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Senza sangue. Dedicato agli emigranti italiani nel Nuovo Mondo

Senza sangue

dedicato agli emigranti italiani

“Non so come la vide, quando la nave offrì New York vicino,

dei grattacieli il bosco, città di feci e strade, urla,

e Pàvana un ricordo, lasciato tra i castagni dell’Appennino

l’inglese un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello

e fu lavoro e sangue, e fu fatica eguale mattina e sera

per anni di prigione, di birra e di puttane, di giorni duri…”

da “Amerigo” di Francesco Guccini

Un piede contro la faccia lo fece sussultare. Nel buio fitto si svegliò indolenzito. Ebbe subito un’impressione sgradevole e offesa: il tanfo dello stanzone era disgustoso e quel piede malamente coperto da un benda sfilacciata sembrava minacciarlo da vicino.

Accadeva spesso che nella “Pensione Caruso” gli ultimi arrivati durante la notte, spazzini e lavapiatti dei locali intorno, si sistemassero così sulla branda, testa-piedi, perché lo spazio era molto ridotto. In poche decine di metri quadrati dormivano fino a cinquanta persone umiliate dalla stanchezza.

Non era la prima volta che si svegliava in quel modo alle prime luci dell’alba, ma quella mattina il disgusto lo assalì. Erano probabilmente le cinque e trequarti, l’ora in cui si alzava per lavorare al Molo 17.

Guardò l’uomo. Lo aveva visto qualche altra volta ma non nel saccone su cui dormiva ogni notte. Probabilmente era un polacco oppure un russo.

Nella “Pensione Caruso”, due stanzoni all’ultimo piano di un fatiscente palazzo di Five Points, ce n’erano alcuni. A volte d’estate, per risparmiare, dormivano sotto gli alberi buttando per terra un cencio. Il caldo in quella stagione era opprimente e la gente stava ore e ore sui tetti a parlare, a dormire, anche a cucinare. Ma passata l’estate e soprattutto d’inverno non avere un giaciglio coperto a New York voleva dire morire assiderato ed essere trovato rigido il mattino dai primi lavoratori che uscivano dalle case alveare del quartiere.

Nonostante il freddo pungente, appena temperato dalla promiscuità dello stanzone in cui dormivano uno addosso all’altro decine di immigrati, si alzò con fatica dalla branda cercando di non urtare lo sconosciuto. Era difficile mettere i piedi in spazi liberi: dovunque scarpe, fagotti, valigie, sacchi, voliere, cassette… povere cose che erano arrivate in America e che sarebbero servite per sopravvivere.

Passò vicino a una tenda e sentì dei sospiri, almeno così gli parve. Guardò con più attenzione: era la tenda di Caruso e della moglie, l’unica di tutta la camerata. Caruso dormiva con una donna conosciuta anni prima in un bordello di Cincinnati. Era magra e con gli occhi guardinghi, svelti, incredibilmente mobili. Grandi occhi neri che erano subito piaciuti a Italo. Forse anche lui piaceva a Ingrid, una tedesca, forse, chissà come arrivata e divorata subito dalla metropoli.

C’era un solo rubinetto per tutta la pensione. Scendeva poca acqua ma in quel momento non c’era il rischio di aspettare il proprio turno saltellando per il freddo oppure di farsi largo a spintoni quando mezz’ora dopo si sarebbero alzati tutti, tranne coloro che avevano lavorato la notte.

Era contento per il lavandino a disposizione, gli dispiaceva invece per il caffè bollente che la tedesca avrebbe preparato di lì a poco per la turba dei pigionanti, i quali avrebbero fatto ressa intorno a lei. La mattina, discinta e spettinata, aveva una bellezza sporca e selvaggia che eccitava gli uomini. A lei piaceva essere guardata e talvolta toccata di sfuggita dai più audaci nonostante Caruso guardasse tutti con occhi di fuoco. Poi durante la giornata non ci sarebbe stato più niente da fare per lei, tranne che pulire la crosta unta del pavimento e cuocere la sera grandi quantità di pasta per i lavoratori che tornavano.

La sera Ingrid era vestita come una vecchia e sembrava umiliata della giornata che aveva passato lì dentro, continuamente insultata da Caruso, e i pigionanti erano troppo stanchi per ricordarsi che erano uomini.

