I Giusti fra le Nazioni
I Giusti sono i non ebrei che salvarono gli ebrei durante la seconda guerra mondiale.
Quando nacque l’attribuzione di Giusto?
Nel 1953 la Knesset, il Parlamento israeliano, istituisce il Memoriale dello Yad Vashem sul Monte della Rimembranza a Gerusalemme. Uno dei compiti dello Yad Vashem è quello di rendere omaggio e commemorare i “Giusti tra le Nazioni”, non ebrei che rischiarono la vita per salvare gli ebrei.
Il titolo viene dato sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti o sulla base di documenti attendibili.
Per essere insignito del titolo una persona deve (dice lo statuto):“Aver aiutato a salvare una vita; rischiando la propria in assenza di qualsiasi ricompensa monetaria o di altro tipo; e considerazioni analoghe che collocano le azioni di questa persona molto al di sopra di quello che può essere chiamato semplice aiuto”.
All’inizio degli anni Sessanta (1963) lo Yad Vashem ha costituito una commissione formata da 35 componenti esperti di queste questioni. Tra di loro anche sopravvissuti.
Dal ’62 al ’70 il presidente fu Moshe Landau (presidente del tribunale che giudicò Eichman), dal ’70 al ’95 Moshe Bejski (un ebreo della Lista di Schindler). Dal ’95 dal giudice Jokov Maltz.
Ogni candidatura a Giusto comprende diverse fasi: informazioni preliminari, apertura di un dossier, nomina di un responsabile che raccoglie la documentazione e le testimonianze autentificate da un notaio. Alla fine la direzione di Yad Vashem vota per l’approvazione o per un supplemento di indagini.
Coloro che vengono riconosciuti Giusti fra le Nazioni sono invitati a Gerusalemme per una cerimonia nella quale ricevono un diploma d’onore e poi piantano un albero nel Viale dei Giusti sul Monte della Rimenbranza. Ora non c’è più spazio per gli alberi e allora il nome del Giusto è inciso sul Muro d’Onore nel perimetro del Memoriale.
Nella maggior parte dei casi il salvataggio consisteva nel fornire un nascondiglio nella casa o nell’appartamento del salvatore costruendo un rifugio nella soffitta, nel ripostiglio, nel fienile. La protezione poteva andare da poche settimane oppure per mesi e mesi fino alla fine della guerra. I rischi erano molti.
All’inizio del 2000 i Giusti erano circa 17mila, oggi poco più di 23mila. Misero in pratica il versetto del Talmud: “Colui che salva la vita di un singolo è come se avesse salvato il mondo intero”.
Presso lo Yad Vashem esiste un’enciclopedia che raccoglie la storia di ciscuno dei Giusti, in cui è raccontato l’episodio o gli episodi in cui il Giusto è stato protagonista accanto al singolo o alle persone ebree da lui salvate, tra cui le vicende dei 500 Giusti italiani.
I Giusti d’Italia
L’emancipazione degli ebrei
Parliamo ora dei Giusti d’Italia ma prima un po’ di storia delle comunità ebraiche in Italia.
L’ingresso nella vita nazionale italiana per gli ebrei avviene nel 1861. Cadono tutte le precedenti restrizioni e diventano cittadini a pieno diritto. A Roma il ghetto è aperto nel 1870.
Fino alla fine degli anni Trenta non accadde nulla agli ebrei italiani: si integrarono sempre di più nella società italiana e di fronte al fascismo ebbero lo stesso atteggiamento della maggioranza della popolazione italiana: una parte aderì convinta, pochi divennero antifascisti, la maggioranza apparve indifferente.
Nonostante una lunga e diffusa tradizione di antigiudaismo cattolico, non esisteva l’antisemitismo di tipo nazista (biologico). Neppure tra la gente esisteva l’ostilità, probabilmente a causa del basso numero di ebrei (1 su mille abitanti)
Le leggi Razziali
Il dramma degli ebrei italiani inizia con le Leggi Razziali del ’38 quando un’intera comunità formata da cittadini italiani venne discriminata per motivi biologici e non religiosi. Probabilmente le Leggi Razziali nacquero per imitazione delle Leggi antisemite tedesche (Leggi di Norimberga).
Gli ebrei in questo momento sono 46.500, ossia l’1 per mille della popolazione italiana.
Le Leggi del ’38 discriminavano gli ebrei dai non ebrei, ossia dai cittadini italiani ariani. Vennero definite “Leggi per la difesa della Razza italiana”.
La prima legge fu il 5 settembre ’38, poi si ebbero 189 provedimenti successivi: espulsione dall’esercito, espulsione di studenti e docenti dalle scuole del Regno (fu il provvedimento più duro), divieto di matrimoni misti, apposizione del marchio di “razza ebraica” sui documenti, licenziamenti dal pubblico impiego, divieto del commercio ambulante, divieto di pubblicare autori ebrei, divieto di esercitare libere professioni, divieto di frequentare biblioteche, piscine, parchi, divieto di possedere immobili oltre una certa quota…
La legislazione antiebraica impedì agli ebrei di partecipare alla vita sociale del paese, li privò dei loro diritti civili e politici, provocò l’espulsione dall’Italia dei rifugiati ebrei dell’Europa occidentale e tolse la cittadinanza a coloro che erano diventati italiani dopo il 1919. La legislazione antisemita fu accompagnata da una massiccia campagna propagandata da radio e giornali.
