L’altra Resistenza. La Resistenza non armata

Una riflessione sul 25 Aprile tra passato e presente

Nel mio breve intervento vorrei mettere in evidenza alcune categorie di persone che a
buon diritto devono essere inserite tra le protagoniste della lotta resistenziale e poi
fare qualche considerazione su quello che accade oggi in Italia.
Quale immagine abbiamo maggiormente presente quando parliamo della
Liberazione d’Italia?
Sicuramente le sfilate dei partigiani nelle città liberate oppure
una delle tante fotografie nelle quali vediamo singoli partigiani pronti al
combattimento.
La guerra in montagna è stata una componente forte della lotta resistenziale che ha
coinvolto decine e decine di migliaia di italiani dall’8 settembre del ’43 fino al 25 Aprile
‘45.
I partigiani hanno scritto pagine epiche e innumerevoli sarebbero i fatti d’arme da
ricordare.
Eppure se ci fermassimo alla lotta partigiana in montagna o in città non avremmo un
quadro completo della Resistenza, che chiama in causa altre memorie oggi da
riscoprire e rivalutare.

La resistenza militare

Una di queste è rappresentata dai 650.000 militari italiani finiti nei campi di prigionia
tedeschi, dopo il disastro dell’8 settembre del ’43.

Qual è il legame con la Resistenza?

Con un coraggio che ancora oggi ci appare eroico la maggior parte dei nostri soldati
disse “No!” a ogni proposta di arruolamento nelle milizie di Salò che avrebbe
permesso loro di ritornare in Italia. Seppure educati nel fascismo i nostri ventenni
seppero dare una lezione di dignità a quella classe dirigente italiana che dal re ai
ministri del governo Badoglio non seppe far altro che fuggire davanti ai tedeschi
abbandonando un intero paese al disastro dell’8 settembre.

La Resistenza operaia

Un’altra forma di Resistenza al nazismo e al fascismo servo dei tedeschi fu la
straordinaria prova che dettero gli operai e le operaie del Nord con diverse ondate di
scioperi a partire dal marzo del ’43 fino alla Liberazione. Quest’anno ricorrono gli
ottant’anni dagli scioperi del ‘43.
Il livello delle lotte nelle fabbriche italiane non fu assolutamente eguagliato in nessun
altro paese europeo soggetto all’occupazione nazista (soprattutto nel marzo del ’44).
Eppure non era facile scioperare allora. Il rischio di deportazione nei lager nazisti era
molto forte per coloro che organizzavano gli scioperi oppure si esponevano più degli
altri nel tenere alto il morale dei lavoratori in lotta.

I deportati nei lager

Dei 24.000 “Triangoli Rossi” deportati nei campi di concentramento tedeschi più della
metà erano operai e operaie arrestati in seguito agli scioperi del ‘44 per poi essere
uccisi a Dachau, Mauthausen, Ravensbruck, Buchenwald … Gli assassinati con il
lavoro, le torture e la fame furono poco più di diecimila.
Anche i deportati in Germania meritano il nome di “resistenti” e anche loro scrissero
pagine significative lottando contro lo sfruttamento dei nazisti e dei padroni italiani
loro complici, pagando il desiderio di giustizia in fabbrica con l’internamento nei lager.

La Resistenza delle donne

Scrisse Arrigo Boldrini, il comandante Bulow: “Senza le donne noi (partigiani) non
avremmo fatto niente”. Ed è vero. Senza il contributo delle donne la Resistenza non
sarebbe riuscita a mettere le radici in Italia.
Le donne operarono con ruoli diversi e molteplici: dalle staffette alle partigiane
combattenti a rischio della propria vita e di quella dei famigliari.
Scrisse Ada Gobetti, moglie di Piero: “Nella Resistenza la donna fu presente ovunque:
sul campo di battaglia come sul luogo di lavoro, nel chiuso della prigione come nella
piazza o nell’intimità della casa. Non vi fu attività, lotta, organizzazione, collaborazione
a cui ella non partecipasse: come una spola in continuo movimento costruiva e teneva
insieme, muovendo instancabile, il tessuto sotterraneo della guerra partigiana”. Anche
questa è ancora oggi una memoria da rafforzare.

I renitenti alla leva

Sono giovani delle classi 1924-23 e 22 che il fascismo di Salò chiama nelle proprie
formazioni per combattere partigiani e anglo-americani.
Molti aderirono alla chiamata per paura o per convinzione fascista. Ma molte migliaia
presero la via della montagna e infoltirono i ranghi dei partigiani.
Con la loro scelta rifiutarono la guerra fascista a fianco dei tedeschi, si opposero a una
guerra che ogni giorno appariva sempre più disumana e aberrante.

Fecero una scelta che tanti giovani ucraini e russi dovrebbero fare nella
guerra in corso.
Ossia combattere il proprio paese con le sue stesse armi
opponendosi a tutti i governi in lotta in nome della pace, dell’internazionalismo contro
tutti i nazionalismi grandi e piccoli che mandano i giovani a scannarsi gli uni contro gli
altri.

I disertori
Ma il mio pensiero va anche alle decine di migliaia di giovani che disertarono prima
dall’esercito regio e poi dalle formazioni repubblichine dopo l’8 settembre.
Fecero una scelta coraggiosa e dignitosa. Disertare, ossia non combattere una guerra
imperialistica che avrebbe posto giovani contro giovani, operai italiani contro operai
russi, contadini italiani contro contadinijugoslavi e di altri paesi invasi dal nostro esercito.

Una scelta – la diserzione – che dovrebbe essere fatta da tutti i militari in
tutti i conflitti bellici che attualmente insanguinano il mondo.

La Resistenza dei civili
Ma c’è un’altra categoria di persone (la stragrande maggioranza degli italiani) che fu
umiliata dalla miseria e abbruttita dalle difficoltà quotidiane: i civili, ossia la gente
comune che non combatteva e cercava di sopravvivere.
I bombardamenti, la morte dei propri cari in guerra, le città campo di battaglia tra
tedeschi e anglo-americani fecero precipitare le condizioni di vita a livelli oggi
inimmaginabili. Solo i bombardamenti anglo-americani provocarono circa 64.000 morti
in tutta Italia.
Milano in tutta la guerra subì 60 incursioni aeree tra le quali i terribili bombardamenti
dell’agosto del ’43 che provocarono un migliaio di vittime.
Furono eroiche soprattutto le donne che per tanti mesi lavorarono per un salario di
fame, fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa per i propri figli a
casa, sempre con la paura del successivo bombardamento notturno e con il pensiero
costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
Quindi anche i civili “resistettero” alle tante tragedie collettive e familiari di quegli
anni con una dignità e tanto coraggio che poi trovarono ricettacolo nei tanti racconti
familiari del dopoguerra.

Partigiani combattenti in montagna e in città, operai e operaie che
scioperarono in pieno marzo del ’44, operai che furono deportati nel KZ,
donne che operarono nella Resistenza, donne che resistettero sotto i
bombardamenti, ex militari in Germania che dissero NO al fascismo di Salò, i
renitenti alla leva di Salò…
a tutte queste persone dobbiamo dire grazie dei loro
sacrifici!
Se tutti coloro che scrissero la storia in questo periodo potessero tornare tra
noi sono sicuro che proverebbero raccapriccio di fronte all’Italia di oggi.
Un Paese dove fascismo e razzismo trovano spazi quotidiani nelle istituzioni e nella
vita civile.
Un Paese – l’Italia – che lascia morire in mare migliaia di uomini, donne e bambini.
Sono 45.000 dal 2000 ad oggi nel Mediterraneo. Duemila morti l’anno.
E’ lo stesso mare in cui si bagnano ogni estate decine di milioni di turisti, le stesse
rotte solcate dai palazzoni multipiano delle navi da crociera.
Barconi e ombrelloni, naufraghi e croceristi … non lo si ripeterà mai abbastanza:
questa società ha fatto della barbarie un’abitudine quotidiana!
E per coloro che arrivano – dopo aver attraversato deserti, frontiere pericolose, mari
minacciosi – lunghi mesi in strutture italiane che potremmo benissimo definire lager di
detenzione. E poi – se non respinti nel loro Paese – una vita di sfruttamento nei campi,nell’edilizia, nella ristorazione, nelle fabbriche … in alloggi squallidi e sempre
circondati dal disprezzo o dall’indifferenza di una buona parte dei politici e di coloro
che li votano.
E prima di tentare di arrivare a Lampedusa molti di loro – uomini e donne – hanno
conosciuto gli orrori dei lager libici, ampiamente finanziati dagli ultimi governi italiani e
dalla “civile” Europa, che non è meno responsabile del nostro paese in tutte queste
tragedie.
L’Italia ormai è il paese dell’apartheid di fatto, con milioni di lavoratori di origine
straniera confinati nelle mansioni più ingrate e in regime di segregazione salariale.
Uomini e donne che ogni giorno devono fare i conti con le angherie dei permessi di
soggiorno e il calvario dei ricongiungimenti familiari.
Milioni di persone la cui miseria e precarietà è sotto gli occhi di tutti senza che alcun
partito si faccia carico per esempio del problema di case dignitose e di salari che non
siano sinonimo di sfruttamento bestiale.

Non si può accettare una società che ha fatto della barbarie una
consuetudine quotidiana!

L’Italia è un paese dove si muore sul lavoro come in nessun altro paese europeo e
dove corruzione e dilettantismo politico imperano. Un paese divorato da un’evasione
fiscale a dir poco colossale. Malato di sanità, con le culle vuote e la scuola allo
sbando… ma pregno di cinismo e ipocrisia.
Ripensando alla lotta partigiana nelle città e in montagna e alle tantissime persone
che hanno dato la propria vita alla Liberazione, vorrei terminare con una citazione di
Giorgio Agosti, partigiano azionista:
“Una volta al secolo, qualcosa di serio e di pulito (la Resistenza) può accadere anche
in questo Paese”.
Noi – nel nostro secolo – stiamo ancora aspettando – fiduciosi – di vedere qualcosa di
serio e di pulito… in Italia.
Grazie

Perché siamo contro il fascismo?

Buongiorno a tutti voi e grazie dell’invito. Un ringraziamento in particolare all’Amministrazione comunale e all’Anpi di Castellanza.

Il mio intervento ha per titolo: “Perché siamo contro il fascismo” e sarà un breve excursus storico dalle origini del fascismo fino al ’45.

Perché siamo contro il fascismo?

Il 2019 come sappiamo è il centenario della nascista dei Fasci di combattimento: Milano, Piazza San Sepolcro, 23 marzo del 1919. E’ un movimento che raccoglie tutti i delusi della “vittoria mutilata”: arditi, dannunziani, nazionalisti, ex-ufficiali che fanno fatica a riadattarsi alla vita borghese, disoccupati e tanti altri “spostati” si diceva un tempo.

Qual è la prima azione che compie il movimento di Mussolini? L’assalto alla sede milanese dell’Avanti il 15 aprile dello stesso anno (praticamente meno di un mese dalla nascita del fascismo). La sede del quotidiano del Psi fu assaltata, saccheggiata e resa inoperante per parecchi mesi.

Quindi fin dall’inizio il fascismo si connota per una forte opposizione al movimento operaio colpendo i simboli più significativi. Non è ancora la stagione dello squadrismo nero ma la strada è stata tracciata.

