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Dante e il potere

Dante e il potere

Cominciamo con tre aspetti forse non del tutto conosciuti:

  • Dante in realtà si chiamava Durante. Dante era il diminutivo
  • Non sappiamo che faccia avesse e neppure la grafia con cui scrisse la “Commedia”
  • Non abbiamo neppure l’originale della “Commedia” autografato da lui

Perdonerete se inizio con i versi più famosi di Dante e direi dell’intera letteratura italiana.

Nel mezzo del cammin de la nostra vita

mi ritrovai in una selva oscura

ché la diritta via era smarrita”

E’ in questa terzina che dobbiamo cercare la radice di tutti i mali che accompagneranno la vita del poeta: dall’accusa di “baratteria” alla condanna a morte e all’esilio negli ultimi vent’anni della sua vita.

Prima di tutto perché scrive “Nel mezzo del cammin di nostra vita”? Da un passo della Bibbia (Geremia) Dante sa che l’uomo vive settant’anni e 35 anni è la metà della vita di un uomo. Era nato a Firenze nel 1265, quindi Dante ha 35 anni e siamo nell’anno 1300.

Attraverso particolari calcoli dedotti dalla “Commedia” possiamo far iniziare il viaggio di Dante il 25 marzo (Dantedì). Dura una settimana circa nei tre regni oltremondani.

25 marzo 1300

Quindi tutto inizia il 25 marzo del 1300. E’ l’anno del Giubileo voluto dal Papa Bonifacio VIII, nemico di Dante e fortemente osteggiato dal poeta tanto da metterlo all’ “Inferno” nel girone dei “simoniaci”. Però nonostante tutto Bonifacio era il Papa e Dante nutriva un forte rispetto per l’autorità papale, meno per gli uomini che ne erano investiti se erano inferiori al loro compito (Dante colloca ben tre Papi all’ “Inferno”).

Molto probabilmente anche Dante era stato a Roma nell’anno del Giubileo (1300), grandioso evento per tutta la cristianità medievale.

Cosa rappresenta la “selva oscura”?

Generalmente i commentatori attribuiscono questo passo al “traviamento” che Dante avrebbe vissuto dopo la morte di Beatrice avvenuta nell’anno 1290.

Beatrice, la donna che Dante bambino vide per la prima volta quando aveva nove anni (lei otto e mezzo) e di cui si innamorò profondamente e mai la dimenticò fino al momento della sua morte. E poi cantò il suo amore per lei ne “La vita nuova” e fece di lei una delle sue tre guide nella “Commedia”.

Perché “traviamento”? Generalmente nei libri, anche di scuola, si legge che Dante avrebbe dimenticato per qualche tempo Beatrice dopo la sua morte, si sarebbe innamorato di altre donne, forse qualche lettura proibita visto che Dante si dedica intorno alla metà degli anni novanta alla filosofia. Forse dietro al “traviamento” le allegre bevute e i versi irriverenti che Dante si scambiò con l’amico Forese Donati (fratello di Corso). Forse un po’ tutte queste cose messe insieme.

1300, anno fatale per Dante

In realtà secondo Alessandro Barbero (“Dante”, Laterza 2020), le cose stanno diversamente.

Che cosa stava facendo Dante nell’anno 1300?

In quell’anno era totalmente assorbito dalla politica a Firenze fino a rivestire qualche settimana dopo quel 25 marzo 1300 la carica di Priore (15 giugno – 15 agosto), la massima carica all’interno del comune di Firenze. L’incarico durava due mesi. Negli altri organismi la carica durava sei mesi. Allora non avevano la nostra ossessione sulla continuità del potere.

Non sappiamo da quale anno e perché abbia voluto dedicarsi alla politica.

Sappiamo che dal 1295 il suo nome compare in alcuni documenti o verbali di vari organismi in cui Dante sedeva. Compare il suo nome, non le parole pronunciate quel giorno, sappiamo però qual era l’argomento in discussione.

Un’apparente democrazia

Apparentemente Firenze alla fine del Duecento poteva essere scambiata con una vera democrazia visto che era molto facile essere eletti a uno dei diversi organismi in cui si decidevano le cose da fare. In una città di 100.000 abitanti (la più importante in Europa!) potevano essere operativi fino a più di seicento cittadini in vari organismi quali il Consiglio dei Cento, il Consiglio del Capitano del Popolo, il Consiglio Speciale del Comune…

In realtà le scelte più importanti erano nelle mani di poche famiglie molto ricche dietro le quali stavano altre potenti famiglie di ricchi banchieri.