L’impatto delle Leggi razziali sulla scuola italiana
Le Leggi razziali si abbattono soprattutto sulla scuola italiana. Le cifre degli espulsi dalla scuola italiana è notevole: 279 tra presidi e professori di scuola media, 96 docenti universitari, 133 assistenti universitari e 200 liberi docenti + 2.500 bambini espulsi dalla scuola elementare e 4.000 espulsi dalle scuole medie e superiori. In totale: 6500 studenti e circa 700 docenti.
Le Leggi Razziali colpiscono i diritti, non le persone.
Non ci furono deportazioni in Germania oppure nei lager in Italia. Nessun progetto quindi di assassinio di massa.
Gli ebrei conservano la cittadinanza italiana che però viene svalutata dai provvedimenti voluti dal fascismo.
Le Leggi del ’38 colpiscono una comunità ben integrata nel tessuto sociale se pensiamo all’alto numero di matrimoni misti: circa un terzo degli ebrei era strettamente legata al resto della popolazione. Decidendo che il figlio di un matrimonio misto era “ariano” se cattolico, gli ebrei sarebbero gradualmente scomparsi perché le Leggi prevedevano la graduale espulsione dei “puri”.
Non ci fu reazione da parte della popolazione italiana (molta indifferenza), neppure la Chiesa cattolica intervenne a difesa degli ebrei. Intervenne solo per difendere l’integrità dei matrimoni con i cattolici quando l’ebreo si era convertito.
Anche l’antifascismo italiano in Francia sottovalutò i provvedimenti. Non ci furono reazioni neppure tra gli uomini di cultura più importanti e nessuna associazione professionale o culturale italiana protestò.
Italia ingrata
L’Italia, e non solo quella fascista, fu molto ingrata nei confronti degli ebrei mentre gli ebrei fino a quel momento avevano dato molto al nostro Paese.
Se cancellassimo tutti gli ebrei che si sono distinti nella politica italiana cancelleremmo un pezzo della nostra storia: furono ebrei Daniele Manin e Giuseppe Finzi, eroi del Risorgimento; dopo l’Unità Luigi Luzzatti, anche lui di origini ebraiche, fu più volte ministro e presidente del consiglio nel 1910-11; oltre a Luzzatti furono presidenti del Consiglio altri due ebrei: Alessandro Fortis, che combatté con Garibaldi e fu Primo ministro nel 1905-1906 e Sidney Sonnino, uomo politico di primo piano nell’Italia giolittiana. Quindi abbiamo avuto tre primi ministri ebrei. Nel 1902 il ministro della Guerra fu l’ebreo Giuseppe Ottolenghi.
Un altro importante uomo politico di origini ebraica fu Ernesto Nathan, sindaco di Roma dal 1909 al 1913. Nathan nel 1915, a 70 anni suonati si arruolò volontario e combatté al Col di Lana. Duecento ebrei parteciparono alla Marcia su Roma; Aldo Finzi fu sottosegretario fascista nel primo governo Mussolini.
Erano ebrei i maggiori dirigenti del Psi a inizio Novecento: Claudio Treves, Emanuele Modigliani, Anna Kuliscioff; i fratelli Rosselli, Carlo e Nello, trucidati da Mussolini nel 1937 in Francia. Fu ebreo anche Umberto Terracini, fondatore con Gramsci del Pci. Erano ebrei anche due medaglie d’oro della resistenza: Eugenio Cùriel e il filosofo Eugenio Colorni.
8 settembre 1943
La svolta che porta gli ebrei italiani alla catastrofe avviene con l’8 settembre del ’43 quando tutti gli ebrei in Italia dovettero contare sui vicini di casa, sui conoscenti o su perfetti sconosciuti che li nascosero o li accampagnarono oltre confine. Altri italiani invece dettero la caccia agli ebrei assecondando fascisti e nazisti (taglie).
La prima azione antigiudaica dei nazisti occupatori fu la retata nel ghetto di Roma (16 ottobre ‘43) con la debole reazione vaticana. Il 3 novembre gli ebrei di Genova sono arrestati con un’altra operazione fulminea.
30 novembre ’43
Altro momento di svolta: il 30 novembre ’43 la RSI ordina di arrestare tutti gli ebrei e di sequestrare i loro beni. A questo punto tutti gli ebrei sono fuorilegge e sono passibili di arresto immediato e detenzione in campo di concentramento. Retata nel ghetto di Venezia (5 dicembre).
Tutti gli ebrei in Italia sono a rischio e devono far perdere le proprie tracce.
La polizia italiana arresta gli ebrei, i tedeschi li deportano (prima a Fossoli, poi a Bolzano dalla metà del ‘44).