A partire dall’autunno del 1920 avviene una svolta decisiva: i proprietari terrieri della Valle Padana, dove più forte era stato il movimento socialista dei braccianti e mezzadri, rialzano la testa e cominciano a finanziare le camicie nere che avevano bisogno di parecchio denaro e di legittimazione politica per la loro guerra contro i “rossi”.

Grazie al denaro degli agrari nasce lo squadrismo nero fatto di olio di ricino e violenza che non si arresta neppure davanti alla morte dell’avversario.

Con vere e proprie tattiche e strategie militari gli squadristi di Cremona, Bologna, Ferrara, Ravenna… cominciano il rapido smantellamento delle organizzazioni operaie e bracciantili: sono conquistate e distrutte Case del Popolo, sedi di partiti politici, sedi della CGL, biblioteche popolari, circoli ricreativi …. Ne fanno le spese comunisti, socialisti, democratici, cattolici i quali non possono resistere alla marea nera perché gli apparati dello Stato sono dalla parte dei fascisti.

Quando i fascisti assaltano una sede politica comunista, socialista o cattolica polizia, carabinieri, esercito non ci sono mai oppure arrivano tardi. Oppure partecipano all’assalto in borghese o in divisa a fianco dei fascisti.

Contemporaneamente al fascismo agrario nasce il fascismo promosso dagli industriali del Nord Italia i quali guardano anche loro con simpatia a questo movimento che vuole riportare l’ordine nelle fabbriche facendo finire gli scioperi, le proteste dei lavoratori, le manifestazioni nelle piazze.

L’obiettivo degli industriali e’ riprendersi quanto avevano concesso ai lavoratori in termini di salario e migliori condizioni di lavoro nei due anni precedenti.

Finanziati dai più bei nomi dell’industria e del mondo bancario italiano i fascisti dilagano anche nelle grandi città del nord con le stesse tattiche utilizzate nelle campagne emiliane per smantellare pezzo su pezzo le organizzazioni dei “rossi”.

Già un anno e mezzo dopo (estate del 1922) rimane ben poco delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori.

Ecco perché siamo contro il fascismo: perché fin dall’inizio fu braccio armato al servizio dei padroni nella loro opera di ridimensionamento del movimento operaio italiano.

L’ordine nelle fabbriche e nelle campagne tornò complice l’instaurazione della dittatura con le Leggi fascistissime del 1926-27. E per i lavoratori volle dire l’impossibilità di fare riferimento a un sindacato, al proprio partito politico, in sostanza a un’organizzazione espressione degli interessi della classe operaia.

Non venne meno però la lotta di classe nel Ventennio, soprattutto dopo la crisi del ’29. Lotta di classe che il fascismo, braccio politico e armato della classe borghese, tentò vanamente di imbrigliare con il sindacato fascista.

E poi venne il Concordato Stato-Chiesa e Mussolini divenne l’”uomo della Provvidenza”. Anni dopo ci fu la conquista dell’Etiopia (1935-36) quando lo Stato fascista fondò l’Impero sui “colli fatali” di Roma uccidendo masse di etiopi con i gas e impedendo loro qualunque ribellione con l’istituzione di terribili campi di concentramento.

Negli stessi anni il fascismo aiutava il generale Franco nella sua lotta mortale contro la Spagna repubblicana e socialista. Forse non tutti sanno che Mussolini nel 1937 dette ordine più volte di bombardare Barcellona e le città più industrializzate della Catalogna: bombardamenti dell’aviazione legionaria che comportarono alcune migliaia di morti (?).

Forse non tutti sanno che quando l’aviazione nazista colpì Guernica (primavera del ’37) in funzioni di supporto c’erano anche aerei italiani.

Forse non tutti sanno che la Libia conquistata da Giolitti e persa durante la Grande Guerra fu riconquistata dal duo Graziani-Badoglio nei primi anni Trenta con terribili repressioni soprattutto in Cirenaica attuate dall’esercito e con l’istituzione di tremendi campi di concentramento che provocarono decine di migliaia di morti tra le popolazioni della Cirenaica e della Tripolitania.

E poi venne la seconda guerra mondiale nella quale morirono 400.000 soldati italiani, dalle montagne greco-albanesi alle pianure dell’Africa del nord fino all’inferno di ghiaccio della ritirata dalla Russia (gennaio ’43).

80.000 civili italiani morirono sotto i bombardamenti anglo-americani, 8mila ebrei italiani morirono ad Auschwitz, 10mila partigiani e antifascisti furono uccisi nei KZ, tantissimi altri italiani dovettero fare i conti con la fame e la denutrizione accanto al terrore dei bombardamenti e delle stragi naziste. Altri 10mila italiani trucidati da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema fino alle Ardeatine e in tante altre località minori vittime della ferocia nazista.

Sono da ricordare le durissime repressioni da parte dell’esercito italiano del movimento partigiano in Slovenia, Grecia e Montenegro che costarono al vita a decine di migliaia di uomini e donne di questi paesi. Anche qui il regime non esitò a incoraggiare l’incendio dei villaggi, le deportazioni dei civili e le fucilazioni sommarie accanto all’istituzione di campi di concentramento in Italia e Jugoslavia.

La lotta partigiana durata poco più di un anno e mezzo fu il riscatto di un paese che aveva inventato il fascismo e aveva assistito spesso con indifferenza alla tracotanza del regime.

Ecco perché siamo contro il fascismo! Non solamente perché il fascismo è stato dittatura e violenza, non solamente perché ha portato l’Italia in una guerra disastrosa, non solamente perché l’Italia si è alleata a uno dei regimi più sanguinari di tutta la storia (il nazismo).

Siamo antifascisti anche perché il fascismo è stato negazione delle libertà sindacali, delle libertà politiche, della dignità del lavoro. Il fascismo è stato durissima dittatura a solo vantaggio della classe dominante dell’epoca.

E oggi i lavoratori e i pensionati compatti devono dire no a qualunque risorgenza del fascismo altrimenti per tutti noi ci sarà solamente una lunga notte nella quale ogni diritto verrà negato.

Grazie!

Dal 25 luglio all’8 settembre 1943

Dal 25 luglio all’8 settembre

Il tema del mio intervento sono i 45 giorni dal 25 luglio all’8 settembre ‘43. E’ inutile dire che è un momento assolutamente importante nella seconda guerra mondiale italiana.

Il 10 luglio ‘43 gli alleati sbarcano in Sicilia. Molti a Roma temono o sono convinti che la guerra è perduta.

Il 19 luglio a Feltre incontro Hitler Mussolini. Bombardamento di San Lorenzo
A Feltre il duce appare impotente di fronte a Hitler. Mussolini dovrebbe chiedere il disimpegno dell’Italia nel conflitto ma non parla.
Nello stesso giorno gli alleati bombardano Roma. Il bombardamento di Roma (quartieri di San Lorenzo e Prenestino, 1.500 morti) dà una forte scossa al re e ai gerarchi fascisti che vogliono uscire dalla guerra.
Ricordiamo anche gli imponenti scioperi del marzo ‘43 che fanno temere in alcuni esponenti del regime una svolta comunista in Italia.

Mussolini voleva uscire dall’alleanza con i tedeschi? Non è possibile dirlo con certezza. Forse sì. Sicuramente fu superato dagli avvenimenti.

Due componenti della congiura contro Mussolini:
– la congiura dei gerarchi capitanata da Dino Grandi
– la congiura dei militari capitanata dal re

24 luglio
Alle 17.15 comincia la riunione del Gran Consiglio del Fascismo, 24 luglio, sabato. Mussolini tiene un discorso di due ore in cui attribuisce la colpa ai vertici militari. Nel suo intervento Mussolini ammette di essere l’”uomo più odiato d’Italia”.
Il discorso di Grandi è particolarmente duro: “Voi credete di avere la devozione del popolo. Voi l’avete perduta il giorno in cui avete legato l’Italia alla Germania. Voi vi credete un soldato. Lasciate che vi dica che l’Italia fu perduta il giorno in cui metteste i galloni di maresciallo sul berretto”.

Firmarono l’ordine del giorno Grandi 19 dei 28 presenti.
Votano a favore del documento Grandi i nomi più importanti del fascismo: De Bono, De Vecchi, Ciano, Alfieri, Bottai, De Stefani.

L’obiettivo di Grandi era il cambio della guardia tra il re e Mussolini alla guida dell’esercito sganciando l’Italia dalla guerra.
Secondo Grandi nel giro di poche ore l’esercito italiano avrebbe dovuto rivolgere le armi contro i tedeschi. Il re e Badoglio hanno invece paura della reazione tedesca.
Il cardinale Montini è informato e auspica anche lui il passaggio dei poteri dal fascismo alla monarchia per l’uscita dell’Italia dalla guerra. Il Vaticano vede bene un governo re-Badoglio
Industriali e finanza (Agnelli, Donegani, Falk, Volpi, Pirelli e Vittorio Cini) sono esasperati dalla situazione che si è venuta a creare. Vedono di buon grado il governo nelle mani del re e di Badoglio e quindi dei militari.
Nella caduta del regime non ha alcun ruolo l’antifascismo organizzato.

Il ruolo del re
A questo punto entrano in gioco il re e i militari. Grandi scompare dalla scena.
Mussolini chiede udienza al re alle ore 17 del 25. A quell’ora è già esautorato (nomina di Badoglio).
Mussolini è fiducioso, i gerarchi si sarebbero pentiti e il re non avrebbe agito contro di lui.
Il colloquio dura 20 minuti. Il re dice: “Le cose non vanno più… l’Italia è in tocchi, l’esercito è moralmente a terra, i soldati non vogliono più battersi, il voto del Gran Consiglio è tremendo”. Poi annuncia a Mussolini la sostituzione con Badoglio.
Quando Mussolini uscì fu preso in carico da ufficiali dei carabinieri, praticamente fu arrestato.

Il comunicato di Badoglio fu letto alle 22.45: “Attenzione, attenzione. Sua maestà il re e imperatore ha accolto le dimissioni presentate da Sua Eccellenza il cavalier Benito Mussolini e ha nominato capo del governo il cavalier, Maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio… La guerra continua. L’Italia mantiene fede alla parola data”.
In sostanza il fascismo è caduto ma la guerra continua!

IL PNF non esiste più
Nessuna reazione del partito e della milizia, anzi Scorza e Galbiati si mettono agli ordini di Badoglio. Raramente nella storia un regime era scomparso in questo modo così repentino, senza alcuna reazione. Un solo fascista si suicidò.
Vennero subito aboliti il partito fascista, il Gran Consiglio, la Camera dei fasci e delle corporazioni, il Tribunale speciale e leggi spiccatamente fasciste.
Rimasero le leggi razziali e gli elenchi degli ebrei (utili il 16 ottobre ‘43 nella razzia nel ghetto) per non inviperire i tedeschi.
La gente festeggia nelle strade perché è convinta che la guerra sia finita.

Una circolare Roatta ordina però l’esercito a intervenire ad “alzo zero” contro i manifestanti. Un centinaio di vittime in tutta Italia.
C’è il timore nella nuova classe dirigente che i comunisti possano prendere terreno. Anche gli anglo-americani temono la rabbia della popolazione italiana.