Alla fine delle scale, nel buio pesto inciampò in alcuni corpi distesi per terra e ricevette maledizioni in diversi dialetti che lui non comprese. Non sempre si ricordava che nell’androne del numero 57 dormivano buttati per terra alcuni italiani senza lavoro. Oppure era gente che voleva risparmiare tutto quello che poteva perché aveva lasciato a casa tanti bambini, la cui fame ora divorava il cervello dei genitori al di qua dell’oceano.

Appena in strada l’aria gelata lo riscosse e lo fece rabbrividire sotto la giacchetta di panno leggero che aveva portato con sé da Pàvana.

Era abituato al freddo. Era nato in una zona di colline e aspre montagne dove il mare e la pianura non si vedevano e d’inverno cadeva tanta neve da cancellare tutte le cose. Caddero alcuni fiocchi e chissà perché gli vennero in mente le belle mattinate d’inverno quando col cielo azzurro si rotolava nella neve circondato dai cani del padre. Era cresciuto solo senza amici, senza fratelli in quella casa sperduta tra le montagne dell’Appennino. La madre era morta quando lui aveva poche settimane e il padre, un uomo scorbutico e solitario, non aveva voluto più risposarsi.

Gli venne in mente anche il padre, chiuso sempre in una corazza di solitudine che forse era anche disperazione.

Rivide con il cuore il momento in cui disse al padre che voleva andarsene. Glielo disse una mattina qualunque. Aveva bevuto un po’ di acquavite per darsi coraggio e le parole uscirono una dopo l’altra come non era mai accaduto. Il padre lo guardò torvo, lo sguardo era cattivo, come sempre del resto, ma Italo sentiva una forza dentro di sé  che lo obbligava a parlare.

Dalla sua bocca uscirono parole pesanti, livide di rabbia repressa, di odio trattenuto. Sentiva che quelle parole urlate non erano rivolte solo contro il padre: generazioni senza nome si affacciavano alla sua mente in quel momento, con la loro miseria, con la loro disperazione.

Il padre sembrò sul punto di reagire, lo sguardo s’indurì, ma non si alzò dalla seggiola e i suoi occhi, dopo poco, sembrarono ombrarsi.

Erano passati più di tre anni da quel giorno e ora, sotto la neve che cadeva copiosa, gli spiacque per lui. Ora il padre era solo, sempre più inselvatichito tra quelle maledette montagne, in mezzo a capre e pecore, disperatamente solo.

Passò vicino a una rivendita di alcolici nelle mani di un americano quasi sempre sbronzo. Era un uomo straordinariamente grasso e ogni giorno vomitava ogni specie di contumelie contro le persone che passavano rasente il negozio, senza neppure distinguere tra italiani, russi, irlandesi, ucraini… “dago”, “wop”, “guinea” erano gli insulti che ripeteva con più soddisfazione. Anche al Molo 17, dove lavorava, Italo era abituato all’insulto.

“Dago” lo sentì per la prima volta appena sceso dalla nave che lo aveva portato a New York. Aveva diciotto anni. Un poliziotto si mise davanti a lui sulla banchina in cui stavano scendendo centinaia di persone indebolite dalla traversata. Quell’uomo gli parlò bruscamente e intanto rideva. Il poliziotto poi alzò la voce fino a urlare non so cosa. Quei suoni aspri, del tutto incomprensibili per Italo, lo impaurirono. Forse voleva i documenti, forse voleva perquisire il sacco in cui aveva solo poche cose… forse era solo disprezzo. Alla fine il poliziotto, furibondo, gli ripeté sul muso tre volte “dago” e negli occhi Italo scorse un odio di fuoco che lo fece rabbrividire.

Seppe più tardi che “dago” voleva dire “coltello” nel senso di “popolo del coltello”. All’inizio non capì perché a Pàvana nessuno girava con il coltello in tasca, ma poi ricordò alcune liti tra italiani durante la traversata con coltelli che comparivano all’improvviso, bianchi, guizzanti, a volte arrossati.

Quella mattina l’americano non era sulla porta, troppo freddo. C’era però una luce povera all’interno che illuminava malamente le poche bottiglie che quel giorno molti disperati avrebbero comprato.

Lungo le vie lavoratori che battevano le mani contro il corpo per riscaldarsi e che camminavano correndo, prostitute incattivite da una lunga notte e ubriachi che procedevano a scatti. New York intanto si svegliava in quell’alba gelida che prendeva lo stomaco e annebbiava la mente.

Entrò nel frattempo nell’area del porto e come ogni mattina si stupì del clamore, della confusione e dell’attività febbrile che animavano ogni cellula di quel grande organismo, il cuore pulsante della metropoli.

