Chi ha istituito il Giorno del Ricordo?
L’iniziativa è stata presa dal Parlamento italiano nel 2004 con l’adesione di tutti i partiti dell’epoca con gli unici voti contrari dei partiti dell’estrema sinistra: Rifondazione comunista e il Partito dei Comunisti italiani.
L’istituzione della legge è stata sicuramente una buona cosa. Fino a quel momento si trattava di vicende negate o poco conosciute in Italia.
La legge del 2004 ha obbligato gli italiani (almeno quelli che si occupano di storia e di memorie) a cercare di capire che cosa è accaduto al confine orientale d’Italia. Dal 2004 ci sono stati dibattiti, ricerche e pubblicazione di libri (a volte buoni) e articoli di giornale. C’è stato anche il tentativo di parlarne a scuola.
Nella legge però c’è una lacuna. Si accenna giustamente alla tragedia delle foibe e al dramma dell’esodo ma non c’è alcun accenno alla politica seguita dallo Stato italiano in Istria e Dalmazia dal 1918 fino al 1943-45.
E’ il tema della “Italianizzazione forzata” delle popolazioni slovene e croate, ossia la fascistizzazione della maggioranza slava nei territori ora italiani.
Esempio, l’imposizione della sola lingua italiana nelle scuole e negli uffici pubblici, l’italianizzazione dei nomi e cognomi slavi, la forte riduzione della proprietà contadina slava in Istria a vantaggio della proprietà italiana e tante altre leggi vessatorie.
Poi con l’invasione dell’esercito di Mussolini di Slovenia, Croazia e Montenegro, a partire dal 1941 fino al ‘43, dobbiamo parlare di veri e propri crimini di guerra commessi dall’esercito italiano e dalle formazioni militari fasciste.
Alla fine avremo decine di migliaia di vittime slovene e croate nei campi di concentramento italiani e vittime delle rappresaglie italiane in questi territori.
Anche se poteva essere formulata meglio, a mio parere questa legge era necessaria, perché era doveroso riconoscere e dare dignità alle vittime italiane dei crimini del nazionalismo jugoslavo (infoibamenti ed esodo forzato degli italiani) e alle vittime slave del nazionalismo italiano.
La Grande Guerra: fratture fra mondo slavo e mondo italiano
Il 24 maggio 1915 l’Italia monarchica iniziava le prime operazioni militari contro la monarchia austro-ungarica guidata dal vecchio imperatore Francesco Giuseppe. L’Italia era alleata con Francia, Russia e Gran Bretagna (Triplice Intesa) contro gli Imperi centrali (Germania e Impero austro-ungarico) e l’Impero ottomano.
Gli obiettivi di guerre erano stati definiti nel Patto di Londra firmato dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino il 24 aprile del ’15.
In esso si prevedeva che in caso di vittoria l’Italia ottenesse a nord il Trentino-Alto Adige fino allo spartiacque del Brennero. Ad est le acquisizioni territoriali avrebbero considerato Trieste, Gorizia, l’Istria, la Dalmazia settentrionale con Zara, Sebenico più alcune isole di fronte alle coste dalmate; alla Croazia la città di Fiume.
Da notare che il Patto fu tenuto segreto fino all’avvento al potere dei bolscevichi (comunisti) in Russia con la pubblicazione alla fine del ’17 dei trattati segreti firmati anche dalla Russia.
Quindi gli italiani entravano in guerra senza conoscere gli obiettivi della politica estera del proprio Paese. Neppure il Parlamento fu informato della firma del Patto.
Gli accordi di Londra svelavano la natura ideologica-propagandistica del mito di “Trento-Trieste redente”, ossia di una guerra voluta dal popolo italiano per “liberare i fratelli” trentini e triestini ancora “sotto il gioco” asburgico. Al contrario il Patto rivelava la volontà di decisa penetrazione imperialistica italiana nell’area balcanica, giudicata fondamentale nei nuovi equilibri geopolitici che sarebbero nati dopo la guerra.
Il costo di questa operazione saranno 650.000 morti, un numero ancora più alto di feriti e mutilati e profonde ferite in tante famiglie italiane e nell’intera società del nostro Paese.