I 45 giorni. I primi contatti con gli Alleati
I primi contatti con gli anglo-americani avvengono in modo confuso con due missioni in Portogallo e Spagna di diplomatici di scarsa importanza. Badoglio ha paura della reazione tedesca e quindi il tentativo di avere un contatto con gli Alleati va per le lunghe.
Nel frattempo il re e Badoglio non danno alcuna nuova direttiva al Comando supremo e allo Stato Maggiore dell’esercito per orientare i comandi verso un eventuale armistizio con gli anglo-americani. Pesa molto in tutto questo quello che lo storico Klinkhammer ha chiamato “Il mito della Werhmacht”.
Intanto i tedeschi fanno affluire dal Brennero molte divisioni. Erano 8 prima del 25 luglio, diventeranno 21 con l’8 settembre.
Gli alleati avrebbero voluto molto prima il ribaltamento delle alleanze. Ora in Italia le forze tedesche sono temibili.

Il generale Castellano (uomo di Ambrosio) ha un primo contatto solo il 19 di agosto con gli Alleati. Il luogo scelto è Madrid. Castellano però non solo non è autorizzato a firmare nulla. Castellano torna a Roma in treno il 27 agosto!

I bombardamenti sull’Italia
In attesa che Badoglio firmi l’armistizio gli alleati continuano i bombardamenti sull’Italia come previsto da tempo. Milano, Torino (distruzione degli apparati industriali e del centro storico) e Genova (il porto) nell’agosto ‘43 subiscono pesanti distruzioni.

Cassibile, 3 settembre
Il 3 settembre a Cassibile, alla presenza di Einsenhower, il generale Castellano firma l’ ”armistizio corto”.
Nel frattempo Badoglio mantiene un assoluto segreto sulla firma dell’armistizio il 3 settembre.
Addirittura proprio il 3 settembre Badoglio convoca una riunione con i ministri de Courten (Marina), Sorice (Guerra) e Sandalli (Aeronautica) e avverte che sono in corso trattative mentre Castellano aveva già firmato in quelle ore!

La Memoria O.P. 44
La prima direttiva in qualche modo legata all’imminente armistizio fu la “Memoria O.P. 44” diramata tra il 2 e il 5 settembre ma solo ai comandi dello Stato Maggiore operanti in Italia.
L’impostazione è prettamente difensiva (reagire solo in caso di attacco tedesco) e non faceva alcun cenno all’armistizio firmato il 3 settembre.

La speranza di Badoglio è passare da un’alleanza all’altra in modo indolore, che gli americani liberino Roma e vincano la reazione tedesca senza mettere a repentaglio l’esercito italiano e la continuità dello Stato.

Badoglio annuncia l’armistizio
Nel pomeriggio del 8 settembre Einsenhower legge alla radio il testo dell’armistizio, poche ore dopo anche Badoglio deve annunciare la resa: “… ogni atto di ostilità contro le forze angloam. deve cessare … esse (le forze italiane) però reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza” (quest’ultima frase fu aggiunta per insistenza di E.).
Lo sbarco a Salerno avviene il 9 settembre, troppo lontano da Roma.

La fuga del governo e lo sfascio dell’esercito
Gli americani non hanno le forze per prendere Roma e salvare il re al Quirinale.
A questo punto il re aveva due possibilità: o la resistenza armata o la fuga.
Scelse la seconda.
La decisione di fuggire senza lasciare ordini precisi fu voluta dal re per evitare quanto più possibile scontri con i tedeschi.
Non vi fu neppure il tentativo di difendere Roma nonostante nella capitale ci fossero 6 divisioni italiane contro 2 tedesche.

Il re fugge il 9 sett. (ore 5 del mattino). Fuggono anche Ambrosio e Roatta.
Il corteo di macchine fu fermato dai tedeschi per un controllo ma non fu arrestato.
Kesselring non aveva alcun interesse ad arrestare il re, ciò avrebbe mobilitato l’esercito italiano che si stava scomponendo in quelle ore a ritmo vertiginoso.

Lo sfascio dell’esercito
Il risultato fu il caos e lo sbandamento dell’esercito. Molti generali e ufficiali rimasti senza ordini furono i primi a scappare seguiti subito dai soldati. Il timore di una violenta reazione tedesca spiega quanto è successo.
Lo sbandamento riguardò l’esercito in Italia (24 divisioni). Lontano dall’Italia le truppe rimasero relativamente compatte (35 divisioni).

Certo non era facile da un giorno all’altro rivolgere le armi contro i propri alleati. Però ci furono reazioni armate spontanee che avrebbero potuto essere coordinate da Badoglio… ma Badoglio era in viaggio per Brindisi.
L’assoluta mancanza di ordini di alcun genere e il terrore di un intervento tedesco spiegano lo sfascio dell’esercito che avviene in modo incredibile nel giro di un giorno.
Il risultato furono circa 800.000 soldati internati nei campi militari in Germania e Polonia.

Lo sconcerto dei soldati,abbandonati dai propri ufficiali e finiti nelle mani dei tedeschi, può essere capito ascoltando questa testimonianza, che ben riflette quei giorni: “I nostri signori ufficiali, ci sono ancora quelli che usano la prudenza di prima, ancora non si rendono conto che sono stati loro che ci hanno abbandonato a questi passi ma ricordo ancora che io sono stato abbandonato il giorno 8/9/1943 da un vigliacco di capitano e da un lurido maresciallo dei carabinieri che mi hanno fatto cadere sotto i granfi tedeschi. Adesso pretendono da noi essere rispettati: io quando vedo ufficiali gli sputerei in faccia”.

Un partito rivoluzionario l’8 settembre?
Se ci fosse stato allora un partito rivoluzionario ben radicato nella classe operaia italiana! Non per fare la rivoluzione ma per approfittare di questa incredibile opportunità – centinaia di migliaia di sbandati con le loro armi senza sottovalutare la forza della classe operaia – per irrobustire il partito e metterlo nella condizione di influire sulla fine della guerra e prepararlo alle grandi battaglie del dopo-guerra.

Il settembre ‘43 ha molte affinità con la rotta di Caporetto quando nell’ottobre del ‘17 altre centinaia di soldati italiani furono travolti dall’offensiva austro-tedesca e diventarono sbandati. Nello stesso tempo la classe operaia di Torino e Milano in quell’autunno del ‘17 era sul piede di guerra.

Purtroppo nel ‘43 non poteva essere operativo in Italia il partito rivoluzionario perché gli internazionalisti del Pcd’I erano stati sconfitti negli anni venti dal fascismo e dallo stalinismo.

La resistenza dei militari
Ci furono episodi significativi di resistenza ai tedeschi: a Porta San Paolo (Roma) e
Cefalonia.
A Cefalonia dal 15 al 24 settembre si combatté duramente (7.500 morti tra cui 5.000 fucilati). A Corfù negli stessi giorni ci furono aspri combattimenti, nelle isole dell’Egeo altri scontri.
La Resistenza a Lero (isola del Dodecaneso) è ugualmente forte: sui 12.000 soldati italiani che presidiavano l’isola ne sopravvivono solo 1500 (16 novembre).

La reazione alleata allo sfascio dell’8 settembre fu prima di sorpresa e poi fu dura. La mancata difesa di Roma (sei divisioni contro due) fece perdere ogni fiducia nei confronti degli italiani e del loro esercito.

L’8 settembre – “morte della patria”?
L’8 settembre – “morte della patria” – nasce con De Felice e poi è fatto proprio da Galli della Loggia (“Autobiografia di una nazione”).
Ma l’8 settembre segna anche l’inizio della Resistenza con le prime bande armate formate da ex-militari che si danno alla macchia nel centro-nord dopo essere sfuggiti alle retate dei tedeschi e nell’impossibilità di tornare al casa. Il 9 settembre nasce il CLN a Roma.

Bilancio dell’8 settembre: 650.000 soldati ital. Internati in Germania e Polonia, 20.000 morti (fucilati, morti in combattimento), più enormi quantità di materiali bellici perdute. Negli stalag tedeschi moriranno circa 30.000-40.000 soldati.

Cervetto e Parodi nella Resistenza
Gli avvenimenti dell’8 settembre sono importanti anche in essi perché muovono i primi passi Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi, fondatori nel 1965 di L. C.
Il 25 luglio Cervetto (nato nel ‘27, aveva 16 anni!) – operaio all’ILVA di Savona – prende parte alle manifestazioni a Savona contro Mussolini. Dopo l’8 settembre Cervetto è partigiano nella Langa piemontese. Rimase ferito nel luglio del ‘44 guadagnandosi la Croce al merito.
Nel frattempo rifiuta la “svolta di Salerno” di Togliatti e si avvicina al comunismo libertario. Dai GAAP (Gruppi Anarchici di Azione Proletaria) il lungo percorso fino all’approdo con LC (dicembre 1965).
Parodi aderisce agli scioperi del marzo ‘43 all’Ansaldo di Genova e nel ‘44 per evitare le deportazioni Parodi diventa partigiano nella Brigata SAP di Genova Nervi. Anche in Parodi è netto il rifiuto alla collaborazione di classe con la “svolta” togliattiana. Anche per lui la militanza nei GAAP accanto a Cervetto e poi anni dopo la fondazione di LC.

Quando a invadere l’Ucraina siamo stati noi

Gli italiani in Russia (1941-1943)

La campagna di Russia è sempre stata oggetto di un racconto a metà. In sintesi è come se fosse stata raccontata solo la ritirata e non l’andata.

Il racconto della ritirata permetteva una narrazione in cui gli italiani erano vittime delle circostanze di una guerra sfortunata.

La ritirata permetteva anche un racconto ricco di gesta eroiche, di sacrifici, di profonda pietà per le vittime nascondendo il disastro militare della ritirata dal Don e la guerra fascista.

Nessun commentatore ha mai messo in luce che gli italiani erano invasori e non vittime.

Ci aiuta in questa decostruzione della campagna di Russia un libro edito nel 2009 di Thomas Schlemmer, “Invasori, non vittime” nel quale l’autore mette in evidenza ciò che in Italia nessuno ha mai narrato.

  • le motivazioni imperialistiche di Mussolini e della classe dirigente fascista
  • il plauso degli ambienti industriali e bancari perché le conquiste avrebbero arricchito molti
  • il ruolo della chiesa italiana che benedice le armi
  • le draconiane disposizioni dei comandi italiani nella lotta antipartigiana
  • le violenze e le sopraffazioni dei soldati italiani nel ’41 e nel ’42 ai danni della popolazione civile, anche durante la ritirata

E’ un libro contrario a quel mito deleterio che accompagna gran parte delle ricostuzioni storiche del secondo conflitto secondo il quale gli italiani hanno fatto una guerra sfortunata rispettando sempre le popolazioni, anzi mostrando loro simpatia e bonomia. “Italiani, brava gente”, come in questo passo di Arrigo Petacco:

** Lettura, p. 81

Vediamo prima il contesto storico in cui avviene la campagna di Russia.


Hitler invade l’Urss
Non c’è stato storico che abbia affrontato queste vicende che non si sia chiesto quali siano stati i motivi che hanno spinto Hitler e Mussolini a volere l’invasione del territorio sovietico e che per entrambi sarà l’inizio della fine. Alcuni se la sono cavata dicendo che è stata follia o semplicemente un errore l’idea della conquista dell’Unione Sovietica. Le cose non stanno così.


All’inizio dell’estate del ’41 la Germania deve fare i conti con l’imprevista resistenza della Gran Bretagna nonostante la resa fulminea della Francia. C’è il rischio di un maggior coinvolgimento nel conflitto degli Stati Uniti fino all’impegno diretto nella guerra. Ad est incombe il pericolo russo nonostante il Patto di non aggressione tra Germania e Unione Sovietica firmato nell’agosto del ’39.

