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Italiani morti in miniera: Marcinelle

Italiani morti in miniera: Marcinelle

Marcinelle, Belgio, 8 agosto 1956: nel Bois du Cazier muoiono 262 minatori. Tra di loro 136 sono italiani, 95 belgi, 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 3 algerini, 2 francesi, 3 ungheresi, 1 inglese, 1 olandese, 1 russo e 1 ucraino.

Metà dei 136 morti italiani erano abruzzesi. Una tragedia che tutti ricordano ancora oggi a Manoppello, Lettomanoppello e Turrivalignano in Abruzzo; a Crotone, a San Giovanni in Fiore e a Castelsitrano in Calabria.

È una grande tragedia mineraria, è una grande tragedia dell’emigrazione italiana che è stata rimossa al pari di tutta la storia del lavoro italiano all’estero.

L’Abruzzo nel 1945 era un paese di fame, c’era la campagna povera e ancora più povera era la pastorizia. Manoppello e la vicina Lettomanoppello erano i due paesi degli scalpellini abruzzesi, abilissimi artigiani che plasmavano la pietra nera e bianca della Maiella. Ma il dopoguerra aveva seppellito questo mestiere e riempito la vita di stenti. Gli uomini emigravano in America, in Australia, in Francia. E in Belgio!

140mila emigranti italiani erano stati attirati in Belgio da manifesti che comparivano in tutte le città italiane. I manifesti dicevano:“Solo 18 ore di treno per arrivare in Belgio”; erano indicati i salari, sicuramente migliori rispetto a quelli italiani. E poi tante promesse: “Assenze giustificate per motivi di famiglia, carbone gratuito, biglietti ferroviari gratuiti, premio di natalità, ferie, vitto e alloggio presso la cantina della miniera, contratto annuale…”. E poi la promessa che faceva decidere per il sì: “Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”.

Promesse e realtà

Tante promesse sui manifesti di color rosa…  ma non era vero niente!

Per esempio nei manifesti rosa della silicosi non c’era traccia. Così come non c’era traccia del terribile grisù, il gas che si sprigionava dalle pareti delle miniere e uccideva incendiandosi.

Contro il grisù i minatori tenevano in tasca dei topolini e portavano a centinaia di metri di profondità dei canarini. Canarini e topi avrebbero avvertito per primi la presenza del gas, morendo.

Se un minatore dopo aver firmato per 5 anni (!) si rifiutava di scendere in miniera o lasciava il cantiere veniva arrestato e condotto in prigione con un regime alimentare degno di un lager nazista. Doveva rispettare il contratto!

Il ruolo del governo italiano

Il governo italiano aveva incentivato l’emigrazione, dopo il ’45, da un paese sconfitto e umiliato dalla guerra. L’Italia non aveva materie prime ma aveva braccia in eccesso? I nostri governi trovarono la soluzione: da ogni emigrante in Belgio l’Italia avrebbe avuto quintali di carbone a basso costo per le industrie del triangolo industriale.

Ma non c’è solo la fame di energia: il governo italiano stipula con quello belga un accordo di tipo schiavistico: nessuna garanzia per la sicurezza del lavoro, nessuna assicurazione seria sulla salute, sugli incidenti, sulla vecchiaia. I nostri emigranti: un gregge da sfruttare a buon mercato!

Del resto lo stesso De Gasperi disse con particolare cinismo: “Che imparino le lingue! Che emigrino!” quando qualcuno obiettava che i nostri emigranti avrebbero avuto molte difficoltà nei nuovi Paesi tra cui quelle linguistiche.

Infatti nel marzo del ’46 il governo italiano firma un accordo con il governo belga in cui si sancisce che “per ogni scaglione di 1000 operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà verso l’Italia: tonn. 2500 mensili di carbone se la produzione sarà inferiore a tonn. 1.750.000 tonn.; 3500 mensili per 2 milioni di tonn; 5000 mensili per più di 2 milioni di tonn.”. E’ un cambio uomini per carbone.

Il governo quindi si impegna a mandare nei 5 distretti carboniferi belgi 2000 lavoratori alla settimana senza chiedere garanzie e nessuna sicurezza sul lavoro. Risultato, dal 1946 al 1963 i morti italiani nelle miniere belghe saranno 867. Nel 1956 oltre ai 136 dell’8 agosto ce ne sono altri 50.

Che cosa avvenne?

L’incidente di Marcinelle avvenne l’8 agosto del 1956 nel Bois du Cazier a 975 metri di profondità. La dinamica dell’incidente mette in evidenza l’assoluta precarietà del lavoro dei minatori.

Alle 8.30, poco dopo l’inizio del primo turno di lavoro, uno dei due addetti alle operazioni di carico dei vagoncini carichi di carbone, il molisano Antonio Iannetta, carica un vagone pieno nell’ascensore ma qualcosa non va.

Due vagoncini colmi di carbone vengono caricati sulla gabbia-ascensore. Il secondo carrello è mal posizionato.

Il vagonetto vuoto strappa una putrella e questa rompe una conduttura dell’olio, i cavi vengono contemporaneamente tranciati e l’olio sprizza sulla corrente provocando una fiammata. Escono 850 kg di olio. L’incendio è alimentato dall’aria compressa e dai ventilatori d’areazione.