Sommersi e salvati
Sui 34.000 presenti in Italia nel ’43 (6mila erano precedentemente emigrati), 7.869 furono deportati nei campi di sterminio e 7.000 perirono. Si salvarono solo 800 persone, tra di loro nessun bambino. 303 persone furono uccise in Italia: Meina, Fosse Ardeatine e Risiera.
Si salvarono 23.500 ebrei. La percentuale di sopravvissuti fu alta grazie alla attiva partecipazione italiana alle operazioni di soccorso. Gli 11.000 ebrei romani (dopo la razzia) furono salvati negli edifici del clero.
Chi aiutò gli ebrei?
Ad agire a favore degli ebrei furono in primis le famiglie ariane imparentate (se c’erano) oppure amici, conoscenti, colleghi di lavoro, persone conosciute nell’ambito della propria attività lavorativa. In sostanza, tanto più si era conosciuti e apprezzati, quanto più c’erano speranze di sopravvivenza.
Talvolta invece l’aiuto arrivò da persone sconosciute. Chi non sapeva dove andare si rivolse ai parroci i quali a loro volta allertarono privati o istituzioni religiose.
Anche negli ospedali era possibile trovare rifugio, es. l’istituto psichiatrico Villa Turina Amione diretta dal dott. Carlo Angela a San Maurizio Canavese. Il dott. Angela (antifascista dal 1921) agì da solo nonostante avesse 70 anni e problemi di salute. Rischiò più volte di essere arrestato perché non mancavano i confidenti della polizia nel suo stesso istituto.
Per vivere nella clandestinità erano necessari un ricovero diverso rispetto al normale indirizzo e una nuova identità. I clandestini non potevano avere le tessere annonarie e quindi per mangiare dovevano confidare nelle persone che li aiutavano. Spesso chi fuggiva non aveva nulla, nemmeno i vestiti. Quindi in un’economia di guerra il sacrificio dei Giusti fu particolarmente importante.
Non solo gli ebrei italiani furono aiutati ma anche gli ebrei stranieri con percentuali di sopravvivenza che non hanno riscontro altrove in Europa.
La gamma degli interventi fu ampia: aiuto finanziario, occultamento dei beni degli ebrei, ricovero e cibo, espatrio in Svizzera.
I Giusti di Nonantola
In alcuni casi ad agire fu un’intera comunità come nel caso dei cittadini di Nonantola (Modena) che si prodigò per salvare una novantina di ragazzi con i loro accommpagnatori che nell’estate del ’42 raggiunsero Villa Emma.
Si trattava di ragazzi ebrei tedeschi che fuggivano dalle persecuzioni e giovani ebrei jugoslavi che sfuggivano alle brutalità degli ùstascia. L’obiettivo era raggiungere la Palestina. Ma dopo l’8 settembre non fu più possibile.
Prima furono nascosti in molte case e poi, con diversi viaggi e tentativi, quasi tutti entrarono in Svizzera.
I Giusti di Nonantola furono due: Giuseppe Morreali e don Arrigo Beccari. Furono loro a preparare i documenti falsi e a organizzare la fuga in Svizzera.
Talvolta protagonisti furono persone appartenenti a categorie che perseguitavano gli ebrei: carabinieri, finanzieri, podestà, funzionari di polizia, funzionari degli uffici stranieri delle questure di Roma e Fiume, perfino fascisti e antisemiti.
Il maresciallo dei carabinieri di Alba (Cuneo) Carlo Ravera, fu fondamentale per salvare 12 famiglie ebree profughe dalla Jugoslavia.
Anche Francesco Garofalo, podestà di una cittadina in provincia di Alessandria, riuscì a salvare alcuni ebrei provenienti da Genova presentandoli come suoi parenti. L’iniziativa di salvare gli Urman partì addirittura dal figlio Gabriele, diciassettenne e coivolse i genitori.
Potremmo dire che nell’opera di salvataggio tutte le classi sociali italiane sono rappresentate: in alcuni casi i salvatori erano aristocratici come il conte Luigi Perez di Verona che protesse per mesi un ebreo presentandolo come domestico.
Ruolo della Chiesa
Nonostante il silenzio della Chiesa sulle Leggi Razziali quando iniziò da parte tedesca e fascista la “caccia all’ebreo” il Vaticano aprì molti edifici per permettere agli ebrei di nascondersi: conventi, monasteri, orfanotrofi, seminari divennero nascondigli sicuri contro le ricorrenti retate. Non è un caso che molti Giusti d’Italia furono preti, frati, monache.
Si discute ancora molto se vi fu un ordine del Papa ad aprire le porte. Secondo Liliana Picciotto del Cdec non vi fu nessun ordine scritto, semplicemente furono aperte molte porte per chi aveva bisogno senza chiedere al carta d’identità
Monsignor Francesco Bertoglio
Tra di essi è opportuni ricordare monsignor Francesco Bertoglio, nato a Magenta, “Giusto fra le Nazioni” nel novembre del 2010. Monsignor Bertoglio salvò la vita a 65 ebrei di Roma accogliendoli nel Seminario Lombardo di Roma di cui era Rettore dopo il 16 ottobre del ‘43. Nel Seminario ospitò anche antifascisti.