La guerra contro il bolscevismo quindi ha per la dirigenza nazista più significati:
– conquistare l’Unione Sovietica e mostrare un’altra volta al mondo l’efficacia dell’esercito tedesco
mettere le mani sulle enormi risorse del paese: petrolio, ferro, carbone, grano e decine di milioni di uomini (in realtà “sottouomini” per i nazisti) da schiavizzare
convincere la Gran Bretagna a scendere a patti dopo la vittoria su Stalin
– far fare alla Germania un grande salto di qualità e mantenere gli Stati Uniti fuori dalla guerra


Quindi l’ “Operazione Barbarossa” non fu un qualcosa di avventato e improvvisato. Hitler era consapevole dei rischi ma anche delle opportunità che ne sarebbero derivate dalla vittoria.


Le motivazioni di Mussolini
Perché Mussolini decide di far partecipare l’esercito italiano alla spedizione in Russia? Anche qui una pluralità di motivi che dovevano sembrare “ragionevoli” alla classe dirigente politico-militare del paese:
finora l’esercito italiano aveva rimediato sconfitte o brutte figure a cominciare dalle operazioni nella Francia alpina per arrivare alla campagna di Grecia e nell’Africa settentrionale. Una vittoria avrebbe cambiato tutto
la guerra in Russia sarebbe stata breve e facile a causa delle difficoltà strutturali del paese e del suo esercito
– la vittoria non poteva non arridere alla superiore razza “ariana” (tedeschi e italiani) rispetto alla barbara razza slava
una parte delle enormi risorse sovietiche sarebbero state affidate all’Italia, comprese alcune zone di occupazione militare
– Mussolini non voleva che slovacchi, ungheresi o romeni (che avevano inviato forti contingenti) insidiassero lo stretto rapporto dell’Italia con la Germania
– Se l’Italia non partecipava alla spedizione avrebbe avuto un ruolo minoritario nel Nuovo ordine germanico dell’Europa

In realtà la spedizione in Russia fu un errore strategico perché le tre divisioni impegnate nelle pianure russe furono tolte al fronte africano favorendo così la riorganizzazione dell’esercito inglese dopo l’intervento dell’ ”Africa-Korps” di Rommel.

Gli italiani in Russia: il CSIR
Appena iniziata l’ “Operazione Barbarossa” è approntato il CSIR (Corpo di spedizione italiano in Russia). E’ composto da 58.000 uomini con 2.900 ufficiali.
Attestato all’inizio sul fiume Dniepr (Ucraina centale) l’obiettivo più importante per il CSIR (definito dal comando tedesco) è l’occupazione della zona industriale di Stalino nel bacino del Donec. La presa della città avviene il 20 ottobre ‘41 dopo aspri combattimenti.

Stalino oggi è Donets ed è (era) una citta nell’oblast di di Donetsk. Aveva allora una grande importanza perchè sede di miniere di ferro e carbone con grandi aziende metallurgiche. Nel ’41 è il premio che Hitler attribuisce a Mussolini per la partecipazione italiana.

Oltre a Stalino il CSIR controlla anche la città di Rykovo, sempre nel bacino del Donetsk. Anche in questo caso era un importante nodo produttivo.

Ma quando l’anno dopo l’esercito italiano si situa lungo il Don le autorità italiane possono controllare una grande area con 265 città e 476.000 abitanti che va dall’Ucraina orientale al Don.

In caso di vittoria l’area di influenza italiana si sarebbe espansain tutta questa area.


Il CSIR aveva dotazioni solo per una guerra breve che doveva risolversi nel corso dell’estate o al massimo del primo autunno. Una guerra di logoramento non era stata presa in considerazione. Infatti il corpo d’armata italiano, oltre alle croniche carenze nel vestiario pesante, ha scarso armamento e munizionamento, un parco-automezzi povero, scarsa disponibilità di carburante, pochi anche i treni-rifornimento dall’Italia.

Alla fine del mandato le perdite del CSIR erano rilevanti: 1.633 morti, 7.858 feriti e congelati, 410 dispersi.


Nella primavera del ’42 sta nascendo l’ARMIR, cioè l’Ottava Armata italiana in Russia, forte di 10 divisioni e 229.000 uomini.

La tragedia dell’ARMIR
L’Ottava Armata fu mandata sul Don nel quadro della nuova strategia di Hitler per l’estate 1942, che prevedeva un grande attacco sul fronte sud con obiettivo Stalingrado (nodo strategico delle comunicazioni russe) e il Caucaso (ricco di petrolio).

Questa volta è lo stesso Hitler a richiedere l’intervento italiano, ben consapevole della debolezza dell’esercito tedesco dopo le terribili perdite in uomini e materiali dell’anno precedente.
Ne faceva parte il Corpo di spedizione alpino con tre divisioni (“Tridentina”, “Julia” e “Cuneense”) attrezzato per i combattimenti in montagna (era prevista la zona del Caucaso). Finì come sappiamo, accanto ad altre divisioni italiane, lungo il Don.

Per gli alpini il problema non era solo di ordine psicologico (la pianura al posto della montagna): il loro armamento era funzionale ai combattimenti in montagna. Pensiamo solo all’ “effetto” dei loro cannoncini e mortai da montagna sulle corrazzature dei T43 russi!


Le divisioni italiane reggono 270 chilometri di fronte. C’è un fante ogni sette metri! Questa è la densità delle forze italiane. Ci sono anche una trentina di carri italiani ”L6/40”, “scatolette” da tre tonnellate, più leggeri di un camion, che non servono a nulla. Rispetto ai poderosi T34 sovietici (ventotto tonnellate) paiono il simbolo dell’inadeguatezza dell’esercito italiano. Non ci sono armi controcarro. L’artiglieria è superata, manca quella semovente e scarsa è la contraerea.
In realtà il Comando italiano non aveva lesinato sulle forniture: l’ARMIR venne armata con quanto di meglio allora era disponibile, considerando che era per l’Italia il terzo anno di guerra. Il problema di fondo era la debolezza dell’industria italiana rispetto alle concorrenti.

Inizia la ritirata
L’offensiva russa per togliere l’assedio a Stalingrado e circondare le truppe tedesche con una poderosa manovra a tenaglia causa la rottura del fronte del Don a partire dall’11 dicembre del ’42.
In una prima fase a essere travolto è il Secondo corpo d’armata italiano debolmente ancorato alle sponde del fiume. I temibili carri sovietici passano sulla superficie ghiacciata portando scompiglio nelle retrovie italiane, l’aviazione bombarda sistematicamente i gangli del sistema difensivo italiano e la fanteria, che segue nell’avanzata i carri, occupa le postazioni italiane.
Successivamente arriverà il momento della “Julia”, “Tridentina” e “Cuneense” a partire dal 17 gennaio ’43 quando il corpo d’armata alpino è già accerchiato. L’ordine di ritirata è arrivato tardi nonostante la palese differenza di movimento tra i nostri soldati a piedi e le rapide avanzate dei carri sovietici e delle truppe russe supportate dai partigiani.

La battaglia di sfondamento di Nikolajevka
Per aprire la via verso le retrovie italo-tedesche i soldati italiani dovettero combattere più volte contro forze maggiori. Celebre è la battaglia di sfondamento di Nikolajevka, iniziata il 25 gennaio del ‘43, il più famoso fatto d’arme della ritirata.

I russi aspettavano al varco. Si combattè alla disperata con l’obiettivo di evitare l’annientamento. I combattenti più solidi furono gli alpini con reparti tedeschi. Anche questa volta gli italiani passarono ma a prezzo di numerosissime perdite.

L’armata scomparsa / le “marce del davai”
Dei 229.005 uomini (dato ufficiale) che si trovarono a combattere nell’ARMIR circa 90.000 non fecero ritorno. Se si tiene conto che attorno a 5.000caddero per i fatti d’arme antecedenti all’11 dicembre1942 (inizio della controffensiva russa), le perdite della ritirata furono di 85.000 uomini, dei quali 25.000 morirono combattendo o di stenti durante la ritirata e 70.000 furono fatti prigionieri.


Solo circa 10.000 sopravvissuti furono restituiti dall’Unione Sovietica a fine conflitto!

Eppure in Italia nacque – grazie al PCI – il mito del bravo soldato russo che aveva in molti casi aiutato i soldati italiani. Non è così.

Dei 70.000 prigionieri, 22.000 non arrivarono neppure ai campi di prigionia, 38.000 morirono di fame di di freddo nei lager. Solo 10.000 tornarono a casa ma parecchi anni dopo il ’45.

Una tragedia che il PCI di Togliatti cercò sempre di minimizzare e far dimenticare.

Italiani brava gente. Una guerra pulita?

La propaganda fascista insiste molto sulla “innata umanità” del soldato italiano, figlio di una “millenaria civiltà” rispetto al barbaro russo, reso ancora più brutale dal comunismo.

In realtà invece:

  1. La guerra contro l’U. S. è una guerra di sterminio e le truppe italiane ne sono complici. I commissari politici e gli ebrei nelle zone di occupazione italiana devono essere consegnati ai tedeschi
  2. Le truppe italiane vedono le violenze quotidiane ma non intervengono. Spesso gli alti comandi sono i primi a incentivare le violenze alle quali il soldato italiano deve attenersi
  3. Nelle proprie zone di controllo le truppe italiane procedono a requisizioni di ogni genere: dal legname al grano, dagli animali macellabili al sequestro delle case in cui alloggiare i soldati. In prossimità del fronte i civili devono essere evacuati