Ma prima ancora dei giochi delle diplomazie segrete la guerra lungo l’Isonzo vide una prima grave frattura fra slavi e italiani perché a contrapporsi in ben undici battaglie saranno reparti italiani da una parte e reparti sloveni, croati e ungheresi dall’altra.
Il feldmaresciallo Svetozar Borojevic, comandante della V Armata (la “Isonzo Armee”) ben conosceva il valore dei soldati slavi che ora combattevano una duplice guerra: in fedeltà al loro imperatore ma anche contro gli italiani di cui conoscevano le mire sui loro territori.
Per i territori che poi diventeranno italiani a guerra finita iniziò il calvario fatto di fame, bombardamenti, disoccupazione di massa, spostamento coatto nei campi di concentramento italiani e austriaci delle popolazioni che vivevano lungo la linea di confine. Trieste fu bombardata più volte dall’aviazione italiana così come Gorizia fu completamente distrutta dall’avanzata del nostro esercito (agosto ’16).
Il nazionalismo slavo si organizza
L’inevitabile disgregazione dell’impero austro-ungarico nel corso della guerra, a causa delle numerose sconfitte contro i russi, favorì i primi progetti d’indipendenza del mondo slavo che temeva la vittoria italiana con la prevedibile espansione territoriale verso Slovenia e Croazia.
A fronte del collasso della monarchia asburgica nacque poco prima della fine della guerra (11 novembre 1918) il Consiglio Nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi che si pose in posizione antagonista di fronte alle pressioni italiane nell’imminenza della fine del conflitto, che avvenne il 4 novembre 1918.
Il Patto di Londra diventa inoperante
Da notare che le pretese slave erano sostenute in chiave antitedesca soprattutto da Francia e Stati Uniti. Era vero che la Germania era stata pesantemente sconfitta però nulla vietava nei decenni successivi un “ritorno” degli interessi tedeschi verso l’Adriatico e il mondo slavo.
Fu soprattutto il presidente americano Woodrow Wilson a porsi contro l’Italia in nome dell’autodecisione dei popoli e contro la fine della diplomazia segreta di cui il Patto di Londra era stato una macroscopica evidenza.
L’Italia di Vittorio Veneto si preparava a occupare militarmente un’area geografica di cui ignorava la storia, le tensioni, la complessità del panorama etnico e la volontà di rivalsa del mondo slavo rispetto alle pretese egemoniche del governo italiano.
Nel mondo politico italiano stavano prendendo piede i “falchi” del nazionalismo per cui gli interessi italiani avrebbero dovuto in ogni caso primeggiare.
Il Trattato di Rapallo e l’avventura fiumana
Dopo molte tensioni politico-militari tra l’Italia e il nuovo Stato degli Slavi del sud, il contenzioso sui nuovi territori fu risolto dal Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) firmato dall’Italia e dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
In questo momento nacque la Venezia Giulia (denominazione fortemente carica di elementi nazionalistici) comprendendo Gorizia, Trieste, l’Istria, alcune isole dalmate e Zara. Mezzo milione di sloveni e croati entrarono a far parte del Regno d’Italia.
Quanti italiani? Quanti slavi?
Quanti erano nei nuovi territori coloro che appartenevano al gruppo linguistico italiano? Erano esattamente 200.000 individui corrispondenti al 58% del totale (censimento del 1921). Nel censimento di dieci anni prima erano il 36.5% , segno che una parte degli istriani di lingua croata si erano dichiarati italiani.
Il gruppo serbo-croato (censimento ’21) comprendeva il 26.3% della popolazione, quello sloveno il 13.8% più altre minoranze. La presenza italiana era più marcata lungo la costa istriana mentre nella campagna la componente slava era maggioritaria.
Questi dati non devono trarre in inganno e farci credere che la popolazione della Venezia Giulia fosse nettamente differenziata sul piano etnico-linguistico. Al contrario per secoli l’espressione migliore dell’area Alto Adriatica era il carattere mistilingue della popolazione all’interno della quale era normale parlare più lingue e dove le identità nazionali sfumavano confondendosi tra loro.
Furono i nazionalismi di fine Ottocento a porre una sorta di aut aut alle popolazioni “obbligandole” a scegliere da che parte stare. Il nazionalismo italiano e il nazionalismo sloveno-croato ebbero la responsabilità di lacerare un mondo dove contava soprattutto essere istriani parlanti il dialetto istroveneto… piuttosto che essere “italiani” o “slavi”.