I cinque Giusti fra le Nazioni di Magenta che hanno salvato i componenti della famiglia Molho verrano ricordati tra poco.
La storia di Giacomo Bassi
Tra le tante storie che si possono raccontare vorrei accennare a quella di Giacomo Bassi, segretario al municipio di Canegrate (vicino a Legnano), salvò cinque membri della famiglia Contente di Milano fornendo loro passaporti falsi e mettendoli in contatto con un falsificatore di timbri. Egli li nascose per 15 mesi nella scuola di San Giorgio su Legnano.
Primo Levi
In tanti altri casi i salvatori furono umili popolani come Lorenzo Perone che molto salvò la vita a Primo Levi ad Auschwitz dandogli del cibo e portando all’esterno alcune lettere di Levi alla famiglia.
Perone era ad Auschwitz come lavoratore civile nel ’42. Per sei mesi nel ’44 Levi e Perone fecero parte della stessa squadra di lavoro per la costruzione di un muro. Perone era piemontese come Levi.
Quasi tutti i giorni Perone portò a Levi del cibo e non fece mai mancare il suo incitamento a vivere. Più volte Levi scrisse che era sopravvissuto solo grazie a lui.
In “Se questo è un uomo” scrisse: “Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”. Perone è Giusto nel ‘98
Giorgio Perlasca
Giorgio Perlasca è il più noto e singolare tra i Giusti italiani. Fascista, volontario nelle guerre d’Etiopia e di Spagna ma ostile alle Leggi razziali e all’alleanza con la Germania.
Di mestiere commerciante di bestiame, nel 1944 si trovava a Budapest.
Rischiò la cattura da parte dei tedeschi perché non riconobbe il governo di Salò mantenendo il giuramento al re. In più i tedeschi volevano fargli pagare lo sgarbo di un treno di bestiame che lui annullò poco dopo l’8 settembre. Il convoglio doveva attraversare la Germania e Perlasca temeva che diventasse preda bellica.
Trovò rifugio nell’ambasciata di Spagna e si offrì di collaborare con l’ambasciatore, che di concerto con quelle di altri paesi neutrali (Svezia-Raoul Wallenberg, Svizzera-Carl Lutz, Vaticano-monsignor Angelo Rotta), si offriva di aiutare gli ebrei in edifici extraterritoriali e con lettere di protezione.
Si era rifugiato proprio nell’ambasciata di Spagna a Budapest perché in quanto combattente per la causa franchista, il generale Franco in persona gli aveva dato un documento grazie al quale poteva in ogni momento e in qualunque luogo chiedere protezione per sé a una ambasciata spagnola nel mondo.
Inizialmente il suo obiettivo era partire al più presto grazie alla cittadinanza spagnola che l’ambasciatore gli avrebbe dato.
Invece rimase perché vide con i suoi occhi quello che accadeva a Budapest: le violenze delle Croci Frecciate, centinaia di arresti, treni che partivano per Auschwitz. Anzi fu lui a imporre all’ambasciatore a usare i mezzi che aveva per aiutare gli ebrei.
Addirittura alla partenza dell’ambasciatore Sanz Briz decise di continuarne l’opera spacciandosi per il nuovo ambasciatore spagnolo (1 dicembre ’44 – 16 gennaio ’45 / arrivo dei sovietici). Letteralmente si era “inventata la carica di ambasciatore” (motivazione ufficiale per il riconoscimento dello Yad Vascem). Lui stesso ammise di aver raccontato “un sacco di balle” (L’”impostore”).
In qualunque momento Jorge Perlasca rischiò di essere smascherato e ucciso. Fu fortunato perché in quel contesto di disfacimento dello Stato delle Croci Frecciate anche le linee telefoniche erano bloccate.
Nonostante i gravi pericoli a livello personale moltiplicò le lettere di protezione, riempì le case protette, accorse per fronteggiare le aggressioni di SS e delle Croci Frecciate. Alla fine riuscì a salvare 5000 persone.
Paradossalmente fu un Giusto ex fascista che riuscì a salvare gli ebrei grazie al suo essere stato fascista in Etiopia e in Spagna.
Dopo la guerra riprese il suo lavoro e tentò di raccontare quanto aveva fatto, ma nessuno in Italia, in Spagna e in Ungheria mostrò interesse.
Si rivolse a De Gasperi, agli ebrei italiani e ungheresi, ma nessuno si ricordò di lui. Pesò in parte la sua collocazione politica: rimase sempre un uomo di destra. Ma soprattutto fu determinante la volontà collettiva di dimenticare quanto era accaduto, dimenticò anche chi aveva ricevuto del bene o addirittura era sopravvissuto grazie a lui.
Solo nel 1988 un gruppo di ebrei ungheresi da lui salvati si mise alla sua ricerca e lo trovò in un piccolo appartamento di Padova in compagnia della moglie.
Da quel momento ricevette molte attestazioni, tra cui quella di Giusto (1989). Morì nel 1992.
Giovanni Palatucci
Giovanni Palatucci è stato un poliziotto italiano, commissario di pubblica sicurezza. Medaglia d’oro al merito civile per aver salvato la vita a migliaia di ebrei e, per questo, anche nominato Giusto tra le nazioni.