In quel momento il contrasto maggiore era tra la ricchissima famiglia dei Cerchi e la altrettanto potente e più aristocratica famiglia dei Donati. Il contrasto aveva favorito la divisione dei Guelfi tra i Neri (Donati) e i Bianchi (Cerchi).

Sono tutti Guelfi perché i Ghibellini erano stati definitivamente battuti a Benevento nel 1266 ed erano stati esiliati.

Dante in politica

Dante si mette con i Cerchi contro i Donati. Perché con i Cerchi non lo sappiamo. Probabilmente non apprezzava l’alterigia dei Donati, il loro disprezzo aristocratico verso il popolo, il loro frequentissimo usare le armi contro i loro nemici in città.

Invece i Cerchi venivano dal contado e in poco tempo si erano arricchiti a dismisura soprattutto con l’attività del prestito del denaro ai potenti dell’epoca: il Papa, i sovrani europei, i ricchi signori delle terre d’Italia.

E’ molto probabile che Dante si sia gettato a capofitto nella politica con un suo ideale da realizzare: nella “città partita”, ossia divisa in “partiti”, in fazioni l’un contro l’altra armate, con forti contrasti di classe, Dante avvertiva l’importanza della politica come “arte di governare la polis”, secondo l’ideale greco.

E l’ “arte del governo” doveva poggiare su seri studi e, diremmo oggi, salde competenze, che lui aveva ma che difettavano nei tanti cittadini fiorentini alle prese con la cosa pubblica all’interno della quale però non distinguevano più di tanto tra interessi privati e interesse pubblico.

Ideale sicuramente nobile quello di Dante, ma alla fine uscì sconfitto (sarebbe meglio dire distrutto), deluso e profondamente amareggiato.

La “città partita”

I contrasti di classe in quel momento erano molto accentuati: il “popolo minuto” (salariati, piccoli artigiani, garzoni) era tenuto lontano dal potere dal “popolo grasso” (ricchi borghesi, mercanti, banchieri, industriali); il “popolo grasso” (gli “imprenditori”) si poneva contro i “magnati” (i “grandi”), ossia le potenti consorterie che avevano cavalieri in famiglia: i Donati, i Della Tosa, gli Ubaldini, i Cavalcanti … gente ricchissima che non lavorava e passava il tempo cavalcando, armeggiando e partecipando a tornei nelle pubbliche piazze.

In quel momento, quando Dante sta facendo il suo ingresso in politica, al potere abbiamo i Bianchi (i Cerchi). Il governo è formato dal “popolo”, dai “plebei”, meglio dire che è un governo degli “industriali” dove le cariche possono appartenere solo a persone nelle cui famiglie non ci sono cavalieri. Nel 1293 c’erano stati gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella che avevano una forte impronta antimagnatizia.

Nella realtà invece gli interessi dei magnati (almeno della parte bianca) sono ben presenti nel governo del Popolo all’interno del quale Dante assume via via incarichi sempre più importanti.

I Neri sono lontani al potere ed esprimono il loro disaccordo con violenze che avvengono spesso in città. Il proletariato non conta nulla ma è temuto, almeno per il numero.

Potremmo definirlo un “governo di centro-destra” (governo degli imprenditori più importanti) secondo il nostro modo di vedere, incline a giungere a compromessi con i magnati, e deciso a tenere lontano dal potere il proletariato delle botteghe artigiane e dei mille mestieri umili in città.

Dante non lavora, non ne ha bisogno. La famiglia è ricca e si è arricchita con il commercio, il cambio delle valute e soprattutto l’usura. Non è una famiglia magnatizia quella degli Alighieri, quindi Dante può partecipare alla vita politica iscritto a un’Arte come è prescritto dalle leggi. Nel 1295 si iscrive all’Arte dei “Medici, Speziali e Merciai”.

Le idee politiche

Ma quali erano le idee politiche di Dante quando faceva politica?

Non lo sappiamo con precisione perché Dante ha scritto dopo la morte di Beatrice solo “La vita nuova” e fino agli anni dell’esilio poco altro.