Si sprigiona subito una fiamma che è alimentata dall’olio e dalle tante strutture in legno del pozzo. L’incendio è alimentato soprattutto dalla ventilazione necessaria per portare aria a quella profondità.

L’incendio, di inaudita violenza, si estende in tutta la miniera: un banale incidente di carico si è trasformato in un disastro.

Non esistono condizioni di sicurezza nella miniera: le strutture portanti delle gallerie sono tutte in legno, le porte anti incendio, che separano le gallerie, sono in legno; non esistono porte stagne, non esistono vie di fuga, la maschere anti gas sono poche e inservibili….

In queste condizioni anche un banale incidente diventa una tragedia. Nel Bois di Cazier 274 minatori restano intrappolati nelle gallerie percorse dal fuoco che brucia tutto, un torrente di fuoco alimentato dall’impianto di ventilazione. Dove non arriva il fuoco arriva il fumo che satura progressivamente i due pozzi.

Solo 12 (?) si salveranno, 262 morirono: alcuni bruciati, molti invece soffocati dal fumo.

Perché avvenne la tragedia? Due cause soprattutto

“Insufficienza delle misure di sicurezza e il sistema salariale” (cottimo), che impediva una adeguata manutenzione.

Il Bois du Cazier è la prima miniera in Vallonia, aperta nei primi decenni dell’Ottocento. Aveva strutture a dir poco antiquate. Avrebbe dovuto essere chiusa ma il prezzo internazionale del carbone dopo il ’45 permetteva a questa vetusta miniera di rimanere attiva.

–         non aveva estintori e potenti tubi dell’acqua in caso di incendio

–         i minatori non avevano maschere antigas con l’ossigeno

–         non c’erano vie di fuga. Il Foraky (il nuovo pozzo) non era stato ancora unito al pozzo di discesa. C’era una barriera di cemento che non era stata ancora forata

–         le porte stagne erano in legno. Tutte le strutture erano in legno mentre nelle miniere moderne era largamente utilizzato il ferro. Le porte stagne in legno è una contraddizione in termini

–         là sotto non c’è personale specializzato per le operazioni di soccorso e per spegnere incendi

–         l’ascensore era in legno e non in ferro come altre miniere

–         i soccorsi arrivarono tardi, dopo due ore dall’inizio della tragedia. Non furono utilizzati gli ascensori nella fase iniziale, poi precipitarono al fondo della miniera

–         il primo giorno hanno allagato la miniera, “ma l’acqua con quel calore è diventata vapore acqueo ed era bollente, e questo è stata forse la rovina definitiva per quelli che c’erano là sotto”. Hanno voluto salvare la miniera o salvare vite umane?

Assoluta mancanza di sicurezza:

–         i cavi dell’alta tensione sono a diretto contatto con i tubi che portano olio bollente sotto pressione per il movimento dell’ascensore. I cavi della corrente dovevano essere interrati oppure collocati dalla parte opposta. L’olio è infiammabile

–         i responsabili della miniera diranno che non sapevano che l’olio era infiammabile!

–         i relais non funzionano perché nessuno aveva mai fatto la manutenzione (servono per bloccare l’erogazione dell’energia elettrica?)

–         l’aria compressa e i potenti ventilatori fanno di un banale incendio qualcosa che divora la miniera

Come si lavorava in miniera?

–         la temperatura all’interno arrivava anche a 40-50 gradi. Si lavorava nudi o seminudi.

–         La polvere di carbone prendeva la gola e si depositava nei polmoni (in prospettiva c’era la morte o l’invalidità per silicosi).

–         Con il martello pneumatico si lavorava nelle “taglie” alte da 30 centimentri a un metro, spesso si lavorava sdraiati o sulle ginocchia con il martello pneumatico tra le mani. Paraddosalmente il m.p. leniva la fatica rispetto al piccone ottocentesco ma aumentava notevolmente il pulviscolo.

–         Le nuove vene erano aperte con l’esplosivo: rischi di crolli e aumento della polvere

Il Razzismo

Erano pochi i locali dove gli italiani potevano entrare. In molti c’era scritto: “Ni chiens ni italien”. Oppure si sentivano dire: “Sales macaronì” (andate via macaroni)

Le condizioni di vita

Dopo il viaggio in treno fino a Cherleroi i lavoratori sono alloggiati in baracche che erano state utilizzate dai tedeschi per i prigionieri di guerra sovietici, polacchi e francesi e poi le stesse baracche dagli americani per i prigionieri tedeschi. Non c’erano servizi all’interno e l’acqua era a una fontana per tutti.

Altre stragi del lavoro

Marcinelle non è l’unico incidente grave che funesta l’emigrazione italiana. Facciamo un salto indietro.

Gottardo, Svizzera, 1882. E’ inaugurata l’ “ottava meraviglia del mondo”: è il tunnel ferroviario del Gottardo i cui lavori erano iniziati 10 anni prima nel 1872.