Nel 1937 viene trasferito alla questura di Fiume (oggi Slovenia) come responsabile dell’ufficio stranieri e poi come commissario e vicequestore.
Dal ‘38-39 aiuta gli ebrei sfollati d’Europa che arrivano a Fiume. Dal ’40 gli ebrei stranieri a Fiume devono essere internati in Italia. Molti vengono trasferiti a Campagna (Salerno) dove lo zio è vescovo. Dal ’41 aiuta gli ebrei che arrivano a Fiume dalle diverse parti della Jugoslavia.
La sua azione in questo momento non va mai al di là della legge, ma non tutti i suoi colleghi avrebbero fatto le stesse cose.
Nel settembre 1943 Fiume, pur facente parte della Repubblica Sociale Italiana, di fatto entrò a far parte della cosiddetta Adriatisches Küstenland, ossia il “Territorio d’operazioni del Litorale Adriatico”, controllato direttamente dai nazisti per ragioni d’importanza strategica. Pur avvisato del pericolo che correva personalmente, decise di rimanere al suo posto, far scomparire gli archivi contenenti informazioni sugli ebrei fiumani e salvare più persone possibili avvisandole degli arresti. Nel ’44 diventa vicequestore.
Contattati i partigiani italiani, cercò di coordinare una soluzione politica post-bellica per il territorio di confine fiumano, proponendo l’istituzione di uno “Stato Libero di Fiume”, onde far sì che questo territorio, che correva il rischio di dover venir ceduto dall’Italia alla Jugoslavia, mantenesse la sua indipendenza.
Le spie tedesche però diedero informazioni sulla sua attività. Per contrastare ulteriormente l’azione dell’amministrazione nazista, vietò il rilascio di certificati alle autorità naziste se non su esplicita autorizzazione, così da poter aver notizia anticipata dei rastrellamenti e poterne dar avviso. Inoltre inviava relazioni ufficiali al governo della Repubblica Sociale Italiana, dalla quale formalmente Fiume dipendeva, pur essendo di fatto occupata e controllata direttamente dalle truppe naziste, per segnalare le continue vessazioni, le limitazioni nello svolgere le proprie attività ed il disarmo a cui i poliziotti italiani della questura di Fiume erano stati assoggettati dai tedeschi.
Il 13 settembre 1944 Palatucci viene arrestato da Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS, e tradotto nel carcere di Trieste. Il 22 ottobre viene trasferito a Dachau dove morì (febbre petecchiale) qualche mese prima della Liberazione (10 febbraio), a soli 36 anni.
Nel 1990 lo Yad Vashem lo giudica Giusto tra le Nazioni. Diventa Beato nel 2004.
Un calcolo approssimativo ha stimato in circa 5.000 il numero di persone che Giovanni Palatucci aiutò a salvarsi durante tutta la sua permanenza a Fiume (numero difficilmente valutabile).
Perché lo fecero?
Odoardo Focherini, nel Memoriale del museo di Carpi: ”Se aveste visto come me, in questa prigione, quello che gli ebrei hanno sofferto, il vostro unico rimpianto sarebbe stato quello di non averne potuto salvarne di più”.
Focherini era il direttore del giornale cattolico “L’avvenire d’Italia”. Fu arrestato nel marzo del ’44 e deportato in un lager. Morì a Hersbruck (Flossenburg) nel dicembre ’44.
Focherini diviene Giusto nel ’69.
“Lei, cosa avrebbe fatto al mio posto?”, Giorgio Perlasca a Enrico Deaglio (“La banalità del male”).
Quindi uno dei motivi del loro aiuto era la necessità di soccorrere chi soffriva così orribilmente al di là di possibili motivazioni politiche antifasciste presenti in poche persone.
Caso del tassista romano / “Portano via tutti i giudii!” (16 ottobre ’43) (Giorgio Debenedetti)
Un aiuto molteplice
Bisogna dire che in questi frangenti non furono salvati solo gli ebrei.
Parecchie categorie di persone erano in fuga dopo l’8 settembre: soldati e ufficiali italiani, antifascisti fuggiti dai vari luoghi di “confino”; soldati e ufficiali alleati fuggiti dai luoghi di reclusione. A questi è necessario aggiungere coloro che avevano perduto la casa a causa dei bombardamenti, coloro che fuggivano dalla linea del fronte, i primi partigiani…
C’erano quindi migliaia e migliaia di persone che chiedevano aiuto e ospitalità, probabilmente non si chiedeva la carta d’identità e questo spiega anche l’attiva opera di soccorso svolta dalla Chiesa: gli ebrei semplicemente bussarono alle porte di conventi.
Gli ariani se scoperti o denunciati non rischiavano la deportazione. Le autorità fasciste prevedevano il fermo, l’interrogatorio e l’ammonizione.
Ci fu la deportazione nei lager quando alla protezione degli ebrei si sommò un’attività di tipo antifascista: es. Giovanni Palatucci nella Questura di Fiume, Odoardo Focherini.
Perché i Giusti italiani sono pochi?