** Lettura, p.53-54

  1. Carabinieri e milizie collaborazioniste procedono a quotidiani rastrellamenti a caccia di spie e partigiani. Reparti italiani fucilano partigiani ed elementi sospetti. Spesso sono coinvolte anche le popolazioni civili con distruzione di case e interi villaggi. In alcune aree tedeschi e italiani agiscono insieme
  2. E’ falsa anche l’idea che i soldati fraternizzarono con i civili. Le disposizioni degli alti comandi erano contrarie a rapporti stretti con i civili. In ogni caso i civili sono descritti nelle lettere a casa come barbari, brutti, sporchi, pieni di pidocchi, cattivi, traditori, malvagi, codardi…
  3. E’ falsa anche l’idea che i primi a fraternizzare con i soldati furono i civili ucraini e russi. Se mostrarono simpatia era solo per sopravvivere. Difficile immaginare che gli italiani invasori fossero simpatici
  4. E’ falsa anche il presunto rispetto dei soldati italiani verso i soldati russi. La propaganda italiana descriveva i soldati avversari come bruti privi di qualunque moralità. Le presunte efferatezze ai danni dei soldati italiani eccitavano l’istinto di vendetta
  5. Di fronte alle violenze contro gli ebrei il soldato italiano è indifferente. Le violenze dei tedeschi non provocano pietà o altro
  6. Finita la guerra invece si dirà che i soldati italiani avrebbero sempre disapprovato e qualche volta reso manifesta la loro repulsione verso le violenze contro gli ebrei (“il cattivo tedesco” contro il “buon italiano”)
  7. E’ falsa anche l’idea che i soldati italiani abbiano combattuto malvolentieri non capendo i motivi della guerra nazi-fascista. In realtà da documenti e lettere si evince che i soldati (in maggioranza) avevano assimilato la propaganda tedesca e italiana per cui i civili erano barbari e violenti, gli ebrei-comunisti da annientare.
  8. In molte lettere l’invasione è una guerra giusta per liberare la Russia dalla cancrena del giudaismo comunista, per liberare il popolo russo e l’intera Europa dalla “peste rossa”
  9. L’entusiasmo per la campagna durò fino al rovescio della rotta dal Don. Poi i toni mutarono repentinamente
  10. Anche la Chiesa di Roma ebbe parte attiva nella campagna militare benedicendo le truppe in partenza e motivando i soldati alla guerra con i cappellani militari. Spesso si invoca il mito della crociata contro il bolscevismo
  11. I soldati italiani sono anche razziatori che condannano le popolazioni alla fame
  12. I prigionieri di guerra – nelle zone controllate dal Regio Esercito – sono messi a lavorare per le truppe di occupazione con alimentazione inferiore del 50% rispetto al soldato italiano (1600 kc).
  13. Nacquero così campi di concentramento italiani(furono circa 9.000 i prigionieri russi). Nei campi tedeschi erano indubbiamente peggiori le condizioni di vita. Durante la ritirata molti prigionieri vennero fucilati da reparti italiani
  14. E’ falsa anche l’idea di una presunta inimicizia tra italiani e tedeschi fin dall’inizio delle operazioni. Fino alla ritirata i rapporti furono buoni e improntati a reciproco rispetto. Poi le cose degenerarono, ma non per tutti i soldati e gli ufficiali italiani e tedeschi
  15. Durante la ritirata vi furono indubbiamente violenze e prevaricazioni contro gli italiani.
  16. I tedeschi volevano mettere in salvo i loro soldati ancora capaci di combattere e le loro armi migliori. Gli italiani erano stati giudicati come non più capaci di essere di nuovo operativi
  17. Nella memorialistica la ritirata coincide solamente con le prevaricazioni tedesche.
  18. Ci furono al contrario anche numerosi episodi di cameratismo e collaborazione tra i soldati dei due eserciti
  19. Ci furono violenze da ambo le parti, ancheda parte di italiani contro tedeschi (!)
  20. E’ famosa la morte del generale tedesco Karl Eibl, comandante del XXIV Corpo d’Armata corazzato. Mentre era seduto sul cofano del cingolato fu raggiunto da una bomba a mano lanciata da un soldato italiano
  21. In Germania però non nacque una interpretazione della sconfitta in cui la colpa era degli italiani
  22. In Italia invece è dagli alti comandi dell’esercito che parte l’invito a raccogliere tutta la documentazione possibile su singoli episodi in cui mettere sul banco degli imputati i tedeschi.
  23. In questo modo si potevano nascondere le responsabilità del fallimento italiano e trovare nel “tedesco barbaro” il capro espiatorio delle proprie responsabilità
  24. A questo punto i rapporti sono rovesciati: l’alleato diventa il “nemico da odiare” mentre il barbaro russo diventa l’ “unico amico del soldato italiano”
  25. Anche il mito del coraggio dei tre reparti alpini servì per nascondere i gravissimi errori dei loro comandi (generale Nasci)

Dopo l’8 settembre la nuova classe dirigente italiana (il re e Badoglio) lancia una campagna politico-propagandistica che rafforza il mito dell’eroismo dei soldati durante la ritirata e stigmatizza il comportamento dei tedeschi.

Ciò per tre motivi:

  1. Si voleva ritorcere contro i tedeschi le accuse di tradimento dopo l’8 settembre
  2. Incoraggiare la popolazione italiana a opporsi all’occupazione tedesca
  3. Mostrare agli Alleati anglo-americani che l’Italia era un partner affidabile per evitare che alla fine della guerra il Paese fosse penalizzato, come in effetti è accaduto

Quindi si sostituì alla guerra con i tedeschi la falsa memoria di una guerra in cui gli italiani apparivano sempre vittime e mai alleati con i germanici. Tutto ciò è arrivato intatto fino ad oggi.

Possiamo concludere dicendo che siamo stati vittime finora di una narrazione ideologica della campagna di Russia in cui la realtà dei fatti è stata capovolta consapevolmente o inconsapevolmente per fini politici.

Nostro compito è quello di sovvertire le false rappresentazioni al fine di liberare la memoria storica del passato da ogni forma di manipolazione.

Cento anni fa la marcia su Roma

La cultura al Rugby Sound di Legnano, ed. 2022

Cari amici,

leggo su un blog locale un’intervista al sindaco Radice il giorno dell’inaugurazione del Rugby Sound a Legnano.

“Quello che succede qua in questi dieci giorni è bellissimo perché è un modo per aggregare i giovani, di farli sentire nuovamente vivi in un modo che è sano, perché non dobbiamo aver paura della musica, del divertimento e della cultura”.

La cultura al Rugby Sound … Sinceramente mi sono sentito a disagio perché il sottoscritto – musicalmente parlando – è rimasto alla “Locomotiva” di Guccini e il disagio era in relazione a quanto mi sono perso in questi anni o decenni.

Per recuperare il tempo perduto ho dato un’occhiata ad alcuni testi dei protagonisti delle serate legnanesi.

La cultura del rispetto di genere

Canta Gemitaiz: “Scopi senza amore, sei una pornostar – Vuoi passare la notte con me – Poi scappare in hotel – Sopra una Ferrari rossa – Hai il mio cuore dentro la tua Hermes – Sali sopra di me”

Che rispetto per le donne e che modo delicato di parlare del sesso! Forse siamo sulla strada giusta per trovare la Cultura nel Rugby Sound!

La cultura dei soldi

Fabri Fibra: “E’ questo il mio inno, brutto figlio di puttana – Brutto figlio di puttana – Non lo faccio per i soldi, non lo faccio per la fama – Però ci provo gusto quando la major mi paga – Avanti a cazzo duro”

Anche qui il lettore noterà la finezza nel trattare un tema difficile quale il rapporto tra soldi, fama e rispetto per i detrattori. E che delicatezza di linguaggio…

La cultura dell’erba (quella dei pascoli?)

Cantano i Sud Sound System: “Erba erba voglio libera – erba erba buona e di qualità – erba erba la uso quando mi và (sic) – erba erba male non fa”

Anche qui quale delicatezza nel trattare temi ecologici che ci stanno a cuore! Ma perché dicono “la uso quando mi và”? Dobbiamo diventare erbivori per rispettare la natura? Qui confesso che non ho capito …

La cultura del rispetto per le forze dell’ordine

Il sindaco terminava la sua bella intervista a un giornalista piccolotto – che lo guardava con compunta ammirazione – ringraziando l’organizzazione, i volontari, la Polizia e altri.

Anche i Punkreas ringraziavano i poliziotti – a loro modo – con questa bella canzone: “Fratello poliziotto, dai fai la cosa giusta – puoi sempre riciclarti come ladro o come artista – puoi stringere un po’ i denti, lavorare come i maiali – o più semplicemente puoi andare a fare in culo!”

La cultura nera

I Lacuna Coil devono avere qualche problema con la vita quotidiana e con la vita in generale. Ecco alcuni titoli delle loro canzoni: “Anima nera”, “Apocalisse”, “Sortilegio”, “Tra le fiamme”, Arido cuore nero”, “Natale cattivo”, “Delirio”, “Crollo”.

La cultura dellirama (o delirante)

Se i Lacuna Coil potrebbero non rientrare in quell’augurio di Radice di “far sentire i giovani nuovamente vivi in un modo che è sano”, nessuna paura arriva Irama:

“Voglio chiudermi in un bar – poi spogliarti sulla metro – Fare a pugni con quel tram – Risvegliarmi senza un euro – Dai Navigli a Bogotà”

Più vivi di così! Fare a pugni con un tram!

Il Rugby Sound salva il mondo

Se qualcuno tra i miei 25 lettori avesse qualche ragionevole dubbio su questi esempi di ottima cultura, ascoltate che cosa cantano i Punkreas!!

“E pensare che la cannabis sativa – potrebbe risanare questo mondo alla deriva – potrebbe sopportare petrolio e derivati – la plastica e i farmaci cui siamo abituati – Solo per questo che è vietata, ai despoti non piace – la gente rilassata e l’energia pulita”

Questa è la vera cultura! Al servizio del mondo e per un mondo migliore. Il sindaco Radice sarà contento. Ma che c…o è la “cannabis sativa”?

La cultura del tasso alcolico e delle chiappe al vento

Forse il sindaco intendeva per cultura i fiumi di birra che scorrono ogni sera, al cui paragone l’Olona è un fiumicciattolo qualunque. Oppure intendeva fare riferimento a due balde giovanotte ammiccanti, scosciate e sculettanti (nel senso che le chiappe erano fuori) che davano a partecipanti un biglietto d’invito. Probabilmente era una conferenza colta sulla storia del mestiere più antico del mondo, argomento sul quale dovevano saperne parecchio (a mio modestissimo avviso).

Insomma che dire, mentre alla mia finestra arriva il rombo delle prove del concerto di questa sera?

Sindaco uno e due

Radice è lo stesso sindaco che qualche settimana fa si lamentava con Minelli (presidente Anpi Legnano) perché alla commemorazione della Mazzafame non c’erano i giovani.

E’ ovvio che se ai giovani dai la paccottiglia del Rugby Sound difficilmente li vedrai a una manifestazione civile.

Ed è lo stesso sindaco che partecipa con bei discorsi pieni di pathos alla Commemorazione della Franco Tosi, al Giorno della Memoria, al 25 Aprile, al 2 Giugno, al 4 Novembre …

“Voglio credere e investire sui giovani. Per questo il mio motto è quello di Don Milani: I care… prendiamoci cura degli altri, della nostra città, della comunità” (Lorenzo Radice).

Amen

Primo Minelli contro Carlo Borsani. Una fobia ipocrita

Cari amici,

leggo su vari social (fine aprile ‘22) le veementi parole di Primo Minelli (presidente Anpi Legnano) sulla manifestazione neofascista in ricordo di Carlo Borsani.

Sotto accusa è l’associazione “Legnano non dimentica”: Il corteo si è trasformato in una vergognosa parata fascista con tanto di tamburi, fiaccole e saluti romani. A pochi giorni dal 25 Aprile Legnano è stata infangata da questa vergognosa manifestazione”, così scrive Minelli con un linguaggio carico di forte astio.

Sarebbe il caso di abbassare i toni. Certe cose si possono dire anche con un linguaggio meno barricadero. Ma Minelli è un sanguigno quando vede fascisti intorno a sé.

Visto che la manifestazione per Borsani provoca sempre a Minelli un forte moto di stizza, vorrei dargli qualche consiglio (naturalmente non ascoltato):

– Andare al più presto dalle autorità competenti per denunciare “Legnano non dimentica”. Perché dovrebbero farlo altri? Scrive il presidente: “Chiediamo alle Autorità e alle Istituzioni diindividuare e di denunciare chi si è reso colpevole di aver violato la legge che fa divieto di apologia al fascismo” . Se la questione Borsani gli sta così a cuore, la denuncia la faccia lui. Così magari l’anno prossimo potremmo risparmiarci il suo nuovo comunicato.

– Aderire al progetto della Rete antifascista Altomilanese per togliere ogni riferimento a Borsani nella piazzetta a lui dedicata (è di fronte all’ingresso del Liceo Galilei in Viale Gorizia).

So che c’è questo progetto e inviterei Minelli a fare pressione sulla giunta Radice per impedire ai neofascisti di avere un punto di riferimento nella loro annuale manifestazione.

In realtà so che Minelli mai vorrà aderire a questa iniziativa che lo metterebbe nella difficile posizione di chi vuole creare problemi a Radice. E Radice mai vorrà mettesi contro il centro-destra legnanese per Borsani. E poi Radice è del PD, lo stesso partito di Minelli.