Nel 1882 la Noi Zurcher Zaitung pubblicò i versi di un poeta locale:“In tutta Elvezia suona il giubilo: è finito! Si traforò il Gottardo, bastione di granito. Urrah per gli ingegneri e per la loro scienza che quei giganti alteri vincono con sapienza !”

In questa “poesia” non vengono neppure ricordati per sbaglio i veri artefici del “miracolo della tecnica” (altra espressione mirabolante della stampa svizzera), ossia gli operai del Gottardo.

Il numero dei lavoratori fu sempre di 17.000 durante i dieci anni di perforazione della montagna.

E il tributo di sangue fu gravissimo: 177 morirono nel tunnel e 307 lungo l’intero tratto. Il totale dei morti e dei feriti gravemente fu di 847 persone e molti di loro erano italiani.

Non c’erano solo gli incidenti durante il lavoro, particolarmente numerosi perché la direzione dei lavori non voleva spendere soldi per la sicurezza e voleva rispettare a tutti i costi i tempi di consegna del tunnel.

Molti lavoratori morirono di tifo, polmonite e perfino vaiolo e colera. Le condizioni di vita nelle baracche erano spaventose, uno stesso letto serviva a due o tre operai visto che si lavorava a turni, la sporcizia regnava sovrana.

Italiani morti in miniera: Monongah

Ma il maggiore disastro minerario, in cui furono coinvolti emigranti italiani, avvenne a Mònongah in Virginia, il 6 dicembre 1907. Monongah è ancora oggi il più grande disastro minerario della storia degli Stati Uniti.

Quel 6 dicembre del 1907, 49 anni prima di Marcinelle, ci fu una terribile esplosione a 70 metri di profondità, che fu udita fino a 35 chilometri di distanza. L’esplosione era stata originata da una gran quantità di grisù, gas facilmente infiammabile. Tutti i minatori scesi quella mattina nel pozzo morirono.

Le autorità dettarono un elenco di 350 vittime ma è probabile che il numero fu maggiore. Un giornale locale fece salire le vittime a 957.

Tra le 350 vittime ufficiali, 171 erano italiane.

Erano emigrati da località molisane (un centinaio), calabresi (una quarantina) e abruzzesi (una trentina). Tra i paesi più colpiti i molisani Frosolone (14 vittime), Duronia (36 vittime), Roccamandolfi, Bagnoli del Trigno, Torella del Sannio; i calabresi San Giovanni in Fiore (una trentina di vittime), San Nicola dell’Alto, Falerna, Strongoli, Gizzèria, Castrovillari e gli abruzzesi Atri, Civitella Rovèto, Cìvita d’àntino.

E’ interessante scorrere l’elenco delle vittime perché in realtà non troviamo nomi e cognomi italiani. Nomi e cognomi dei minatori italiani morti nell’esplosione erano stati americanizzati all’arrivo ad Ellis Island, a New York.

Così accanto ai vari Carl Abatta, French Abatta, John Bonasa, French Garrasco troviamo i James Lerant, i Tony Gall, i Tony Frenck , addirittura un Dominick Richwood, italiano anche lui. A Ellis Island si voleva fare di loro subito degli americani e intanto li si mandava a morire dove gli americani… non volevano morire.

Le principali tragedie dell’emigrazione
In memoria delle vittime

anno località nazione tot vittime vitt italiane

06.12.1907 Monongah,
miniera
West Virginia, USA 362 171
24.07.1908 Lötschberg, galleria Svizzera 116 25
25.03.1911 New York,
incendio Triangle Shirtwaist Factory
USA 146,
di cui 123 donne
39 donne
22.10.1913 Dawson,
miniera
New Mexico, USA 263 133
08.08.1956 Marcinelle, miniera Belgio 262 136
30.08.1965 Mattmark, costruzione diga Svizzera 102 55

La tragedia di Ribolla (Grosseto)

La miniera di Ribolla fu attiva per più di un secolo, arrivando ad un picco produttivo di 270.000 tonnellate annue di carbone nel corso della seconda guerra mondiale.

Ribolla, dagli anni trenta alla metà del Novecento, divenne un villaggio minerario della Montecatini. La miniera fu teatro, il 4 maggio 1954, della più grave tragedia mineraria italiana del secondo dopoguerra. Un’esplosione di gas, il grisù, provocò la morte di 43 persone nella sezione “Camorra Sud” della miniera di lignite. L’onda d’urto percorse le varie gallerie provocando una nube di polvere che rese difficoltosa la respirazione ai minatori anche degli altri reparti. I primi soccorsi furono poco incisivi a causa della mancanza delle maschere antigas. I funerali mobilitarono 50 000 persone. Le famiglie, che dovettero costituirsi parte civile accettarono le offerte in denaro della Montecatini e il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come “mera fatalità”. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decise la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiese ben cinque anni.

Di quell’episodio rimangono alcuni resti della miniera e il Monumento al minatore di Vittorio Basaglia. La vicenda è estesamente raccontata da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola ne I minatori della Maremma, pubblicato nel 1956 dall’editore Laterza, e richiamata nel romanzo di Bianciardi La vita agra (e quindi nel film di Carlo Lizzani, tratto dal romanzo).