Fiume, 12 settembre 1919
Mentre si stavano ridefinendo i nuovi equilibri l’impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio mise a nudo la debolezza dei nuovi poteri italiani nei territori appena conquistati.
Come è noto D’Annunzio con circa 2.600 uomini, provenienti per lo più dall’esercito italiano, occupò la città di Fiume (oggi Rijeca, Croazia) a partire dalla metà del settembre ’20. La città di Fiume non era stata considerata nel Patto di Londra (per l’idea, rivelatasi sbagliata, che l’Impero austro-ungarico non sarebbe caduto), ma ora il mito della “Vittoria mutilata” scaldava gli animi dei nazionalisti più accesi.
L’impresa dannunziana mise in evidenza la debolezza del governo di Roma incapace di porsi contro forme di sovversione che incontravano il favore di elementi del nazionalismo italiano.
Solo il vecchio Giolitti, dopo la firma del Trattato di Rapallo, trovò il modo di far sgombrare Fiume dall’ingombrante presenza del “vate” (Natale 1920).
Il “Fascismo di confine”
Nel frattempo il movimento di Mussolini fungeva da coagulo in quel torbido mondo dell’estrema destra italiana dove il nazionalismo diventava sempre più una pericolosa miscela infiammabile.
La minaccia slava e la paura nelle classi dominanti di una possibile vittoria dei comunisti (sull’onda degli entusiasmi suscitati dalla Rivoluzione d’Ottobre del ’17 in Russia) spiegano l’ampio consenso che il fascismo ebbe in terra giuliana già a partire dai primi mesi del 1920.
Finanziati dalla ricca imprenditorialità triestina e protetti da settori dell’esercito italiano e dalle forze dell’ordine, i fascisti compiono tra l’estate del 1920 fino alla Marcia su Roma un numero impressionante di azioni squadristiche dove le vittime dichiarate sono socialisti, comunisti, sindacalisti, democratici italiani e slavi. Case del Popolo, sedi politiche della sinistra, sedi di organizzazioni sindacali sono sistematicamente distrutte con il fuoco dopo aver ucciso o aggredito che si opponeva.
La distruzione del Narodni Dom
L’episodio più significativo della violenza fascista fu la distruzione del Narodni Dom a Trieste (13 luglio 1920). Il Narodni Dom (in sloveno “Casa del Popolo”) era un moderno edificio che sorgeva nel cuore di Trieste dove trovavano espressione le maggiori organizzazioni culturali e professionali degli sloveni in città. Da ricordare che a Trieste in questo momento gli sloveni sono il 25% della popolazione. Una minoranza sicuramente robusta!
Quel 13 luglio alcune colonne di fascisti circondarono il palazzo e poi l’incendiarono impedendo ai soccorsi di poter intervenire. La dinamica dei fatti è ancora parzialmente oscura ma è certo che i fascisti quel giorno volevano dare corso a violenze.
Il fascismo giuliano si connotò fin dall’inizio per posizioni di aperto razzismo nei confronti degli slavi che vivevano nella Venezia Giulia. A loro si attribuivano connotati di aperta inferiorità di fronte alla “millenaria civiltà italiana” di cui il fascismo si ergeva a strenuo difensore.
L’italianizzazione forzata della Venezia Giulia. Il “Fascismo di confine”
L’amministrazione dei territori della Venezia Giulia sarebbe durata esattamente venticinque anni (1918-1943), un lungo periodo nel quale l’Italia passò dallo Stato liberale a quello monarchico-fascista.
La continuità tra le due “italie” fu assicurata dal processo di “italianizzazione” forzata della popolazione di etnia slava. “Italianizzazione” nel senso di radicale assimilazione politico-culturale di tutti coloro che non appartenevano al gruppo italiano e in molti casi manifestavano aperta ostilità verso un potere sentito come estraneo alla propria identità.
Vediamo nel dettaglio gli aspetti principali della “snazionalizzazione” slava in Istria e nelle poche aree dalmate nelle quali vigeva l’autorità italiana.