I 500 Giusti finora accertati sono molto pochi rispetto a tutti coloro che aiutarono gli ebrei. Perché così pochi?
Molti pensarono di aver fatto il proprio dovere oppure di non aver fatto niente di particolarmente importante. In altri casi l’ebreo salvato emigrò oppure rimosse le brutte esperienze. Probabilmente in quel contesto di miseria e di precarietà collettiva l’aiuto a chi era più sfortunato poteva sembrare legittimo e non particolmente meritorio.
“Ma cosa ho fatto di speciale? È stata poca cosa, e del tutto naturale. Voi, che cosa avreste fatto al mio posto?”
Italiani brava gente?
I Giusti non hanno riscattato con il loro comportamento il fascismo di Salò e neppure hanno confermato lo stereotipo dell’”italiano brava gente”, ma furono “Giusti per sé”.
Pochi di loro erano eroi oppure portati ad azioni pericolose. Si trattava di persone semplici, spesso digiune di politica.
Tra di loro c’era di tutto: maestri, ecclesiastici, donne di servizio, portinai, impiegati, funzionari pubblici, contrabbandieri, medici, militanti politici, artigiani, operai, contadini, capistazione, aristocratici… ci furono Giusti in ogni strato sociale e in ogni segmento di cultura.
Il Viale dei Giusti di tutto il Mondo a Milano (2003)
Con l’andare degli anni il concetto di Giusto si è allargato fino a comprendere persone che in contesti difficili, genocidi, pulizie etniche, guerre che colpivano sempre più i civili, hanno aiutato chi avrebbe dovuto appartenere al nemico.
Il 24 gennaio 2003, a Milano, in un’area del parco “Monte Stella”, è stato inaugurato il Giardino dei Giusti di tutto il Mondo, gestito da un’associazione appositamente costituita dal Comune di Milano insieme all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e al Comitato Foresta dei Giusti.
I primi alberi sono stati dedicati agli animatori dei primi “Giardini dei Giusti” nel mondo, a Gerusalemme, Yerevan e Sarajevo: Moshe (moise) Bejski per i Giusti della Shoah, Pietro Kuciukian in onore dei Giusti per gli armeni, Svetlana Broz per i Giusti contro la pulizia etnica in Jugoslavia.
Nel corso degli anni sono state onorate figure esemplari di resistenza morale in Rwanda, in America Latina, in Bosnia, nell’Europa oppressa dal nazismo e dal comunismo, in Tunisia, in Russia, in Iran. Oggi in totale sono 21 le persone ricordate a Milano.
A partire dal genocidio armeno (1915) fino agli orrori dell’ex Jugoslavia fino al nostro secolo il Giardino dei Giusti di tutto il Mondo permette sia una lezione di civiltà e una vera e propria immersione nei momenti più tragici della storia europea
Moshe Bejski
Nato nei pressi di Cracovia nel 1920, Moshe Bejski ha attraversato, da ebreo, il calvario dell’invasione nazista della Polonia.
Abbandonato dai vecchi amici polacchi, trovò sulla sua strada Oskar Schindler, l’unico tedesco che abbia avuto pietà di lui. Sfuggito così miracolosamente ad Auschwitz, alla fine della guerra emigrò in Israele, dove divenne giudice della Corte Costituzionale.
Nel 1963, dopo il clamore del processo Eichmann, a cui fornì la propria testimonianza, entrò a far parte della Commissione dei Giusti del Memoriale di Yad Vashem, a Gerusalemme, che ha poi presieduto per venticinque anni.
Mentre Simon Wiesenthal iniziava la caccia ai criminali nazisti, Moshe Bejski si dedicava alla valorizzazione degli uomini buoni, spesso scontrandosi con l’ingratitudine dei sopravvissuti e dovendo affrontare problemi morali a volte inestricabili nell’assegnare o negare il titolo di “Giusto tra le Nazioni”.
Pietro Kuciukian
Una delle figure più singolari che si sono prodigate per allargare il concetto di Giusto ad altre realtà tragiche della storia è Pietro Kuciukian, medico italiano di origine armena si è molto prodigato per creare un Comitato di Giusti per gli armeni (“Ricordare i non armeni che hanno aiutato gli armeni”).
Il genocidio degli armeni fu il primo del Novecento. Durante il Primo conflitto mondiale un milione di armeni fu massacrato dai turchi (1915-16). Questo genocidio non è stato ancora riconosciuto da Ankara.
Armin Wegner
In particolare Kuciukian ha fatto conoscere le fotografie scattate da Armin Wegner, tedesco inviato nel 1915 in Medioriente come ufficiale del servizio sanitario tedesco in seguito all’alleanza tra la Turchia e la Germania.
Wegner vide le colonne degli armeni dirette in Siria e in Mesopotamia e fotografò le infamie inflitte al popolo armeno. Riuscì a portare in Occidente le fotografie ma i suoi appelli anche al presidente Wilson caddero nel vuoto.
Kuciukian ha contribuito anche a riportare alla luce l’operato di Giacomo Gorrini che si prodigò per salvare centinaia di vite altrimenti destinate a scomparire durante le deportazioni.
