati sul greto del Panaro e giustiziati.

Prima di essere fucilata, Gabriella fu barbaramente seviziata: il suo cadavere viene ritrovato senza occhi, con il ventre squarciato e i seni tagliati. La barbara uccisione di Gabriella induce molte donne della zona ad unirsi ai partigiani: è così che si costituisce il distaccamento femminile Gabriella Degli Esposti, forse l’unica formazione partigiana formata esclusivamente da donne.

** Vera Vassalle / Nasce a Viareggio nel 1920 e è morta nel 1985

Subito dopo l’armistizio entra nelle file partigiane e le viene affidato il compito di raggiungere gli alleati nell’Italia già liberata per richiedere lanci di armi per i partigiani della Versilia. Per questo viene mandata dagli Alleati a Taranto, dove gli esperti dell’OSS (il servizio segreto statunitense) la addestrano per un breve periodo. Tornata nella zona occupata dai tedeschi Vera Vassalle invierà oltre trecento messaggi, dai quali deriveranno anche sessantacinque aviolanci di armi e di rifornimenti a brigate partigiane toscane e liguri.

Nel luglio 1944, dopo che i tedeschi individuano la ricetrasmittente con cui tenevano i contatti con gli alleati, fugge dopo aver distrutto codici, documenti e l’apparecchio radio. Si sposta in Lunigiana, aggregandosi a una formazione partigiana di Giustizia e Libertà e da Lucca, con una nuova ricetrasmittente, continua l’attività di missione, fino alla liberazione della zona, avvenuta il 5 settembre 1944.

Un ruolo negato

«Dopo la Liberazione la maggior parte degli uomini considerò naturale rinchiudere nuovamente in casa le donne. Il 6 maggio 1945 Tersilla Fenoglio non poté neppure partecipare alla grande sfilata delle forze della Resistenza a Torino.

“’Ma tu sei una donna!”, si sente rispondere da un compagno di lotta nell’estate del 1945 la partigiana Maria Rovano, quando chiede spiegazione dei gradi riconosciuti soltanto ad altri. Ed a Barge, il vicario riceve il brevetto partigiano prima di lei.

E Nelia Benissone? Dopo aver organizzato assalti ai docks, addestrato gappisti e sappisti, lanciato bombe molotov contro convogli in partenza per la Germania, disarmato militari fascisti per la strada, anche da sola, e dopo essere stata nel 1945 responsabile militare del suo settore, sarà riconosciuta dalla Commissione regionale come “soldato semplice”».

Anna Maria Bruzzone racconta in un suo testo:

“La specifica oppressione che le donne deportate patiscono si manifestò infatti al loro rientro in patria, e in seguito, in forma particolarmente crudele: spesso esse si videro opporre un muro di disinteresse, di incomprensione, di diffidenza e talora persino di ostilità. Se fossero state a casa, -pensavano e dicevano o lasciavano intendere molti, -non sarebbero state deportate! I guai sono andate a cercarseli! »

O, al contrario, sminuendo o cancellando la loro partecipazione alla Resistenza: «Non erano partigiane! Partigiani erano gli uomini che avevano accanto!» E anche, ambiguamente: «Chi sa che cosa avranno passato lassù!»”.

Per concludere. Ada Gobetti, moglie di Piero: “Nella Resistenza la donna fu presente ovunque: sul campo di battaglia come sul luogo di lavoro, nel chiuso della prigione come nella piazza o nell’intimità della casa. Non vi fu attività, lotta, organizzazione, collaborazione, a cui ella non partecipasse: come una spola in continuo movimento costruiva e teneva insieme, muovendo instancabile, il tessuto sotterraneo della guerra partigiana”