Se c’è un tratto comune dei vari presidenti Anpi Legnano in questi ultimi vent’anni è stato quello di avere buoni rapporti con tutti: Cozzi (Forza Italia), Vitali (Forza Italia), Centinaio (PD), Fratus (Lega Nord) e ora Radice. Mai l’Anpi Legnano ha creato problemi a qualcuno.

Anche quando stava crescendo la marea montante contro Fratus, Minelli lo invitava alle varie manifestazioni in calendario. Poi sappiamo che cosa è successo: arresto di Fratus e Cozzi con Minelli prudentemente silenzioso.

Nel corso degli ultimi quindici anni l’Anpi Legnano ha allontanato gruppi di giovani della Rete antifascista che avrebbero potuto ringiovanire la sezione e portare nuove idee. Soprattutto giovani capaci di parlare ad altri giovani.

Oggi la sezione è guidata da persone anziane dove l’età media è molto elevata. Sessantacinque – settant’anni, non esagero.

Paradossalmente la sinistra radicale è fatta di giovani ma in Via Menotti (sede Anpi Legnano) non entrano.

Ultima cosa. Se veramente Borsani è una memoria da estirpare da Legnano perché Minelli non si scaglia con la stessa verve contro l’Associarma di Legnano … sezione dedicata alla Medaglia d’Oro Carlo Borsani (!).

Minelli neppure ci pensa perché da anni l’amicizia con Antonio Cortese (presidente Associarma) è un fatto consolidato.

Spesso sono insieme, anche il 25 Aprile, il 2 Giugno o il 4 Novembre a celebrare insieme la “vittoria” italiana nella Grande Guerra, quella che fece tra i soldati italiani 650.000 morti, sull’attenti, compunti, al rimbombare del “Piave mormorò”.

Che dire? I problemi dell’Anpi Legnano saranno risolti sicuramente da Minelli che in fatto di comunicati minacciosi non è secondo a nessuno.

Risparmiateci però l’anno prossimo il solito comunicato da guerra civile simile ai precedenti! Abbiamo altro a cui pensare.

G. Restelli

25 Aprile 2022, Legnano

Quando la Storia è la prima vittima

Leggo su Legnanonews i discorsi dei tre relatori ufficiali del 25 Aprile a Legnano. E sinceramente mi vengono molte perplessità soprattutto a proposito dell’affermazione che dal 1945 l’Europa ha conosciuto solo la pace.

Umberto Silvestri (presidente del Consiglio comunale): “Si sta consumando (l’attuale guerra russo-ucraina, ndr) nella preoccupazione del mondo occidentale, e in particolare dell’Unione Europea, in Pace da oltre settant’anni, dopo aver subito nell’intero continente i due immani e devastanti conflitti mondiali esplosi nel corso del Novecento”.

Antonio Cortese (presidente Associarma Legnano): “Davamo la pace come valore ormai conquistato, assodato, scontato: invece stiamo comprendendo che la precarietà fa, purtroppo, parte anche di questo nostro presente”.

Ancora più esplicito Primo Minelli (presidente Anpi Legnano):“A 77 anni dalla fine della seconda guerra mondiale si risente nuovamente la parola guerra. Una parola che pensavamo di aver eliminato dalla storia”.

Anime belle!”, verrebbe da dire. Evidentemente durante la lunga guerra civile nell’ex-Jugoslavia (1991-1999) non erano in Europa oppure avevano altro da fare.

Non è il momento di ricostruire quanto accadde a pochi chilometri da Trieste e Gorizia ma tutti noi ricordiamo la ferocissima guerra dei serbi contro croati e bosniaci nei primi anni Novanta con episodi di “pulizia etnica” e stupri di massa che ancora oggi appaiono raccapriccianti.

La strage di Srebrenica? Era l’anno 1995 e in pochi giorni 8.000 bosniaci furono massacrati dalla soldataglia serba di fronte all’impotenza delle Nazioni Unite. E i bombardamenti su Belgrado di fine secolo? Con D’Alema, presidente del Consiglio, che li avallò con la partecipazione di aerei italiani e l’uso delle basi aeree italiane per i bombardamenti americani sulla capitale della Serbia.

Eravamo in pace da 77 anni!”. Fosse vero!

Minelli, Silvestri e Cortese hanno l’età per ricordarsi dei fatti di Ungheria ‘56 e Praga ‘68. Allora però nessuno intervenne contro le due invasioni dei carri armati dell’Unione Sovietica.

Ricordiamo anche la ribellione operaia di Berlino Est (1953) e di Poznan (1956) stroncate dalle forze armate sovietiche. Ricorderei anche la rivolta operaia a Danzica ai tempi di Solidarnosc (1981) con forti rischi di una nuova invasione sovietica.

I tre relatori dovrebbero ricordarsi dei timori di guerra in Europa al tempo della costruzione del Muro di Berlino (1961) , i missili a Cuba nel 1962 (con possibili riflessi in Europa) fino ad arrivare alla caduta del Muro (1989), la riunificazione della Germania (1990) e all’implosione dell’Unione Sovietica (1991).

Tutto questo è accaduto senza spargimenti di sangue. Ma fu per un insieme di eventi imprevedibili. In ogni caso poi ci fu la guerra nell’ex-Jugoslavia, l’espansione della NATO nell’est-europeo e le guerra della Russia di Putin (Cecenia e Georgia). Se ho dimenticato qualcosa mi scuso con i lettori.

Insomma, l’Europa in questi 77 anni ha conosciuto i timori di una guerra nucleare nell’ambito della Guerra Fredda, guerre devastanti nell’ex-Jugoslavia, insurrezioni popolari antisovietiche nell’est, cambiamenti geo-politici immani dopo l’89, il terrorismo islamico in Europa (il Bataclan? Lo ricordate?), l’allargamento della UE, l’espansione della NATO … mai l’Europa aveva subito tali cambiamenti ma …siamo stati in Pace (!).

Al contrario, potremmo dire che mai la guerra dal ‘45 in avanti, in varie forme, ha abbandonato l’Europa.

Altro aspetto. Ancora un po’ di pazienza per i miei 25 lettori. Mai una volta che il 25 Aprile si ricordi l’estrema importanza delle forze armate anglo-americane nella liberazione d’Italia.

Dico questo non perché sia filo-americano o filo-inglese (per carità!) ma solo per mettere i “puntini sulle i”.

Senza alcun accenno agli anglo-americani ne deriva che l’Italia è stata liberata solo dai partigiani. Un’affermazione che qualunque studente di terza media metterebbe in pregiudizio.

Dico tutto ciò senza mettere in dubbio neppure per un attimo il grande contributo a livello militare e di sangue dei nostri partigiani.

Sarebbe opportuno dare agli studenti, sempre tirati in ballo quali ”futuri custodi della Memoria storica” elementi oggettivi sui quali ricostruire gli avvenimenti storici. O no?

Che dire? Non frequento da tempo i discorsi in piazza perché infarciti di facile retorica comiziante e populista e di notevoli approssimazioni sul piano storico, spesso inconsapevoli.

Le amnesie di Minelli (presidente Anpi Legnano)

Leggo su sulla stampa legnanese (inizio gennaio ‘22) che l’Anpi di Legnano ha posto sette pietre d’inciampo all’ingresso della Franco Tosi per ricordare gli operai e i tecnici deportati nei lager nazisti dopo la retata nazista del 5 gennaio ‘44. Molto bene! Lodevole iniziativa.

Il problema è però la mancanza di un nome oltre ai sette, ed è quello di Paolo Cattaneo, tornitore alla Franco Tosi e membro della Commissione Interna dell’azienda.

C’è da dire una cosa: a differenza degli altri sette, Cattaneo sopravvisse all’inferno di Mauthausen.

E’ questo il motivo dell’esclusione? Suvvia, anche lui è stato deportato.

Ma allora perché non dedicare una pietra d’inciampo a Carlo Giovanni Ciapparelli? Anche lui tornitore alla Franco Tosi. Deceduto il 26 maggio del 1945 a Gusen (quindi a guerra finita).

Ciapparelli non faceva parte dei deportati del 5 gennaio? Infatti fu arrestato dalle autorità fasciste nel mese di marzo ‘44 in seguito agli scioperi che coinvolsero gran parte della classe operaia del Nord Italia.

A proposito dei due deportati “dimenticati”, vi faccio leggere la toccante lettera che qualche anno fa il figlio di Paolo Cattaneo ha scritto:

Il bello è che Minelli nel discorso ufficiale alla Tosi del 2019 diceva:

“Il ricordo di quegli eventi è tuttora vivo nella nostra città, basta leggere la commovente lettera inviata ai giornali dal figlio di Paolo Cattaneo, unico superstite alla deportazione degli operai F. Tosi, morto successivamente in seguito a quella drammatica esperienza…”

Che dire?

E che dire di Carlo Ciapparelli, legnanese, tornitore alla Tosi, deportato e ucciso a Gusen? Anche lui dimenticato…

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Con inguaribile ottimismo attendiamo ancora – fiduciosi – che Minelli espliciti i criteri da lui seguiti nella scelta dei deportati a cui attribuire la pietra d’inciampo.

Guerra e spostamenti di popolazioni nell’area alto-adriatica tra il 1919 e il 1956

Chi ha istituito il Giorno del Ricordo?

L’iniziativa è stata presa dal Parlamento italiano nel 2004 con l’adesione di tutti i partiti dell’epoca con gli unici voti contrari dei partiti dell’estrema sinistra: Rifondazione comunista e il Partito dei Comunisti italiani.

L’istituzione della legge è stata sicuramente una buona cosa. Fino a quel momento si trattava di vicende negate o poco conosciute in Italia.

La legge del 2004 ha obbligato gli italiani (almeno quelli che si occupano di storia e di memorie) a cercare di capire che cosa è accaduto al confine orientale d’Italia. Dal 2004 ci sono stati dibattiti, ricerche e pubblicazione di libri (a volte buoni) e articoli di giornale. C’è stato anche il tentativo di parlarne a scuola.

Nella legge però c’è una lacuna. Si accenna giustamente alla tragedia delle foibe e al dramma dell’esodo ma non c’è alcun accenno alla politica seguita dallo Stato italiano in Istria e Dalmazia dal 1918 fino al 1943-45.

E’ il tema della “Italianizzazione forzata” delle popolazioni slovene e croate, ossia la fascistizzazione della maggioranza slava nei territori ora italiani.

Esempio, l’imposizione della sola lingua italiana nelle scuole e negli uffici pubblici, l’italianizzazione dei nomi e cognomi slavi, la forte riduzione della proprietà contadina slava in Istria a vantaggio della proprietà italiana e tante altre leggi vessatorie.

Poi con l’invasione dell’esercito di Mussolini di Slovenia, Croazia e Montenegro, a partire dal 1941 fino al ‘43, dobbiamo parlare di veri e propri crimini di guerra commessi dall’esercito italiano e dalle formazioni militari fasciste.

Alla fine avremo decine di migliaia di vittime slovene e croate nei campi di concentramento italiani e vittime delle rappresaglie italiane in questi territori.

Anche se poteva essere formulata meglio, a mio parere questa legge era necessaria, perché era doveroso riconoscere e dare dignità alle vittime italiane dei crimini del nazionalismo jugoslavo (infoibamenti ed esodo forzato degli italiani) e alle vittime slave del nazionalismo italiano.