Grandi fanali illuminavano centinaia e centinaia di facce torve, incattivite, usurate, che lavoravano senza sosta in mezzo a un frastuono costante che intontiva. Navi all’ancora che scaricavano, navi pronte a salpare, sirene, i movimenti meccanici delle gru e poi camion, carri, carretti, cavalli e ovunque casse, balle, merci informi, ceste, sacchi… Sembrava un sogno irreale, un incubo da cui risvegliarsi con il collo sudato e il respiro trattenuto.

La sirena di una nave partente lo risvegliò da quell’annebbiamento che come ogni mattina gli aveva stretto la gola.

Il molo 17 lungo le rive dell’Hudson, all’ombra della Statua della Libertà, era il suo posto di lavoro. Lì arrivavano ogni settimana alcuni transatlantici, soprattutto dall’Italia, che portavano un triste carico umano fatto di miseria e feroci speranze.

Anche lui era arrivato tre anni prima durante un giorno piovoso e come molti altri aveva sentito il gelo nelle viscere vedendo nella nebbia umida la Statua della Libertà e più lontano, semicoperti da nuvole minacciose, i grattacieli di New York. Quel freddo impotente, presagio di anni senza pietà, lo sentiva ancora come quel giorno a Ellis Island quando alcuni uomini in divisa gli chiesero di vedere che cosa portava nel sacco annerito che aveva con sé. Lui tirò fuori biancheria che durante il viaggio si era orribilmente macchiata. Due di loro si erano turati il naso ridendo, un altro disse “greaseball” indicando i suoi capelli unti. Risero tutti e tre ondeggiando e le loro bocche si aprirono orribilmente. Poi confabularono tra di loro e sembrarono dimenticarsi di lui, che stava lì immobile con la sua povera roba in mano. Alla fine fu spinto bruscamente in avanti da coloro che premevano dietro.

Erano le sei e mezza ed era già arrivata la nave da Genova. Stavano scendendo le persone della prima classe chiuse nei loro eleganti cappotti e nelle pellicce di lusso delle signore. Portavano con sé bagagli leggeri. Bauli, valigie di cuoio, cappelliere e borse di varie fogge sarebbero state sbarcate successivamente.

Per la prima classe c’erano solo rapide formalità da sbrigare quali il controllo dei documenti e poco altro. Non così per gli emigranti della terza classe che dovevano aspettare ore prima di scendere dalla nave e raggiungere con i battelli del Dipartimento federale americano, stipati alla rinfusa, Ellis Island, la “porta” dell’America.

Italo li vedeva, rigidi, attoniti, sicuramente impauriti di fronte al frastuono febbrile del porto. Quell’insieme caotico di uomini e macchine li annichiliva. Dal primo ponte della nave guardavano, chiusi nei loro cappotti leggeri, la discesa della prima classe. A volte il loro sguardo si fermava a contemplare la foresta di costruzioni davanti a loro. La linea dell’orizzonte era sovrastata da grattacieli che toccavano le nuvole e oltrepassavano masse nuvolose che trasportavano la tempesta. Intanto la neve continuava a cadere sempre più fredda.

Dopo alcune ore di attesa sempre più incerta sarebbero stati sbarcati e condotti ad Ellis Island. Anche Italo c’era stato tre anni prima. Era il 1905 a allora arrivavano anche due o tre transatlantici il giorno ai moli dove ora lavorava.

Italo aveva attraversato l’oceano alla fine di quell’anno con il “Città di Torino” e su seicento imbarcati nella terza classe, quarantacinque erano morti di malattie varie contratte durante il viaggio. I primi morti erano stati buttati in mare di giorno davanti a tutti gli emigranti della terza, poi gli altri li buttavano di notte quando tutti dormivano, soprattutto per non turbare le signore della “prima” in viaggio di piacere.

Italo era sceso da quella nave-lazzaretto con una febbre altissima, camminava a stento e temeva di essere respinto dalle autorità. Davanti ad alcuni medici fu costretto a spogliarsi quasi nudo. Fu fortunato perché la “visita” era stata così rapida che i funzionari non si accorsero del suo stato pietoso. Altri invece non riuscirono a celare le loro malattie e vennero separati dalle famiglie tra pianti, maledizioni, bestemmie.