Da notare che Armin Wegner fu insignito del titolo di Giusto a Gerusalemme per aver scritto una lettera a Hitler nel ’33 in cui condannava le prime persecuzioni contro gli ebrei.
Fu arrestato, picchiato e poi costretto ad andarsene dalla Germania (non era ebreo). Wegner non aveva salvato nessuno ma il suo esempio era importante.
Hrant Dink
Direttore responsabile di “Agos” (Il solco), giornale bilingue della comunità armena di Istanbul, si è battuto con determinazione per la ricerca del dialogo tra turchi ed armeni e tra Turchia e Armenia. Perseguitato dal famigerato art. 301 del codice penale turco, è stato condannato a sei mesi di prigione (con la condizionale) nell’ottobre del 2004 con l’accusa di “lesa turchicità”.
Il 19 gennaio 2007 è stato ucciso da un sicario all’uscita dalla sede di “Agos”. Il suo assassinio ha provocato un’ondata di indignazione nella società civile turca, che ha partecipato in massa al funerale, rivendicando la fratellanza tra turchi e armeni.
Dink sapeva di essere in pericolo, ma non aveva mai voluto cedere alla paura e abbandonare Istanbul. «Non lascerò questo paese», aveva dichiarato pochi mesi prima di essere ucciso in un’intervista alla Reuters, «se me ne andassi sentirei di avere lasciato da soli quanti combattono per la democrazia. Sarebbe un tradimento e non lo farò mai».
Svetlana Broz
Svetlana Broz, una delle figlie del maresciallo Tito, cardiologa di Belgrado, visse in prima persona il dramma della disgregazione dell’ex Jugoslavia portando soccorso ai tanti civili colpiti dalla violenza e dalle “pulizie etniche”. La sua esperinza inizia nel ’93 quando decide di andare a Sarajevo e di aiutare le persone coinvolte nella guerra civile senza guardare alla etnia o alla religione.
Per otto anni girò tutta la Jugoslavia per documentare gli atti di solidarietà tra persone di nazionalità diversa durante la guerra. Voleva preservare quel po’ di bene che era emerso durante la guerra per evitare che il ricordo della violenza occupasse tutto lo spazio. Voleva soprattutto che le nuove generazioni imparassero da questi episodi edificanti.
I nazionalisti cercarono di fermarla intimidendola. Per loro chi aveva combattuto i nemici era un eroe, chi li aveva aiutati era un traditore.
Dopo molti tentativi Svetlana è riuscita ad ottenere un terreno a Sarajevo da dedicare a tutti i Giusti dell’ex Jugoslavia in cui piantare degli alberi sull’esempio del Giardino dei Giusti di Gerusalemme. Ha creato anche un comitato per il conferimento del titolo a imitazione del lavoro svolto da Bejski.
Dusko Kondor
Coraggioso attivista dei diritti umani, nato in Bosnia Erzegovina, si è sempre impegnato nel campo dell’educazione dei giovani.
E’ stato brutalmente assassinato nel 2007, all’età di 60 anni, nella sua casa di Bijelina, in Bosnia. Doveva testimoniare a un processo contro i nazionalisti serbi, responsabili di un eccidio di musulmani di cui era stato testimone oculare negli anni della pulizia etnica.
La morte di Dusko Kondor – ha commentato uno dei suoi studenti – rappresenta una ferita insanabile per la Bosnia-Erzegovina, ma il suo insegnamento non andrà perduto: “Probabilmente, la cosa più importante che il professore ha fatto è stato creare un network di studenti, che adesso sono diventati amici. Lui ha messo in relazione giovani appartenenti a città, Stati, religioni e nazionalità diverse. Questa è la vera conquista, di valore inestimabile. Attraverso noi Dusko continuerà a vivere per sempre”.
Al suo funerale uno striscione proclamava: “Hanno ucciso il simbolo del coraggio civile, ma non possono uccidere la verità…Noi siamo tutti il Professor Kondor”.
Sophie Scholl
Sophie Scholl era una studentessa universitaria tedesca che ebbe il coraggio di prendere le distanze dal regime hitleriano. Insieme ai suoi amici fondò La Rosa Bianca, un piccolo gruppo studentesco che cercò di scuotere le coscienze dei propri concittadini in nome della libertà, contro la guerra d’aggressione del nazionalsocialismo, e fu una delle poche voci a levarsi in Germania contro il Terzo Reich.
Unica donna del gruppo, Sophie pagò con la vita l’appassionata difesa dei valori democratici in cui credeva.
Scoperta a Monaco dopo la denuncia di un bidello dell’università, venne arrestata e condannata a morte insieme ai suoi compagni nel 1943.
Alexander Solzenicyn
Scienziato e scrittore finito nel GULag nonostante la sua partecipazione alla guerra contro la Germania nazista nelle file dell’Armata Rossa, Solzenicyn acquista fama mondiale con la pubblicazione, autorizzata da Kruscev nel 1961, del racconto Una giornata di Ivan Denisovic, in cui illustra, per la prima volta, la vita di un uomo qualunque all’interno di un lager sovietico. Nuovamente perseguitato dal regime dopo la caduta di Kruscev, viene insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1970, ma ritirerà il premio solo nel 1975, un anno dopo essere stato arrestato e condannato all’esilio.
