Appunti per lezione a UNITER di Agrate Brianza
marzo ’19
Fontamara
E’ uno di migliori romanzi italiani scritti durante il fascismo. Fu pubblicato a Zurigo nel 1933 ed ebbe da subito un successo clamoroso con molte traduzioni all’estero. In Italia fu possibile leggerlo solo dopo la II guerra mondiale.
Fu molto apprezzato perché era un romanzo antifascista e soprattutto perché dava voce agli umili: i cafoni di Fontamara protagonisti del romanzo.
E’ un romanzo che parla di povertà secolare, di abusi, profonde ingiustizie ai danni dei contadini, anche della necessità di emigrare per “buscarsi il pane”. Nello stesso tempo il romanzo non è fatalista. La miseria dei cafoni non è eterna: Finirà quando i cafoni di tutti i continenti impareranno ad organizzarsi contro lo sfruttamento.
“Amara terra mia” di Modugno
Vita di Silone
Nacque a Pescina dei Marsi nell’anno 1900. Il vero nome è Secondino Tranquilli. Quando divenne comunista scelse per sé il nome di Silone per ricordare l’antico nome del capo della resistenza dei Marsi contro i Romani (Silo).
Figlio di un piccolo proprietario terriero ebbe un’infanzia e una prima adolescenza senza particolari problemi economici.
In seguito al terremoto del 1915 perse il padre, dovette lasciare la scuola e adattarsi a mestieri umili. Se in diversi romanzi compare il mondo dei contadini della sua terra è perché Silone lo conosceva bene avendo svolto molti mestieri umili. Da qui nacque la sua lunga militanza prima nel comunismo e poi nel socialismo che sarebbe durata fino alla morte nel 1978.
Anti interventista nel momento dell’ingresso dell’Italia in guerra, conobbe Gramsci e con lui si schierò a favore del neocostituito PCd’I a Livorno nel 1921. In questo momento è uno dei maggiori dirigenti del partito accanto a Bordiga, Gramsci, Togliatti, Terracini.
Con l’avvento del fascismo fu come molti costretto a riparare all’estero. Nel 1927 vive forse l’esperienza più bruciante della sua vita politica quando vide Togliatti schierarsi accanto a Stalin e decidere l’espulsione di Trotskij e Zinoviev dal partito russo. Addirittura Togliatti e Silone dovettero firmare il documento di condanna di Zinoviev e Trotskij senza averlo letto.
Quattro anni dopo fu espulso dal partito per aver contestato l’indirizzo che Stalin aveva dato alla Russia sovietica (“socialismo in un solo paese”) e che Togliatti aveva avallato.
Nel ’31 Silone è espulso dal Pci per aver assunto posizioni critiche contro l’involuzione dell’Internazionale (ora stalinista) e del Pci togliattiano. Un anno prima dell’espulsione Silone è a Davos in Svizzera per curare la tubercolosi è lì scrive il suo primo romanzo, “Fontamara”.
Negli anni Trenta visse momenti molto difficili in Francia e Svizzera. Riprese l’attività politica con la II guerra mondiale questa volta nelle fila del socialismo. Nel ’44 è vicino a Nenni ed è direttore dell’”Avanti!”.
Nel ’48 non si presentò alle elezioni politiche decidendo di abbandonare la politica ma non per questo venne meno l’impegno di Silone nella cultura italiana dirigendo alcune riviste culturali e soprattutto scrivendo libri di grande impegno.
Ricordo: “Vino e pane” (1955), “Il segreto di Luca” (1960), “L’avventura di un povero cristiano” (1968).
Quando uscì dalla politica disse di essere rimasto “un socialista senza partito e un cristiano senza chiesa”.
Intervista a Silone, yt
Fontamara
Fontamara è il nome immaginario di un piccolo villaggio abbarbicato sulle montagne che sovrastano la piana del Fùcino. Siamo in Abruzzo, nella Marsica in particolare, vicini alla città di Avezzano. Silone era abruzzese ed era nato proprio da quelle parti.