La Grande Guerra: fratture fra mondo slavo e mondo italiano

Il 24 maggio 1915 l’Italia monarchica iniziava le prime operazioni militari contro la monarchia austro-ungarica guidata dal vecchio imperatore Francesco Giuseppe. L’Italia era alleata con Francia, Russia e Gran Bretagna (Triplice Intesa) contro gli Imperi centrali (Germania e Impero austro-ungarico) e l’Impero ottomano.

Gli obiettivi di guerre erano stati definiti nel Patto di Londra firmato dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino il 24 aprile del ’15.

In esso si prevedeva che in caso di vittoria l’Italia ottenesse a nord il Trentino-Alto Adige fino allo spartiacque del Brennero. Ad est le acquisizioni territoriali avrebbero considerato Trieste, Gorizia, l’Istria, la Dalmazia settentrionale con Zara, Sebenico più alcune isole di fronte alle coste dalmate; alla Croazia la città di Fiume.

Da notare che il Patto fu tenuto segreto fino all’avvento al potere dei bolscevichi (comunisti) in Russia con la pubblicazione alla fine del ’17 dei trattati segreti firmati anche dalla Russia.

Quindi gli italiani entravano in guerra senza conoscere gli obiettivi della politica estera del proprio Paese. Neppure il Parlamento fu informato della firma del Patto.

Gli accordi di Londra svelavano la natura ideologica-propagandistica del mito di “Trento-Trieste redente”, ossia di una guerra voluta dal popolo italiano per “liberare i fratelli” trentini e triestini ancora “sotto il gioco” asburgico. Al contrario il Patto rivelava la volontà di decisa penetrazione imperialistica italiana nell’area balcanica, giudicata fondamentale nei nuovi equilibri geopolitici che sarebbero nati dopo la guerra.

Il costo di questa operazione saranno 650.000 morti, un numero ancora più alto di feriti e mutilati e profonde ferite in tante famiglie italiane e nell’intera società del nostro Paese.

Ma prima ancora dei giochi delle diplomazie segrete la guerra lungo l’Isonzo vide una prima grave frattura fra slavi e italiani perché a contrapporsi in ben undici battaglie saranno reparti italiani da una parte e reparti sloveni, croati e ungheresi dall’altra.

Il feldmaresciallo Svetozar Borojevic, comandante della V Armata (la “Isonzo Armee”) ben conosceva il valore dei soldati slavi che ora combattevano una duplice guerra: in fedeltà al loro imperatore ma anche contro gli italiani di cui conoscevano le mire sui loro territori.

Per i territori che poi diventeranno italiani a guerra finita iniziò il calvario fatto di fame, bombardamenti, disoccupazione di massa, spostamento coatto nei campi di concentramento italiani e austriaci delle popolazioni che vivevano lungo la linea di confine. Trieste fu bombardata più volte dall’aviazione italiana così come Gorizia fu completamente distrutta dall’avanzata del nostro esercito (agosto ’16).

Il nazionalismo slavo si organizza

L’inevitabile disgregazione dell’impero austro-ungarico nel corso della guerra, a causa delle numerose sconfitte contro i russi, favorì i primi progetti d’indipendenza del mondo slavo che temeva la vittoria italiana con la prevedibile espansione territoriale verso Slovenia e Croazia.

A fronte del collasso della monarchia asburgica nacque poco prima della fine della guerra (11 novembre 1918) il Consiglio Nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi che si pose in posizione antagonista di fronte alle pressioni italiane nell’imminenza della fine del conflitto, che avvenne il 4 novembre 1918.

Il Patto di Londra diventa inoperante

Da notare che le pretese slave erano sostenute in chiave antitedesca soprattutto da Francia e Stati Uniti. Era vero che la Germania era stata pesantemente sconfitta però nulla vietava nei decenni successivi un “ritorno” degli interessi tedeschi verso l’Adriatico e il mondo slavo.

Fu soprattutto il presidente americano Woodrow Wilson a porsi contro l’Italia in nome dell’autodecisione dei popoli e contro la fine della diplomazia segreta di cui il Patto di Londra era stato una macroscopica evidenza.

L’Italia di Vittorio Veneto si preparava a occupare militarmente un’area geografica di cui ignorava la storia, le tensioni, la complessità del panorama etnico e la volontà di rivalsa del mondo slavo rispetto alle pretese egemoniche del governo italiano.

Nel mondo politico italiano stavano prendendo piede i “falchi” del nazionalismo per cui gli interessi italiani avrebbero dovuto in ogni caso primeggiare.

Il Trattato di Rapallo e l’avventura fiumana

Dopo molte tensioni politico-militari tra l’Italia e il nuovo Stato degli Slavi del sud, il contenzioso sui nuovi territori fu risolto dal Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) firmato dall’Italia e dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.

In questo momento nacque la Venezia Giulia (denominazione fortemente carica di elementi nazionalistici) comprendendo Gorizia, Trieste, l’Istria, alcune isole dalmate e Zara. Mezzo milione di sloveni e croati entrarono a far parte del Regno d’Italia.

Quanti italiani? Quanti slavi?

Quanti erano nei nuovi territori coloro che appartenevano al gruppo linguistico italiano? Erano esattamente 200.000 individui corrispondenti al 58% del totale (censimento del 1921). Nel censimento di dieci anni prima erano il 36.5% , segno che una parte degli istriani di lingua croata si erano dichiarati italiani.

Il gruppo serbo-croato (censimento ’21) comprendeva il 26.3% della popolazione, quello sloveno il 13.8% più altre minoranze. La presenza italiana era più marcata lungo la costa istriana mentre nella campagna la componente slava era maggioritaria.

Questi dati non devono trarre in inganno e farci credere che la popolazione della Venezia Giulia fosse nettamente differenziata sul piano etnico-linguistico. Al contrario per secoli l’espressione migliore dell’area Alto Adriatica era il carattere mistilingue della popolazione all’interno della quale era normale parlare più lingue e dove le identità nazionali sfumavano confondendosi tra loro.

Furono i nazionalismi di fine Ottocento a porre una sorta di aut aut alle popolazioni “obbligandole” a scegliere da che parte stare. Il nazionalismo italiano e il nazionalismo sloveno-croato ebbero la responsabilità di lacerare un mondo dove contava soprattutto essere istriani parlanti il dialetto istroveneto… piuttosto che essere “italiani” o “slavi”.

Fiume, 12 settembre 1919

Mentre si stavano ridefinendo i nuovi equilibri l’impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio mise a nudo la debolezza dei nuovi poteri italiani nei territori appena conquistati.

Come è noto D’Annunzio con circa 2.600 uomini, provenienti per lo più dall’esercito italiano, occupò la città di Fiume (oggi Rijeca, Croazia) a partire dalla metà del settembre ’20. La città di Fiume non era stata considerata nel Patto di Londra (per l’idea, rivelatasi sbagliata, che l’Impero austro-ungarico non sarebbe caduto), ma ora il mito della “Vittoria mutilata” scaldava gli animi dei nazionalisti più accesi.

L’impresa dannunziana mise in evidenza la debolezza del governo di Roma incapace di porsi contro forme di sovversione che incontravano il favore di elementi del nazionalismo italiano.

Solo il vecchio Giolitti, dopo la firma del Trattato di Rapallo, trovò il modo di far sgombrare Fiume dall’ingombrante presenza del “vate” (Natale 1920).

Il “Fascismo di confine”

Nel frattempo il movimento di Mussolini fungeva da coagulo in quel torbido mondo dell’estrema destra italiana dove il nazionalismo diventava sempre più una pericolosa miscela infiammabile.

La minaccia slava e la paura nelle classi dominanti di una possibile vittoria dei comunisti (sull’onda degli entusiasmi suscitati dalla Rivoluzione d’Ottobre del ’17 in Russia) spiegano l’ampio consenso che il fascismo ebbe in terra giuliana già a partire dai primi mesi del 1920.

Finanziati dalla ricca imprenditorialità triestina e protetti da settori dell’esercito italiano e dalle forze dell’ordine, i fascisti compiono tra l’estate del 1920 fino alla Marcia su Roma un numero impressionante di azioni squadristiche dove le vittime dichiarate sono socialisti, comunisti, sindacalisti, democratici italiani e slavi. Case del Popolo, sedi politiche della sinistra, sedi di organizzazioni sindacali sono sistematicamente distrutte con il fuoco dopo aver ucciso o aggredito che si opponeva.

La distruzione del Narodni Dom

L’episodio più significativo della violenza fascista fu la distruzione del Narodni Dom a Trieste (13 luglio 1920). Il Narodni Dom (in sloveno “Casa del Popolo”) era un moderno edificio che sorgeva nel cuore di Trieste dove trovavano espressione le maggiori organizzazioni culturali e professionali degli sloveni in città. Da ricordare che a Trieste in questo momento gli sloveni sono il 25% della popolazione. Una minoranza sicuramente robusta!

Quel 13 luglio alcune colonne di fascisti circondarono il palazzo e poi l’incendiarono impedendo ai soccorsi di poter intervenire. La dinamica dei fatti è ancora parzialmente oscura ma è certo che i fascisti quel giorno volevano dare corso a violenze.

Il fascismo giuliano si connotò fin dall’inizio per posizioni di aperto razzismo nei confronti degli slavi che vivevano nella Venezia Giulia. A loro si attribuivano connotati di aperta inferiorità di fronte alla “millenaria civiltà italiana” di cui il fascismo si ergeva a strenuo difensore.

L’italianizzazione forzata della Venezia Giulia. Il “Fascismo di confine”

L’amministrazione dei territori della Venezia Giulia sarebbe durata esattamente venticinque anni (1918-1943), un lungo periodo nel quale l’Italia passò dallo Stato liberale a quello monarchico-fascista.

La continuità tra le due “italie” fu assicurata dal processo di “italianizzazione” forzata della popolazione di etnia slava. “Italianizzazione” nel senso di radicale assimilazione politico-culturale di tutti coloro che non appartenevano al gruppo italiano e in molti casi manifestavano aperta ostilità verso un potere sentito come estraneo alla propria identità.

Vediamo nel dettaglio gli aspetti principali della “snazionalizzazione” slava in Istria e nelle poche aree dalmate nelle quali vigeva l’autorità italiana.

  1. Arrivo di impiegati italiani e funzionari dello Stato estranei alla cultura slava e fortemente caratterizzati in senso nazionalista e razzista (presunta inferiorità dello slavo rispetto all’italiano)
  2. Tentativo riuscito di esclusione degli slavi dai posti di comando all’interno delle amministrazioni locali e provinciali
  3. Con la Riforma Gentile (1923) nella scuola istriana fu abolito l’insegnamento delle lingue slovena e croata. Tutti gli insegnanti sloveni e croati furono licenziati per assumere insegnanti italiani, che imposero a tutti gli studenti il solo uso della lingua italiana
  4. Furono imposti d’ufficio nomi italiani a tutte le località dei territori assegnati all’Italia (città, villaggi, fiumi, montagne…)
  5. Con la legge del 7 aprile 1926 le nuove autorità italianizzarono nomi e cognomi di migliaia di sloveni e croati. Anche i parroci slavi dovettero adeguarsi e non trascrivere nei registri parrocchiali nomi non italiani

Con questi e altri provvedimenti si cercava di cancellare la presenza di popolazioni non italiane all’interno dei nuovi confini. Con l’imposizione della sola lingua italiana, confinando le lingue slave alla sola dimensione domestica, si voleva estirpare nel giro di una-due generazioni una cultura e una identità che avevano caratterizzato per secoli popolazioni che abitavano l’Istria dalla caduta dell’Impero romano.