- Arrivo di impiegati italiani e funzionari dello Stato estranei alla cultura slava e fortemente caratterizzati in senso nazionalista e razzista (presunta inferiorità dello slavo rispetto all’italiano)
- Tentativo riuscito di esclusione degli slavi dai posti di comando all’interno delle amministrazioni locali e provinciali
- Con la Riforma Gentile (1923) nella scuola istriana fu abolito l’insegnamento delle lingue slovena e croata. Tutti gli insegnanti sloveni e croati furono licenziati per assumere insegnanti italiani, che imposero a tutti gli studenti il solo uso della lingua italiana
- Furono imposti d’ufficio nomi italiani a tutte le località dei territori assegnati all’Italia (città, villaggi, fiumi, montagne…)
- Con la legge del 7 aprile 1926 le nuove autorità italianizzarono nomi e cognomi di migliaia di sloveni e croati. Anche i parroci slavi dovettero adeguarsi e non trascrivere nei registri parrocchiali nomi non italiani
Con questi e altri provvedimenti si cercava di cancellare la presenza di popolazioni non italiane all’interno dei nuovi confini. Con l’imposizione della sola lingua italiana, confinando le lingue slave alla sola dimensione domestica, si voleva estirpare nel giro di una-due generazioni una cultura e una identità che avevano caratterizzato per secoli popolazioni che abitavano l’Istria dalla caduta dell’Impero romano.
Non ci furono solo imposizioni di carattere politico-amministrativo. Nella fase dello squadrismo fascista (prima metà anni Venti) non si contarono le aggressioni, le violenze, gli omicidi di esponenti politici che tentavano di contrastare l’imposizione di una feroce dittatura.
Nel frattempo l’Istria degli anni Venti e Trenta era sempre di più un territorio periferico rispetto al resto della penisola italiana dove le poche industrie e la modeste attività economiche del territorio non contribuivano certo a lenire la miseria della popolazione slava.
Il “riformismo” fascista mostrava i propri limiti con la quasi assenza di iniziative di carattere sociale ed economico capaci di portare fuori l’Istria da una condizione di sottosviluppo.
Soprattutto le campagne soffrirono dell’abbandono dei pubblici poteri. Le città della costa invece, dove l’elemento italiano era prevalente, esprimevano una certa capacità – favorita dal regime – di sviluppo in campo commerciale e produttivo.
Per la propaganda di regime le due “istrie” mostravano chiaramente il carattere italiano, fascista e quindi “superiore” delle città costiere, mentre le campagne impoverite e sonnolente erano la “vera” espressione delle peggiori caratteristiche razziali dello slavo barbaro.
Qualche risultato si raggiunse in Istria costruendo strade, modernizzando la rete dei trasporti via mare, potenziando la rete idrica, valorizzando l’estrazione della bauxite e sviluppando le poche industrie presenti nella regione. Troppo poco per dare agli slavi un moderato benessere che sarebbe stato fondamentale per acquisire consenso verso l’Italia e il suo regime.
Alla fine degli anni Trenta, mentre la guerra era alle porte, il 40% della popolazione istriana era ancora di lingua e cultura slave. L’italianizzazione culturale e politica non aveva dato frutti, se non a livello superficiale. Anzi l’odio nei confronti degli italiani e di tutto quello che era italiano e fascista si erano radicati ancora di più all’interno di molte componenti slave della società istriana.
L’Istria nel 1939 era una “polveriera” pronta a deflagrare, ma nessuno a Roma come a Trieste sembrava accorgersene.
L’occupazione italiana della Jugoslavia (1941-43). I crimini di guerra
L’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940 segna l’inizio di un periodo tragico che si sarebbe concluso con la sconfitta del nostro Paese e centinaia di migliaia di vittime tra soldati e civili.
La guerra contro la Jugoslavia si risolse in poche settimane di fronte allo strapotere tedesco e all’appoggio militare italiano. Già a metà dell’aprile ‘41 il governo jugoslavo fu costretto ad fuggire dopo i terrificanti bombardamenti su Belgrado.
A questo punto il Regno jugoslavo fu smembrato tra tedeschi, italiani, bulgari e ungheresi.