Un bambino di dieci anni, forse tubercolotico, fu allontanato in malo modo dopo la visita medica nonostante il padre, in un linguaggio gutturale che Italo capiva a fatica, piangesse la sua disperazione. I poliziotti, rigidi nelle loro divise, non lo ascoltarono neppure: padre e madre con sei figli di qua, il bambino andò nella direzione opposta. Gli impedirono anche un ultimo sguardo alla famiglia che urlava un estremo saluto. Sarebbe stato poi rimpatriato, solo, verso l’Italia.

Italo non aveva dimenticato nulla e sapeva che quella povera gente ora avrebbe dovuto sopportare tutto questo nonostante la fame, la sete, la debolezza che attanagliava ogni emigrante e l’orgoglio ferito di chi era stato trattato durante la traversata come una bestia.

Il lavoro di Italo era abominevole. Anche gli spazzini di Caruso, che lavoravano all’interno delle discariche di New York, non ne volevano sapere: si trattava di ripulire le navi, una volta scesi tutti i passeggeri, soprattutto l’immonda terza classe. Anche la prima era sporca, ma nessun paragone era possibile con la terza.

Per la pulizia della prima c’erano inservienti americani della società appaltatrice, gente che guadagnava poco ma poteva sentirsi superiore agli italiani che ripulivano la terza lordata da altri italiani.

Quando Italo arrivò a New York le condizioni della stiva dove stavano accalcati centinaia di pezzenti erano indescrivibili. Gli spazi erano saturi di sporcizia, insetti, abiti lordati e cose immonde. Durante la traversata Italo aveva bivaccato in ampio locale adiacente la sala macchine. La temperatura era subito salita appena fuori dal porto di Genova fino a diventare assolutamente intollerabile per donne, bambini e uomini in questo momento ancora in buono stato. Il rumore dei grandi macchinari era continuo e devastante anche durante la notte. Gli spazi erano ingombri di carne sudata buttata dove capitava, bagagli di ogni tipo, animali. Sulla “Città di Torino” c’era un urinatoio ogni cento persone, ma dopo pochi giorni erano già intasati. I bambini spesso urinavano e defecavano dove capitava rendendo l’aria ammorbata. Il sudore faceva il resto.

Vicino alla costa spagnola due giorni di burrasca avevano messo sotto sopra l’organismo di quelle persone di cui moltissime avevano visto il mare per la prima volta solo pochi giorni prima. Conati di vomito avevano ridotto quello stanzone a un letamaio che suscitava orrore e disgusto nei rari membri dell’equipaggio che talvolta si affacciavano a vedere che cosa succedesse là sotto. Non c’era alcuna pulizia anche perché gli inservienti della compagnia, dopo il primo giorno di navigazione, si erano rifiutati di scendere nella stiva sotto il livello dell’acqua dove seicento e più persone vivevano in uno stato di promiscuità animalesca che aveva turbato Italo fin dall’inizio.

Dopo dieci giorni dalla partenza neppure il medico di bordo, l’unico di tutta la nave e spesso impegnato con i capricci delle signore della prima classe, osava più scendere. C’erano state delle risse, probabilmente un calabrese fu accoltellato, ma nessuno del personale di bordo era intervenuto. Il cadavere fu subito buttato in mare dagli stessi uccisori, due fratelli di sedici e diciassette anni, di notte.

Quando sbarcò a Ellis Island erano passati almeno quindici giorni da quando i passeggeri della terza si erano lavati. Anzi, i giorni erano di più perché molti avevano viaggiato a piedi oppure con un mulo per una settimana e oltre per raggiungere l’imbarco a Genova.

In quei quindici giorni, che nessuno di loro avrebbe più dimenticato, avevano mangiato prevalentemente patate e aringhe. La sete divorava chiunque. All’inizio della traversata l’acqua era razionata, poi aveva un cattivo gusto che provocava dolori di stomaco. Certo, in prima classe le cose dovevano essere diverse.

Non c’erano tavolate e ognuno mangiava con il piatto in mano e il pezzo di pane per terra. A Italo faceva schifo poggiare il pane sul pavimento sporco, ma non poteva fare altrimenti: la fame allentava ogni freno.

Eppure aveva lavorato duramente nel podere di massaro Burani, giù in pianura, ben cento giorni per pagare il biglietto della traversata. Almeno questi erano i suoi calcoli. Si era rotto la schiena nei campi di quel mezzadro per alcuni mesi, e ora era trattato peggio delle bestie. Ribellarsi durante il viaggio era inutile: i marinai erano armati e il comandante non avrebbe esitato a dare l’ordine di sparare. E poi tutte quelle parlate che lo incuriosivano e intimorivano impedivano ogni possibile accordo tra quei disgraziati.