Fontamara è il simbolo della miseria atavica di gran parte del mondo contadino di quell’epoca. Una miseria già rappresentata nelle opere di Verga, denunciata dal socialista Gaetano Salvemini e da tanti meridionalisti a cavallo tra Ottocento e Novecento (Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino, Giustino Fortunato).
Poche case già lesionate dai recenti terremoti, case costruite con materiali poveri o addirittura all’interno di grotte naturali, con la promiscuità di uomini e animali nello stesso misero spazio.
Lettura, p. 4-5
La terra è arida, bisogna letteralmente strappare alla montagna poca terra arabile e sperare nel raccolto nonostante la siccità o al contrario spesso compaiono furiosi temporali che sembravano voler trascinare terra, case e abitanti verso il fondovalle.
Eppure quella zona non è solo abitata da disperati abbruttiti dalle sofferenze. Il Fucino (un tempo lago, ora prosciugato) è la “terra promessa” che ogni giorno è sotto i loro occhi. Terra grassa, fertile, ben irrigata… solo che a loro non spetta nulla. L’unico “godimento” è andare a lavorare come braccianti ogni giorno percorrendo a piedi alcune decine di chilometri.
Vediamo come si presenta il villaggio in “Fontamara” di Lizzani
Immagini iniziali
Trama del romanzo
Siamo intorno al 1929-1930 quando l’Italia è dominata dal fascismo. A raccontare tutta la storia sono tre personaggi che parlano in prima persona: un padre, una madre e il figlio in età di lavoro.
Da qui la preferenza di Silone per un italiano molto semplice con l‘avvertenza che i cafoni di Fontamara l’italiano non lo parlano affatto. Parlano solo il loro dialetto. Quindi l’italiano è per loro una lingua innaturale, che viene da fuori, da quando sono arrivati i piemontesi i quali hanno portato oltre l’italiano, le tasse, il servizio militare e le sigarette (che i fontamaresi non fumano).
Tutto inizia quando al villaggio di Fontamara viene tagliata la luce pubblica nelle vie e nelle case perché da anni nessuno pagava le bollette. E del resto con che cosa avrebbero dovuto pagare la luce che consumavano?
Il giorno dopo arriva trafelato nel villaggio il cav. Pelino, rappresentante del comune di Avezzano, il quale chiede insistentemente la firma degli uomini. La firma per che?
E’ una petizione al governo per i diritti dei cafoni. La petizione non c’è ancora. Prima le firme e poi il testo.
Visto che “non si pagava” per mettere la firma (i contadini sono ossessionati dalle tasse) firmano in bianco. E’ uno dei soliti raggiri ai danni dei cafoni analfabeti.
Non lo sapevano, né potevano sospettarlo, ma con quella firma consegnano tutta la loro poca acqua (fontamara appunto) all’Impresario, uno spietato uomo d’affari venuto da Roma che in pochi anni ha già messo le mani su molte proprietà della zona.
Infatti qualche giorno dopo ci sono alcuni operai del Comune che stanno deviando l’acqua dal villaggio ai campi più a valle dell’Impresario. Sono le donne ad accorgersi e visto che i loro uomini erano già al lavoro decidono loro di farsi valere ma sarà una cocente umiliazione.
Ad Avezzano vengono viste come le “pidocchiose” perché sporche, malvestite, e ora sudate e bianche di polvere. Vengono derise da tutti perché chiedono di parlare con il sindaco e non sanno che ora il sindaco si chiama podestà.
In Comune non c’è nessuno (è mezzogiorno), decidono di andare in campagna dove troveranno i maggiorenti del paese: don Carlo Magna, don Circostanza e il nuovo podesta, l’Impresario!
Dovunque sono accolte male, anche dai carabinieri: p. 43-44
Trovano finalmente qualcuno con cui parlare a casa di don Carlo Magna (principale proprietario terriero, almeno fino ad ieri). Ci sono tutti: il farmacista, il collettore delle imposte, l’ufficiale postale, il notaio, il loro prete, don Abbacchio.