Tornato trionfalmente in patria dopo la caduta del comunismo, diventa la coscienza del Paese, che richiama ai valori autentici della cristianità.
Il capolavoro di Solzenicyn è Arcipelago GULag, particolareggiata e spietata denuncia delle repressioni di massa e dell’universo concentrazionario staliniano, il più duro atto d’accusa contro il sistema sovietico. Lo scrittore vuole dare voce a tutte le persone incontrate negli anni di detenzione, costruendo uno straordinario monumento alla memoria, un’opera collettiva che si è trasformata in una vera e propria enciclopedia del GULag.
Neda Agha Soltan
Iraniana, è morta il 20 giugno 2009 a soli 26 anni. Era una studentessa di filosofia. Tra le vie di Teheran manifestava senza velo il suo dissenso contro Ahmadinejad.
Il video della sua morte, che la mostra agonizzante tra le braccia dei soccorritori, ha fatto il giro del mondo su Internet contribuendo ad accrescere lo sdegno per le violenze dei miliziani iraniani contro i manifestanti.
Il giorno del suo funerale, il governo iraniano ha negato l’autorizzazione per le celebrazioni ma, nonostante il divieto, migliaia di persone si sono ritrovate in suo onore, nel centro di Teheran, sfidando polizia e Pasdran.
Khaled Abdul Wahab
Khaled Abdul Wahab è stato il primo arabo ad avere un dossier a Yad Vashem per l’assegnazione dell’onorificenza di “Giusto fra le Nazioni”. Altri musulmani sono stati nominati “Giusti”, soprattutto albanesi, ma nessun arabo.
Khaled Abdul Wahab era un musulmano tunisino di famiglia benestante e di forti tradizioni culturali.
Tra il 1942 e il 1943 si adoperò per nascondere gli ebrei e sottrarli alla persecuzione delle truppe d’occupazione naziste, allacciando rapporti rischiosi con gli ufficiali per carpirne la fiducia e ottenere informazioni utili a evitare le retate e a mettere in salvo i perseguitati.
Yad Vashem, dopo l’esame della documentazione nel 2009, non ha ritenuto di assegnargli il titolo di “Giusto” perché non avrebbe corso pericoli significativi. Per altri casi, invece, la Commissione dei Giusti ha valutato di conferire l’onorificenza anche in mancanza del requisito del rischio della vita. E’ in corso all’interno della Commissione un ampio dibattito sul punto, soprattutto in relazione alla configurazione dei requisiti indispensabili per la valutazione del riconoscimento.
Uno dei maggiori protagonisti di questo dibattito è stato il Presidente della Commissione, Moshe Bejski, raccontato nel libro di Gabriele Nissim Il Tribunale del Bene.
Anna Politkovskaja
Giornalista scomoda e coraggiosa, non ha mai indietreggiato di fronte alle minacce del potere per i suoi reportage scottanti sulla Cecenia, pubblicati su “Novaja Gazeta”, e l’allarme lanciato contro i tentativi di imbavagliare la stampa in Russia ad opera dei nuovi oligarchi, una volta caduto il comunismo.
Dopo un primo tentativo di avvelenamento sull’aereo che la sta portando a Berslan durante l’assedio dei terroristi alla scuola del villaggio, viene uccisa nell’androne di casa con le modalità di una vera e propria esecuzione.
I colpevoli, esecutori e mandanti, non sono mai stati rintracciati.
Pierantonio Costa
Legato all’Africa fin dall’adolescenza, imprenditore con una florida attività in Rwanda, rappresentante diplomatico per l’Italia, nei cento giorni della follia genocidaria che porta nel 1994 allo sterminio dei Tutsi ad opera dell’etnia Hutu, si prodiga con tutte le sue forze per strappare al massacro il maggior numero possibile di persone, in particolare bambini.
Mette a disposizione la sua energia, la sua conoscenza del Paese, dei luoghi, dei costumi, della mentalità, i suoi contatti e il suo denaro, ma soprattutto accetta di rischiare la vita perchè – ricorda – gli era impossibile rimanere indifferente o fingere di non poter far nulla.
Costa ha raccontato la sua avventura umana al giornalista Luciano Scalettari nel libro La lista del console.
Enrico Calamai
Diplomatico di carriera, si è trovato molto giovane ad affrontare situazioni difficili in America Latina, prima con il golpe di Pinochet in Cile contro Salvador Allende, poi con la tragedia dei desaparecidos in Argentina.
Mentre tutti cercavano di mettersi in salvo o di ritagliarsi posizioni più tranquille e defilate, Calamai si è speso personalmente, aiutato da uno sparuto drappello di amici e conoscenti, per mettere in salvo, dentro l’ambascita italiana e direttamente a casa sua, il maggior numero possibile di perseguitati, affrontando i generali golpisti con il solo, fragile scudo dei diritti riservati alle diplomazie.
Giancarlo Restelli