L’ultima umiliazione, che tutti avrebbero subito, sarebbe stato il cambiamento del nome. Per chi superava tutti i controlli di Ellis Island, comprese ventinove domande tradotte malamente nei singoli dialetti, c’era l’americanizzazione del nome. Italo Fascetti, così si chiamava, diventò Italy Fascett.

La nuova identità venne scritta sul visto d’ingresso sul quale campeggiava un ottimistico “Welcome to America”.

Quel nome, Italo, che il padre gli aveva messo perché in gioventù, prima di abbruttirsi nella baita là in alto, aveva frequentato a Modena circoli mazziniani, gli divenne insopportabile.

Italo era l’eco di un paese lontano, di una patria non sua. Solo l’Appennino era la sua terra, una terra dominata da alte montagne che toccavano il cielo e di acque limpide che scendevano al piano. Paesaggi che non avrebbe più rivisto.

Ora doveva rivivere ogni momento della traversata quando per lavoro sarebbe entrato in una stiva dove seicento-settecento persone avevano mangiato, dormito, fatto l’amore davanti agli altri, vomitato e urinato nello stesso spazio.

Con lui lavoravano negri, cinesi, altri italiani, irlandesi, polacchi… gente appena arrivata in America, individui usciti di galera o ricercati dalla polizia, disperati e troppo affamati per cercare un lavoro migliore.

Italo sapeva che nelle grandi foreste dell’Ohio cercavano giovani come lui per tagliare gli alberi oppure per costruire nuovi tronchi ferroviari nel territorio vergine. A volte pensava che l’aria pura dei boschi l’avrebbe rigenerato. Ma pochi mesi prima un irlandese grande e grosso, appena arrivato da Caruso, aveva raccontato a una platea di sguardi delusi le sue traversie in quelle zone in cui la legge era fatta dai sorveglianti, sempre armati e pronti a uccidere chi protestava oppure scappava.

L’irlandese, che si chiamava Seàn, aveva costruito ferrovie in quelle terre dimenticate da Dio. Non aveva portato con sé a New York neppure uno spicciolo perché il salario era stato assorbito dalle prepotenze dei guardiani, dalle multe esagerate per piccole mancanze e dai prezzi strozzineschi dell’unico spaccio esistente. Prezzi aumentati tre-quattro volte rispetto al resto degli USA. Ma non c’era alternativa: o pagare pur mangiando male oppure cibarsi di bacche e di altre porcherie rovinandosi lo stomaco.

Seàn tentò di conservare nelle proprie tasche qualche soldo: rischiò di morire per aver ingerito non sapeva cosa. E per una settimana di riposo in un vagone ferroviario, nel quale normalmente dormivano in tutte le stagioni, perse un mese di stipendio.

Poi una notte eluse la sorveglianza delle guardie armate e fece a piedi trecento chilometri fino a New York, da dove era partito, ricco solo di speranza, tre anni prima.

Non c’erano alternative alla sua condizione, Italo lo sapeva bene. Senza sangue gli appariva la sua esistenza.

Mentre si accingeva a prendere ramazze e scope per l’immondo lavoro alcuni portuali americani cominciavano a canticchiare una canzonetta che suonava più o meno “ghini ghini gon”. “Gon” voleva dire “gorilla” e l’insulto era rivolto ai negri, compagni di lavoro di Italo, ma anche lui era il bersaglio di quegli insulti, lo sapeva bene. Anzi per lui a volte riservavano “black dago”, ossia “accoltellatore negro” perché gli americani (anche se vivevano nei miseri tuguri di Lower East side) non distinguevano tra negri e italiani.

Italo non aveva mai reagito, altri italiani invece sfoderavano i coltelli mentre i negri facevano a pugni. Raramente però queste risse finivano nel sangue perché gli americani aspettavano di essere in molti per i loro sfottò, mentre italiani e negri temevano il licenziamento e il rimpatrio forzato. Nessuno di loro  invece aveva paura della galera. Almeno il vitto era assicurato e le celle erano riscaldate. E spaccare le pietre in qualche penitenziario non era sicuramente peggiore che disboscare oppure lavorare nelle stive delle navi.

Quel giorno sentì solo qualche sparuto “chianti” e “macaroni” forse perché un inserviente lucano che ben conosceva, esageratamente grasso, camminava barcollando come un ubriaco.

No, non c’erano alternative a quel mondo, a quei giorni tutti uguali.