Sulla base di alcuni passi del “Convivio” e della “Comedìa” siamo però in grado di farci un’idea sufficientemente precisa.

Nella prefazione al “Convivio” (doveva essere una sorta di ampia enciclopedia medievale) Dante sostiene che vuole rivolgersi ai nobili, ai principi, anche alle donne purché nobili, perché solo gli aristocratici sono in grado di capire le sue argomentazioni. Non sicuramente chi per lavoro passa tutto il suo tempo nell’attività professionale. Con loro è inutile discutere.

Ciò voleva dire escludere dalle sue argomentazioni e dalla cultura in generale tutto il variegato mondo delle professioni nella Firenze dell’epoca.

Come dimenticare poi la polemica di Cacciaguida contro le “genti nove e i sùbiti guadagni” nella Firenze del trisnipote mentre a suoi tempi Firenze era più piccola, sobria e onesta? Come poteva il trisnipote sopportare il “puzzo del villan d’Aguglion e di Signa”?

Naturalmente è lo stesso Dante a parlare in questo modo e in questi passi rivela una concezione aristocratica in palese contraddizione con il suo operato politico nel governo popolare negli ultimi anni del Duecento.

Può anche darsi che dopo la sua sconfitta personale Dante abbia accentuato la sua opposizione al “Governo di Popolo” al quale aveva partecipato con tanto ardore. Non sappiamo bene.

Un giovane “aristocratico”

Quello che è certo è che Dante durante gli anni della politica non svolge alcun mestiere. Dante vive di rendita. I contadini dei suoi poderi gli danno agio di vivere come meglio crede.

Lui è il primo della sua famiglia a poter fare ciò che gli piaceva di più: studiare, dedicarsi alla poesia, alle armi, ai cavalli (come si addiceva all’educazione di un giovane dell’alta società fiorentina); frequenta ed è amico di nobili: Guido Cavalcanti e Forese Donati; è allievo del prestigioso Brunetto Latini e frequenta l’università di Bologna; sposa una donna nobile: Gemma Donati, che gli porta una dote non disprezzabile.

Naturalmente in lui non c’era nessuna apertura verso i ceti più bassi (“popolo minuto”) di cui mai sposa le aspirazioni.

Se voleva fare politica doveva adattarsi alle circostanze storiche dell’epoca. In quel momento alla guida di Firenze c’erano gli “artefices”, i “plebei”, ossia gli “imprenditori”, il “Governo di Popolo” di cui probabilmente non apprezzava la limitatezza dell’orizzonte politico, l’avidità (l’ ”avarizia”) e la scarsa propensione verso il bene pubblico.

Credeva però nella possibilità di riformare il sistema politico e di creare le condizioni di una migliore vivibilità a Firenze: ne uscirà sconfitto pesantemente.

1295, primo discorso pubblico di Dante

Il primo documento in cui compare il suo nome è del 1295 e Dante fa parte di uno degli organismi più importanti nel comune fiorentino.

In quei giorni Firenze è sull’orlo della guerra civile. I magnati sono sul piede di guerra perché gli Ordinamenti di Giustizia (1293) li escludono dalla politica e le pene e le multe su di loro sono molto pesanti.

Per evitare scontri armati tra i magnati e le milizie popolari i Priori dell’epoca propongono di imporre l’iscrizione a una corporazione di mestiere per tutti coloro che vogliono cariche politiche. Basta la sola iscrizione, non è necessario esercitare il mestiere. Passa la proposta e i magnati tornano alle loro case.

Nell’organismo in cui faceva parte Dante si alza e si pronuncia a favore del provvedimento. Segno del suo schierarsi per una maggiore partecipazione dei magnati al governo della città.

Ne approfitterà anche lui per iscriversi alla corporazione dei “medici, speziali e merciai” senza svolgere alcuna attività. Grazie a questa legge si aprono a lui le porte della politica.

Dante Priore

Vediamo ora che cosa fece Dante nei sessanta giorni del Priorato, perché è qui la chiave per capire la “selva oscura” in cui stava per perdere l’anima.

Del resto ce lo dice lo stesso Dante in una lettera del 1301, purtroppo poi perduta, in cui scrive che “dalli infausti comizi del mio Priorato – deriveranno – tutti li mali e gli inconvenienti miei”.