Le nuove acquisizioni italiane
Il Regno d’Italia si assicurò una parte cospicua del territorio nemico con l’acquisizione della Slovenia meridionale, di buona parte della Dalmazia, del Montenegro mentre alcuni territori furono assicurati all’Albania, territorio nel quale l’Italia esercitava la giurisdizione.
Con il controllo di ampi territori della Grecia l’Italia mussoliniana poteva guardare con un certo ottimismo una guerra fino a quel momento avara di successi.
Nel frattempo nella Jugoslavia divisa brutalmente dai vincitori si stavano rapidamente preparando le condizioni di una sconvolgente guerra civile all’interno della quale l’Italia fu trascinata.
Infatti la dirigenza nazista creò anche lo Stato indipendente di Croazia, formalmente sotto il controllo italiano, dove il governo fu assunto da un movimento ipernazionalista guidato da Ante Pavelic, capo degli Ustascia (in lingua croata “insorgere”, “ribellarsi”) caratterizzato da una volontà genocida nei confronti delle minoranze serbe, bosniache, ebraiche e rom mentre le autorità italiane diventavano complici passive delle stragi.
Le vittime serbe furono a centinaia di migliaia, gli ebrei e le comunità zingare furono invece deportate nel terribile campo di concentramento di Jasenovac dove furono decimate.
L’occupazione italiana
Con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica (22 giugno 1941) si rafforzò nell’area jugoslava la resistenza comunista guidata da Josif Broz (Tito), che si svilupperà via via con gli anni della guerra mettendo sempre più in difficoltà il controllo del territorio da parte di tedeschi e italiani.
La risposta italiana all’intensificarsi delle azioni militari della resistenza comunista fu l’inasprimento delle misure di repressione temendo la perdita del territorio.
Fu il generale Mario Roatta, comandante della II Armata del Regio Esercito, a farsi carico della guerra al ribellismo partigiano.
Fondamentale per capire il modus operandi dei soldati italiani è la Circolare 3C (marzo ’42) che comprendeva i peggiori atti di brutale repressione ai danni della popolazione civile slovena, giudicata collusa con il movimento partigiano, con deportazioni di massa nei campi di concentramento di Arbe (Rab) e Gonars (Udine), fucilazione di ostaggi, incendi di abitazioni e villaggi nelle zone “infestate” dai partigiani.
Il criterio evocato nella circolare, a giustificazione delle violenze, era “una testa per ogni dente”, ossia una maggiore crudeltà italiana rispetto alle violenze dei gruppi partigiani. Alla fine le vittime furono alcune decine di migliaia.
Tito nazionalista
Da notare che il movimento di Tito all’interno del Fronte di Liberazione Sloveno propugnava un allargamento a ovest dei confini verso l’Italia facendo proprie le aspirazioni delle vecchie correnti del nazionalismo slavo. In particolare già nel ’43 alcuni documenti indicano l’Isonzo quale linea di confine con l’Italia. Trieste, Gorizia, l’Istria e la Dalmazia sarebbero state perse per sempre.
Una linea di espansione territoriale che il Partito Comunista di Togliatti avrebbe avallato presentando gli jugoslavi come i “liberatori” dei territori della Venezia Giulia.
La guerra italiana, le brutali sofferenze patite dal popolo jugoslavo, avevano riacceso il sogno di una grande Slovenia all’interno di un nuovo Stato jugoslavo controllato dai comunisti.
La stagione delle foibe e dell’esodo degli italiani era alle porte.
Le foibe
Chi fu ucciso nelle foibe?
In gran parte furono italiani delle terre di confine: istriani, dalmati, goriziani, triestini, fiumani. Ma anche sloveni e croati contrari alla politica di Tito. Le cifre le vedremo dopo.
Le vittime delle foibe furono uccise in due momenti diversi:
- nel settembre-ottobre del ’43 al tempo delle cosiddette “foibe istriane” (subito dopo l’armistizio dell’ 8 settembre)
- nel maggio-giugno del 45 quando il Movimento di Liberazione jugoslavo guidato da Tito occupò Trieste e la Venezia Giulia con l’obiettivo di annettere queste terre al neonato Stato jugoslavo
Perché furono uccisi?