C’è anche don Circostanza, l’avvocato, chiamato l’”Amico del popolo”, a cui da sempre i cafoni si sono rivolti per avere giustizia:
Lettura p. 59
Don Circostanza aveva trovato un ottimo modo per vincere sempre le elezioni nel passato: a Fontamara e in altri villaggi anche i morti votavano! Quando una persona moriva non veniva cancellato dalle liste elettorali. Alle famiglie l’avvocato dava 5 lire per ogni morto e ogni morto votava per lui! Quando la gente cominciò a stufarsi dei suoi metodi, amaramente don Circostanza diceva che solo i morti erano rimasti affezionati a lui. Non i vivi, ma i morti!
Quando i cafoni erano un po’ perplessi dei suoi metodi don Circostanza diceva che questo era la democrazia! “E la democrazia di don Circostanza riusciva in ogni elezione vittoriosa”.
Le parole dell’avvocato non calmano le donne, soprattutto è l’atteggiamento glaciale dell’Impresario a provocare in loro una reazione violenta (“era solito ripetere – io non ho tempo -”): ad un certo punto cominciano a tirare sassi ai vetri.
L’intervento di don Circostanza è provvidenziale. Dopo aver ripetuto più volte che i cafoni meritano rispetto propone un contratto vantaggioso per le due parti:
Lettura, p. 67-68.
Nei giorni successivi mentre tutti si chiedevano che cosa voleva dire ¾ e ¾ al paese arriva don Abbacchio il quale non diceva mai messa a Fontamara perché le elemosine dei fontamaresi non giustificavano la sua presenza. È interessante il dialogo che segue: Lettura pp. 72-73
Don Abbacchio (è un soprannome nel senso che le sue parole “abbacchiavano”-abbattevano/demoralizzavano tutti) rappresenta quel clero che da sempre si è schierato dalla parte di chi comandava così come avvocati, notai, giornalisti, forza pubblica ecc.
Finalmente arriva il giorno del ¾ e ¾ e i fontamaresi si rendono conto dell’ulteriore raggiro. Nel momento in cui l’acqua viene deviata altrochè metà e metà: tutta l’acqua va verso i campi a valle e a loro non rimane nulla. Un nutrito cordone di carabinieri mantiene l’ordine.
Di fronte alle proteste dei fontamaresi don Circostanza inventa una delle sue: dice che l’acqua sarà restituita agli abitanti, è giusto e legittimo! 50 anni sono tanti, così 40 e 35. Alla fine propone 10 lustri! Nessuno degli abitanti sapeva quanto sono 10 lustri.
II video. II puntata Fontamara, da 40min circa
Silone insiste molto nel romanzo sul tema dell’ignoranza dei contadini: se per secoli sono stati sfruttati senza remore, uno dei motivi stava nell’incapacità di capire bene le cose.
Per loro ora c’è solo la fame perché dai campicelli ricavavano granturco e fagioli, ossia il pane e la minestra invernale, mentre da altri lavori nella piana del Fucino ricavano un po’ di denaro che se ne andava tutto per pagare i debiti, l’immancabile avvocato, le tasse, le medicine e altro.
Berardo Viola
A questo punto entra in scena il protagonista del romanzo, Berardo Viola. È un cafone di straordianria forza fisica ma anche intelligenza nonostante fosse analfabeta. E’ generoso, simpatico agli altri, è contro le ingiustizie.
Ha quasi 30 anni ma non si è mai sposato perché è senza terra. Quel poco di terra che aveva gli è stata rubata da don Circostanza che l’aveva convinto ad emigrare (e intanto gli vendette la sua terra) per scoprire che le leggi erano cambiate e non si emigrava più.
E’ innamorato di Ernesta, una bella ragazza del villaggio, ma non vuole sposarla perché non ha nulla. Da qui i suoi furori che talvolta si esprimono con qualche scazzottata.
La miseria è tanta ma anche la speranza che il nuovo governo (di cui nessuno sa nulla, nemmeno di Mussolini) faccia qualcosa per loro. La speranza si ravviva un giorno quando tutti i cafoni dei villaggi intorno al Fucino vennero portati ad Avezzano per la “distribuzione delle terre”, così almeno credevano.