Non ci furono solo imposizioni di carattere politico-amministrativo. Nella fase dello squadrismo fascista (prima metà anni Venti) non si contarono le aggressioni, le violenze, gli omicidi di esponenti politici che tentavano di contrastare l’imposizione di una feroce dittatura.

Nel frattempo l’Istria degli anni Venti e Trenta era sempre di più un territorio periferico rispetto al resto della penisola italiana dove le poche industrie e la modeste attività economiche del territorio non contribuivano certo a lenire la miseria della popolazione slava.

Il “riformismo” fascista mostrava i propri limiti con la quasi assenza di iniziative di carattere sociale ed economico capaci di portare fuori l’Istria da una condizione di sottosviluppo.

Soprattutto le campagne soffrirono dell’abbandono dei pubblici poteri. Le città della costa invece, dove l’elemento italiano era prevalente, esprimevano una certa capacità – favorita dal regime – di sviluppo in campo commerciale e produttivo.

Per la propaganda di regime le due “istrie” mostravano chiaramente il carattere italiano, fascista e quindi “superiore” delle città costiere, mentre le campagne impoverite e sonnolente erano la “vera” espressione delle peggiori caratteristiche razziali dello slavo barbaro.

Qualche risultato si raggiunse in Istria costruendo strade, modernizzando la rete dei trasporti via mare, potenziando la rete idrica, valorizzando l’estrazione della bauxite e sviluppando le poche industrie presenti nella regione. Troppo poco per dare agli slavi un moderato benessere che sarebbe stato fondamentale per acquisire consenso verso l’Italia e il suo regime.

Alla fine degli anni Trenta, mentre la guerra era alle porte, il 40% della popolazione istriana era ancora di lingua e cultura slave. L’italianizzazione culturale e politica non aveva dato frutti, se non a livello superficiale. Anzi l’odio nei confronti degli italiani e di tutto quello che era italiano e fascista si erano radicati ancora di più all’interno di molte componenti slave della società istriana.

L’Istria nel 1939 era una “polveriera” pronta a deflagrare, ma nessuno a Roma come a Trieste sembrava accorgersene.

L’occupazione italiana della Jugoslavia (1941-43). I crimini di guerra

L’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940 segna l’inizio di un periodo tragico che si sarebbe concluso con la sconfitta del nostro Paese e centinaia di migliaia di vittime tra soldati e civili.

La guerra contro la Jugoslavia si risolse in poche settimane di fronte allo strapotere tedesco e all’appoggio militare italiano. Già a metà dell’aprile ‘41 il governo jugoslavo fu costretto ad fuggire dopo i terrificanti bombardamenti su Belgrado.

A questo punto il Regno jugoslavo fu smembrato tra tedeschi, italiani, bulgari e ungheresi.

Le nuove acquisizioni italiane

Il Regno d’Italia si assicurò una parte cospicua del territorio nemico con l’acquisizione della Slovenia meridionale, di buona parte della Dalmazia, del Montenegro mentre alcuni territori furono assicurati all’Albania, territorio nel quale l’Italia esercitava la giurisdizione.

Con il controllo di ampi territori della Grecia l’Italia mussoliniana poteva guardare con un certo ottimismo una guerra fino a quel momento avara di successi.

Nel frattempo nella Jugoslavia divisa brutalmente dai vincitori si stavano rapidamente preparando le condizioni di una sconvolgente guerra civile all’interno della quale l’Italia fu trascinata.

Infatti la dirigenza nazista creò anche lo Stato indipendente di Croazia, formalmente sotto il controllo italiano, dove il governo fu assunto da un movimento ipernazionalista guidato da Ante Pavelic, capo degli Ustascia (in lingua croata “insorgere”, “ribellarsi”) caratterizzato da una volontà genocida nei confronti delle minoranze serbe, bosniache, ebraiche e rom mentre le autorità italiane diventavano complici passive delle stragi.

Le vittime serbe furono a centinaia di migliaia, gli ebrei e le comunità zingare furono invece deportate nel terribile campo di concentramento di Jasenovac dove furono decimate.

L’occupazione italiana

Con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica (22 giugno 1941) si rafforzò nell’area jugoslava la resistenza comunista guidata da Josif Broz (Tito), che si svilupperà via via con gli anni della guerra mettendo sempre più in difficoltà il controllo del territorio da parte di tedeschi e italiani.

La risposta italiana all’intensificarsi delle azioni militari della resistenza comunista fu l’inasprimento delle misure di repressione temendo la perdita del territorio.

Fu il generale Mario Roatta, comandante della II Armata del Regio Esercito, a farsi carico della guerra al ribellismo partigiano.

Fondamentale per capire il modus operandi dei soldati italiani è la Circolare 3C (marzo ’42) che comprendeva i peggiori atti di brutale repressione ai danni della popolazione civile slovena, giudicata collusa con il movimento partigiano, con deportazioni di massa nei campi di concentramento di Arbe (Rab) e Gonars (Udine), fucilazione di ostaggi, incendi di abitazioni e villaggi nelle zone “infestate” dai partigiani.

Il criterio evocato nella circolare, a giustificazione delle violenze, era “una testa per ogni dente”, ossia una maggiore crudeltà italiana rispetto alle violenze dei gruppi partigiani. Alla fine le vittime furono alcune decine di migliaia.

Tito nazionalista

Da notare che il movimento di Tito all’interno del Fronte di Liberazione Sloveno propugnava un allargamento a ovest dei confini verso l’Italia facendo proprie le aspirazioni delle vecchie correnti del nazionalismo slavo. In particolare già nel ’43 alcuni documenti indicano l’Isonzo quale linea di confine con l’Italia. Trieste, Gorizia, l’Istria e la Dalmazia sarebbero state perse per sempre.

Una linea di espansione territoriale che il Partito Comunista di Togliatti avrebbe avallato presentando gli jugoslavi come i “liberatori” dei territori della Venezia Giulia.

La guerra italiana, le brutali sofferenze patite dal popolo jugoslavo, avevano riacceso il sogno di una grande Slovenia all’interno di un nuovo Stato jugoslavo controllato dai comunisti.

La stagione delle foibe e dell’esodo degli italiani era alle porte.

Le foibe

Chi fu ucciso nelle foibe?

In gran parte furono italiani delle terre di confine: istriani, dalmati, goriziani, triestini, fiumani. Ma anche sloveni e croati contrari alla politica di Tito. Le cifre le vedremo dopo.

Le vittime delle foibe furono uccise in due momenti diversi:

  • nel settembre-ottobre del ’43 al tempo delle cosiddette “foibe istriane” (subito dopo l’armistizio dell’ 8 settembre)
  • nel maggio-giugno del 45 quando il Movimento di Liberazione jugoslavo guidato da Tito occupò Trieste e la Venezia Giulia con l’obiettivo di annettere queste terre al neonato Stato jugoslavo

Perché furono uccisi?

Dobbiamo capire la logica seguita da Tito. Occupare stabilmente la Venezia Giulia e annetterla alla Jugoslavia voleva dire mettere nella condizione di non nuocere quella vasta categoria di italiani che mai avrebbe accettato che queste terre divenissero jugoslave (“epurazione preventiva”).

Quindi finirono nelle foibe:

– i militari delle Repubblica Sociale Italiana di Mussolini

  • poliziotti, carabinieri, guardia di finanza, ossia chi portava le armi
  • esponenti del defunto potere fascista
  • la classe dirigente italiana nelle sue varie articolazioni: giornalisti, insegnanti, sacerdoti, impiegati statali, politici anche democratici
  • dirigenti dei CLN contrari alla annessione alla Jugoslavia

Non tutti furono uccisi nelle foibe. In maggioranza nei campi di concentramento di Tito (es. Borovnica in Slovenia).

Furono uccisi non perché italiani ma perché “volevano l’Italia” (Raoul Pupo). La differenza è importante.

“I volonterosi carnefici” di Tito erano espressione di una “violenza politica” funzionale al progetto di totale controllo del territorio.

In sostanza Tito porta avanti un pianificato progetto di annessione nazionalistica dei territori della Venezia Giulia e per questo mette a tacere tutti coloro che sicuramente prima o poi si sarebbero opposti all’idea di Trieste città jugoslava.

Quali sono i numeri delle foibe?

Sui numeri si è sempre esercitata una vera e propria guerra.

– si va dai negazionisti che quantificano le vittime delle foibe in poche centinaia di fascisti (!)

  • le forze politiche di destra al contrario parlano di decine di migliaia di vittime (30.000 o oltre!)
  • Da qui l’uso di espressioni assolutamente fuori luogo quali “genocidio degli italiani”, “olocausto italiano”, “pulizia etnica” e simili

In realtà le vittime furono circa 5000-5500:

  • 600-700 nelle foibe dell’autunno del ’43 (Istria, Zara, Fiume)
  • 4500-5000 nelle foibe del ’45 (Gorizia, Trieste, Istria)

Le cifre scorporate città per città sono significative:

  • Gorizia 900 vittime
  • Fiume 650 vittime
  • Trieste 1500 vittime
  • Pola 500-600 vittime
  • Istria… non sapremo mai. Era territorio controllato dalle autorità jugoslave le quali non fornirono mai i numeri della repressione

L’esodo giuliano-dalmata

Per quanto riguarda l’esodo non c’è o quasi “guerra dei numeri”:

  • 350.000 secondo le associazioni degli esuli (es. l’associazione “Venezia Giulia e Dalmazia”)
  • 300.000 secondo le ricerche degli storici dell’università di Trieste
  • 200.000 secondo le autorità jugoslave dell’epoca

L’esodo delle popolazioni dell’Alto Adriatico durò dal 1944 al 1956:

Inizia con l’esodo da Zara nel ’44 quando stanno per entrare le truppe di Tito

– Nella primavera del ’45 è la volta di Fiume

– Il momento più drammatico è quando avviene l’esodo da Pola (inverno ’46-47) con 28mila partenti su una popolazione di 32mila abitanti.

– L’esodo termina quando anche la zona di Capodistria e Pirano (oggi Slovenia) diventa jugoslava nel 1956 e anche da lì alcune migliaia di italiani scelsero di lasciare le proprie terre ora jugoslave

In Italia furono accolti piuttosto male perché la guerra era finita da poco e l’Italia era distrutta. Ma c’era anche il pregiudizio politico per cui chi lasciava la Jugoslavia di Tito doveva essere per forza un fascista. Inutile dire che non era vero.

Pesò molto la campagna del PCI di Togliatti contro i profughi, che a mano a mano arrivavano in Italia, accusati di essere nazionalisti, fautori del passato regime e gente di malaffare.

Quindi, per concludere, il Giorno del Ricordo non deve essere una semplice ricorrenza nel calendario civile ma un momento in cui ricordiamo tanti italiani (ma anche sloveni e croati) che hanno subito violenze efferate (foibe e lager titini) mentre altri sono stati sradicati dalle loro terre (esodo) senza dimenticare le vittime slovene e croate dell’Italia fascista nel Ventennio e durante il secondo conflitto mondiale.

In questo come in tanti altri contesti, una memoria inclusiva è fondamentale.

Lampedusa, isola dei migranti

Cari amici, vi propongo un video che ho realizzato partecipando alla ricorrenza del 3 ottobre a Lampedusa (2020-2021) in ricordo del terribile naufragio del 3 ottobre del 2013.

Se vi piace, fatelo circolare. Grazie