Non voleva neppure farsi arruolare nella malavita come altri italiani che aveva conosciuto. Spacciare droga, diventare guardia del corpo di qualche boss o peggio killer non lo interessavano. Sentiva che lui certe cose non le avrebbe fatte, non le doveva fare.

Poco prima di partire per l’America aveva conosciuto a Modena alcuni anarchici e partecipato a qualche loro riunione.

Aveva sentito per la prima volta parole che prima l’avevano incuriosito e poi sempre più attratto. Un anarchico, seguace di Malatesta, una sera aveva parlato della necessità di abolire la proprietà privata, di cancellare le differenze tra ricchi e poveri dando a tutti ciò di cui avevano bisogno, indipendentemente dal lavoro svolto. Poi aveva parlato a lungo del lavoro sostenendo che per millenni è stato oggetto di sfruttamento e di inaudite sofferenze e umiliazioni per milioni di individui.

L’anarchia voleva cambiare questo stato di cose portando la giustizia dove non era mai esistita. Il lavoro sarebbe diventato una gioia quotidiana e i bisogni fondamentali dell’uomo sarebbero stati soddisfatti.

Tornando verso casa quella sera continuava a rimuginare quelle parole avvertendovi qualcosa di puro, di incontaminato. “L’importante è l’organizzazione”, sentiva dentro di sé la voce dell’oratore, “Senza organizzazione il proletariato è nulla, è come un gigante dai piedi di argilla, è come un gigante privo di testa”.

Chissà perché a quelle parole ricordava sempre l’episodio di Davide e Golia, che le suore di Pàvana gli avevano insegnato senza che il padre lo sapesse. Gli sembrava più giusto che gli operai fossero il piccolo Davide armato di fionda e cosciente della sua forza e dignità, mentre il capitalismo sfruttatore fosse il bieco e tracotante Golia.

Poi a New York aveva conosciuto altri anarchici e tramite loro anche qualche socialista. Si trattava di italiani spesso analfabeti, oppure in grado di leggere con difficoltà; eppure Italo notava nei loro occhi una luce che altri non avevano. Suo padre in gioventù era stato un mazziniano acceso e Italo sapeva qual era la forza degli ideali. Anni e anni prima suo pare ripeteva spesso che la giustizia è un bene supremo e per essa bisognava essere pronti a sacrificarsi. Ora anche queste parole tornavano alla luce nel suo cuore, dopo tanto tempo.

I socialisti forse gli piacevano di più: parlavano malvolentieri di rivoluzione, condannavano la violenza di piazza e il terrorismo a cui si abbandonavano gli anarchici, avevano un’alta dignità del lavoro operaio e soprattutto parlavano incessantemente di lotta salariale, di scioperi “per piegare la gambe ai padroni”, di organizzazione… insomma di cose concrete da fare, qualcosa in cui credere perché la vita non poteva essere tutta lì: una stiva da pulire e  le navi che sarebbero arrivate cariche di braccia da logorare rapidamente.

Stava pensando a tutto questo e non si accorse che aveva raggiunto la terza classe sotto il livello dell’acqua. Il tanfo era tale che per un attimo fece un passo indietro. Mise davanti alla bocca un fazzoletto, ma la puzza era ancora orribile. La luce era fioca e non vedeva bene dove metteva i piedi.. I suoi stivali avvertivano liquidi e un qualcosa che sembrava fango.

Una persona dietro di lui lo toccò leggermente. Era Vincenzo, un socialista di Molfetta, a New York ormai da dodici anni. Era un uomo di circa cinquant’anni e con un bellissimo aspetto che piaceva alle donne. I baffi spavaldi davano fiducia. L’alta figura incuteva rispetto. Nonostante il lavoro nelle stive conservava qualcosa dell’antica dignità del contadino pugliese. Molti dicevano che sapesse leggere e scrivere bene e che facesse quel lavoro solo per propagandare il socialismo tra tante persone che avevano bisogno subito di speranza.

Vincenzo sorrise a Italo e pronunciò appena: “Stasera davanti alla Madison, con i volantini!”.

La Madison era una fabbrica tessile nella quale lavoravano 2500 operaie che minacciavano di licenziamento.

Italo colse le sue parole, vide nella penombra il suo sorriso e improvvisamente si sentì bene. Sentiva pulsare il sangue nelle vene come non mai.

“I giovani di oggi non sanno,

nessuno racconta la storia.

E i vecchi sembrano aver dimenticato”

Raul Rossetti, emigrante in Usa

 

Studenti del Labstoria “Bernocchi” Legnano