Dal 15 giugno al 15 agosto del 1300 Dante deve affrontare queste vere e proprie emergenze:

  • Il 24 giugno, festa di San Giovanni, alcune famiglie magnatizie sono responsabili della bastonatura di alcuni Consoli che stavano recandosi al battistero di San Giovanni per un rito che si ripeteva da sempre
  • I priori decidono l’esilio per i maggiori responsabili dell’accaduto: c’è l’orgoglioso Corso Donati con alcuni membri della sua famiglia. C’è anche Guido Cavalcanti, il fraterno amico di Dante, esiliato a Sarzana in cui morirà poche settimane dopo per aver contratto la malaria. Decisione penosa per Dante esiliare l’amico Guido. Soprattutto negare il ritorno in città quando si seppe della sua malattia. Poi Cavalcanti rientrò a Firenze ma solo per morire
  • Dante sicuramente soffrì molto per la morte dell’amico Guido sentendosi responsabile
  • Intanto però rientrano in città alcuni Bianchi esiliati ma non i Neri. Evidentemente Dante è d’accordo. E’ un uomo schierato con il potere. Non è al di sopra delle parti
  • Nel canto di Ciacco (Inferno, VI) Dante è consapevole dell’ingiustizia nei confronti dei Neri a tutto vantaggio dei Bianchi:

“… Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia (I Cerchi erano recentemente inurbati dal contado) caccerà l’altra con molta offensione” (zuffa del Calendimaggio 1300 ed esilio per i capi dei Neri)

  • In città era già presente un inviato di Bonifacio VIII, il cardinale Matteo d’Acquasparta, formalmente per riportare la pace a Firenze (“paciaro in Toscana”), in realtà per preparare il terreno alla presa del potere dei Neri di Corso Donati e ai banchieri più importanti con i quali la Santa Sede aveva fitti rapporti (gli Spini, gli Scali e altri)
  • Un giorno il cardinale rischia di essere ucciso perché, affacciato alla sua finestra, è sfiorato da un colpo di balestra scoccato da uno sconosciuto. Il governo gli offre in segno di riparazione 2000 fiorini d’oro (1-2 mil. di euro oggi). Il cardinale li rifiuta a malincuore ma poi si allontana da Firenze gettando sulla città l’interdetto
  • Ciò voleva dire che Bonifacio VIII stava preparando qualcosa di grosso per la città

Infatti nel novembre 1301 (Dante non era più Priore) entrò in città Carlo di Valois (fratello del re di Francia), apparentemente perché in viaggio verso la Sicilia contro gli Aragonesi. In realtà per imporre l’arrivo al potere dei Neri.

Così avvenne perché rapidamente i Neri tornarono al potere scacciando i Bianchi con la violenza.

Dante in quel momento non si trovava a Firenze perché era stato inviato a Roma dal Papa (c’è quache dubbio tra gli studiosi) per convincerlo a desistere da qualunque manovra atta a modificare il quadro politico a Firenze. Decisione sicuramente improvvida perché Dante era entrato nella “lista nera” del Papa quando pochi mesi prima aveva rifiutato di mandare cento cavalieri fiorentini a Bonifacio per una sua guerricciola di confine.

Fu trattenuto a lungo a Roma per volere del Papa e quando poté allontanarsi ormai i Neri erano saldamente al potere e avevano già provveduto a una serie di esili coatti per una parte della dirigenza bianca (gennaio 1302).

Tra di loro c’era anche Dante. Non rientrò mai più a Firenze anche perché nel frattempo era stato condannato a morte (marzo 1302).

La sentenza

Dal “Libro del Chiodo” – Archivio di Stato Firenze – 10 marzo 1302

“Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”.

Dante “barattiere”?

Da notare che non tutti i Priori ed alti esponenti del governo bianco sono esiliati e condannati a morte. Dante sì.

Anzi tra i sei Priori in carica, solo Dante è processato e condannato in contumacia.

Le accuse sono circostanziate: aver trafficato per nominare i suoi “amici” al governo, storno di fondi pubblici… Certo, è un processo politico, però qualche dubbio viene.

Chiediamoci, l’accusa di “baratteria” era vera? Potremmo tradurre “baratteria” con concussione, favoreggiamento, abuso d’ufficio, sottrazione di denaro pubblico, peculato… insomma “bustarelle”. Sicuramente no.