Dobbiamo capire la logica seguita da Tito. Occupare stabilmente la Venezia Giulia e annetterla alla Jugoslavia voleva dire mettere nella condizione di non nuocere quella vasta categoria di italiani che mai avrebbe accettato che queste terre divenissero jugoslave (“epurazione preventiva”).
Quindi finirono nelle foibe:
– i militari delle Repubblica Sociale Italiana di Mussolini
- poliziotti, carabinieri, guardia di finanza, ossia chi portava le armi
- esponenti del defunto potere fascista
- la classe dirigente italiana nelle sue varie articolazioni: giornalisti, insegnanti, sacerdoti, impiegati statali, politici anche democratici
- dirigenti dei CLN contrari alla annessione alla Jugoslavia
Non tutti furono uccisi nelle foibe. In maggioranza nei campi di concentramento di Tito (es. Borovnica in Slovenia).
Furono uccisi non perché italiani ma perché “volevano l’Italia” (Raoul Pupo). La differenza è importante.
“I volonterosi carnefici” di Tito erano espressione di una “violenza politica” funzionale al progetto di totale controllo del territorio.
In sostanza Tito porta avanti un pianificato progetto di annessione nazionalistica dei territori della Venezia Giulia e per questo mette a tacere tutti coloro che sicuramente prima o poi si sarebbero opposti all’idea di Trieste città jugoslava.
Quali sono i numeri delle foibe?
Sui numeri si è sempre esercitata una vera e propria guerra.
– si va dai negazionisti che quantificano le vittime delle foibe in poche centinaia di fascisti (!)
- le forze politiche di destra al contrario parlano di decine di migliaia di vittime (30.000 o oltre!)
- Da qui l’uso di espressioni assolutamente fuori luogo quali “genocidio degli italiani”, “olocausto italiano”, “pulizia etnica” e simili
In realtà le vittime furono circa 5000-5500:
- 600-700 nelle foibe dell’autunno del ’43 (Istria, Zara, Fiume)
- 4500-5000 nelle foibe del ’45 (Gorizia, Trieste, Istria)
Le cifre scorporate città per città sono significative:
- Gorizia 900 vittime
- Fiume 650 vittime
- Trieste 1500 vittime
- Pola 500-600 vittime
- Istria… non sapremo mai. Era territorio controllato dalle autorità jugoslave le quali non fornirono mai i numeri della repressione
L’esodo giuliano-dalmata
Per quanto riguarda l’esodo non c’è o quasi “guerra dei numeri”:
- 350.000 secondo le associazioni degli esuli (es. l’associazione “Venezia Giulia e Dalmazia”)
- 300.000 secondo le ricerche degli storici dell’università di Trieste
- 200.000 secondo le autorità jugoslave dell’epoca
L’esodo delle popolazioni dell’Alto Adriatico durò dal 1944 al 1956:
– Inizia con l’esodo da Zara nel ’44 quando stanno per entrare le truppe di Tito
– Nella primavera del ’45 è la volta di Fiume
– Il momento più drammatico è quando avviene l’esodo da Pola (inverno ’46-47) con 28mila partenti su una popolazione di 32mila abitanti.
– L’esodo termina quando anche la zona di Capodistria e Pirano (oggi Slovenia) diventa jugoslava nel 1956 e anche da lì alcune migliaia di italiani scelsero di lasciare le proprie terre ora jugoslave
In Italia furono accolti piuttosto male perché la guerra era finita da poco e l’Italia era distrutta. Ma c’era anche il pregiudizio politico per cui chi lasciava la Jugoslavia di Tito doveva essere per forza un fascista. Inutile dire che non era vero.
Pesò molto la campagna del PCI di Togliatti contro i profughi, che a mano a mano arrivavano in Italia, accusati di essere nazionalisti, fautori del passato regime e gente di malaffare.
Quindi, per concludere, il Giorno del Ricordo non deve essere una semplice ricorrenza nel calendario civile ma un momento in cui ricordiamo tanti italiani (ma anche sloveni e croati) che hanno subito violenze efferate (foibe e lager titini) mentre altri sono stati sradicati dalle loro terre (esodo) senza dimenticare le vittime slovene e croate dell’Italia fascista nel Ventennio e durante il secondo conflitto mondiale.
In questo come in tanti altri contesti, una memoria inclusiva è fondamentale.