Anche questa fu una cocente delusione perché non solo scoprirono che ai cafoni non erano state date terre ma anche che i piccoli proprietari erano stati espropriati per dare le terre ai grandi proprietari, “che hanno i capitali”, tra cui l’immancabile Impresario.
Raccontare l’episodio dello stendardo di San Rocco
A questo punto entra in azione Berardo Viola in quale in un paio di occasioni brucia gli steccati dell’Impresario il quale si era impadronito anche dei tratturi che da millenni i pastori seguivano per la transumanza delle pecore.
L’assalto al paese
L’Impresario non sta a guardare e un giorno manda molti camion carichi di fascisti. L’assalto al paese avviene con circa 200 militi armati mentre in quel momento ci sono solo le donne e i bambini. La violenza non risparmia le case che sono devastate e alcune donne sono violentate davanti a tutti.
Ma chi sono questi fascisti? P. 128
Berardo lascia il paese
Intanto Berardo matura la decisione di emigrare dal paese, cercare lavoro in fretta e furia e poi tornare e sposare Elvira. È molto cambiato rispetto a pochi mesi fa: non è più l’uomo capace di sacrificarsi per gli altri. Ora bada solo “al suo” e non gli interessa altro che lavorare e lavorare.
Guidato da don Circostanza, che non vede l’ora di farlo andare via, va a Roma con il figlio della coppia narrante (così possiamo seguire quello che fa Berardo).
A Roma di ufficio in ufficio (“da Erode a Pilato”) passano giorni e giorni di grande amarezza. Nessuno dà retta a loro e passano le giornate a fare lunghe ed inutili code agli sportelli. Si mettono nelle mani di un avvocato abruzzese messo male il quale chiede loro polli, miele, vino… insomma da mangiare.
Dopo aver dato a lui gli ultimi soldi passano altri giorni in cui la fame ha il sopravvento sui due. Ma finalmente arriva l’atteso certificato che dovrebbe permettere a Berardo di lavorare: è invece una lettera del prefetto in cui scrive che Berardo è un elemento antinazionale non può lavorare.
Come se non bastasse Berardo viene a sapere che Ernesta, la donna che vorrebbe sposare, è morta dopo un pellegrinaggio!
Il “Solito sconosciuto”
Nel momento più avvilente della vita di Berardo compare uno strano personaggio: sembra uno studente vestito da operaio. Sembra onesto e dice quello che Berardo pensava prima di decidere di emigrare. Parla di diritti negati, della dignità offesa dei cafoni…
Intanto vengono a sapere che la polizia italiana sta da mesi conducendo serrate indagini per arrestare un attivissimo propagandista antifascista che sembra essere dappertutto.
Mentre Berardo sta mangiando qualcosa in un locale con lo sconosciuto entra la polizia e arresta i tre perché nella locanda è stato trovato materiale di propaganda. Finiscono in carcere sospettati di essere il “Solito Sconosciuto”.
Dopo una notte di continue discussioni Berardo è tornato quello di un tempo: un uomo capace di sacrificarsi per gli altri, anche con il sacrificio della vita.
Berardo diventa un martire e un esempio da seguire
Al commissario di polizia che lo sta interrogando dice che il “Solito Sconosciuto” è lui! Non è vero e se il commissario lo volesse potrebbe appurarlo invece le autorità hanno bisogno di qualcuno da dare in pasto all’opinione pubblica.
Prima Berardo viene torturato per rivelare tutto quello che sa (!). Poi lo “suicidano” all’interno del carcere. È fatta! Ormai Berardo è diventato un martire. Il “Solito Sconosciuto” è un cafone! I cafoni dunque sono capaci di ragionare, organizzarsi, agire nell’ombra e tenere in scacco tutta la polizia italiana!
È ormai finito per sempre lo sconforto dei fontamaresi per la loro condizione animalesca: p. 29
Dopo la morte di Berardo lo “sconosciuto” (era lui che cercavano) porta tutto il materiale per stampare un giornale, il primo scritto, pubblicato e diffuso dai cafoni!
“Che fare?”
Come chiamarlo? Dopo alcuni titoli è Scarpone (che ha raccolto l’eredità di Berardo) a trovare il titolo migliore. “Che fare?” come il famoso saggio di Lenin del 1902.
È un programma di battaglia, è il titolo migliore per un giornale rivoluzionario. pp. 222-223
Il romanzo finisce tra tragedia e speranza. Le autorità fasciste allarmate per la diffusione del giornale fanno un’operazione di pulizia a Fontamara: salgono per uccidere e infatti molti uomini sono uccisi, tra i quali Scarpone.
Tra i pochi sopravvivono le tre voci narranti ma ora guidati dal “Solito Sconosciuto”: sono all’estero per continuare la battaglia: p. 226
Alcuni elementi di riflessione
Fontamara è uno dei migliori romanzi antifascisti anche perché Silone i fascisti li conosce bene e li può ritrarre dal vero. Nel Sud il fascismo non rappresentò nessuna rivoluzione e nessun cambiamento.
Una vecchia classe dirigente corrotta e inefficiente venne sostituita da un’altra classe dirigente ancora più corrotta e avida come dimostra il personaggio dell’Impresario che si prende tutte le terre di don Carlo Magna e dei fontamaresi. “E’ necessario che tutto cambi affinchè tutto rimanga come prima”.
Prefetti, commissari di polizia, camicie nere rappresentano il nuovo stato che di fronte ai contadini si pone in modo ancora più violento del precedente stato liberale. Clero, avvocati e giornalisti sono anch’essi parte di coloro che comandano.
Tutti prosperano grazie al lavoro da schiavi svolto dai contadini.
Da questo punto di vista, l’analisi che fa Silone del fascismo nel Sud è corretta.
Nel romanzo non c’è solo la denuncia di un stato di cose inaccettabile. Silone ne fa un romanzo socialista (tipologia di romanzo che ebbe pochi imitatori in Italia) dove la speranza di un mondo migliore non è posta manzonianamente dopo la morte nel regno di Dio ma sulla terra. E questa speranza è sorretta dalla lotta e dal porsi via via una serie di problemi politici: appunto il “che fare?”.
I cafoni alla fine sono sconfitti non solo perché il fascismo è una dittatura che ricorre sistematicamente alla violenza: i cafoni sono sconfitti perché nel Sud non esiste un proletariato di fabbrica con il quale stringere legami sulla base della comune condizione di sfruttamento. Dalla città non può arrivare alcuna vera solidarietà: tutti mangiano grazie al lavoro dei cafoni e quindi è opportuno che i cafoni rimangano nella loro condizione: don Circostanza questo l’aveva capito perfettamente!
Altro tema che colpisce è l’assoluta distanza tra i cafoni e il mondo esterno: nessuno nei decenni precedenti era salito fin lassù con l’idea di portare tra loro un’identità collettiva. Per esempio un’identità statale, un orgoglio patriottico, un far sentire anche loro italiani a pieno titolo.
Nessuno sa che il governo è nelle mani dei fascisti, nessuno ha mai sentito parlare di Mussolini, nessuno conosce i “successi” del governo nonostante tutta l’enfasi che il regime aveva messo nella “battaglia del grano” o al tempo delle grandi bonifiche.
A Fontamara, come in tanti villaggi periferici della misera Italia di un tempo, lo Stato si presentava solo per riscuotere le tasse, per portare via i giovani nell’esercito, per guerre di cui nessuno sa nulla. Oppure lo Stato si presenta con il volto privo di pietà di speculatori senza scrupoli che fanno quello che vogliono grazie all’ignoranza dei contadini.
Non solo il fascismo manca totalmente l’obiettivo di nazionalizzare le plebi del Sud, anche i governi liberali precedenti avevano operato nell’identico modo.
Quindi, insomma, un grande romanzo, un grande affresco storico-sociale, un grande romanzo che ci parla di dignità e libertà del lavoro.