E’ molto difficile immaginare un Dante che si arricchisce di denaro pubblico. Era sicuramente ricco (non ricchissimo) di famiglia, possedeva tre-quattro appezzamenti appena fuori Firenze che gli garantivano una buona rendita annuale.

Fu condannato a morte perché i Neri vedono in lui un acerrimo nemico, una persona di grande carisma e cultura, un uomo poco avvezzo ai compromessi. Però il sospetto che ci sia dell’altro è molto forte.

La “selva oscura”

Se l’accusa di “baratteria” è sicuramente falsa, potremmo chiederci quante volte in quei due mesi ma anche negli anni precedenti Dante è stato costretto a prendere decisioni che avrebbe volentieri rifiutato?

Dante è un uomo di partito, è un uomo che non agisce nel vuoto, al contrario è fulcro di potere ma anche preda di interessi che ruotano intorno alla consorteria dei Cerchi.

Non dimentichiamo che in quel momento Firenze è la New York e la Shanghai di oggi. È la città più ricca e popolosa dell’Europa dove circola parecchio denaro e c’è una fortissima competizione per arrivare alle “stanze del potere”.

Giravano molti soldi negli appalti pubblici (in quegli anni sono edificati il Duomo, Palazzo Vecchio, le chiese più importanti), nel finanziamento della Chiesa di Roma; le tasse pagate dai cittadini e nei territori controllati da Firenze sono molto alte.

Essere all’interno del potere vuol dire controllare gli appalti, le poltrone, le commesse, il denaro pubblico. La torta è grande ma sono anche tante e fameliche le bocche che vogliono mangiare…

Quindi direi di no a un Dante corrotto (è soprattutto la tesi di Barbero). Nelle maglie del potere oppure schiacciato dal potere è molto probabile.

Tutto ciò ci fa ritornare ancora alla “selva oscura” dove rischia di perdere l’anima.

Anche Virgilio lo dice all’inizio del “Purgatorio” quando le anime si affollano intorno a Dante perché non hanno mai visto un vivo tra loro. Virgilio dice che quell’uomo è vivo ma ci è mancato poco che morisse (spiritualmente) avvinghiato in una politica della quale voleva essere l’arbitro ma in realtà fu schiacciato da essa.

“Questi non vide mai l’ultima sera / ma per la sua follia le fu sì presso (alla morte spirituale) / che molto poco tempo a volger era”.

Da questo momento derivarono tutte le sofferenze dell’esilio, le amarezze di tanti anni lontano dalla sua città dove aveva perso il suo patrimonio, la sua famiglia e il suo onore.

Ma c’è un aspetto positivo da considerare. Se non fosse stato esiliato non avrebbe scritto la “Commedia” e neppure avrebbe dato grande importanza al volgare fiorentino quale lingua del suo grande poema, facendo nascere così la lingua italiana.

Le tre fiere

Una importantissima chiave di lettura di quello che visse nell’anno 1300 ce la fornisce lui stesso:

Come tutti sanno nel Proemio all’ “Inferno” Dante è risospinto verso la “selva oscura” da tre animali feroci che rappresentano ognuna una disposizione d’animo negativa: il primo animale che compare davanti a Dante è una lonza (lussuria), il secondo è un leone (orgoglio-superbia), il terzo – il più pericoloso – è una lupa (avidità-avarizia).

Molti commentatori hanno sempre attribuito le tre disposizioni peccaminose all’uomo in generale, all’umanità… ma perché non attribuirle a Dante stesso?

Dante in quel frangente sapeva di essere nello stesso tempo lussurioso, superbo e avido di denaro? E’ probabile.

La lussuria lo accompagnò per gran parte della sua vita. Ce lo dice Boccaccio. La superbia intellettuale è un’altra caratteristica del suo animo di poeta che si sente al tempo della “Commedia” profeta di un nuovo messaggio destinato all’umanità.

La tentazione di arricchirsi con la politica è una pulsione che può aver vissuto in una città dove il denaro circolava con grande facilità di mano in mano. Del resto per vivere come Guido Cavalcanti, Forese Donati (i suoi amici più cari) di denaro ne occorreva molto. Non ci sono prove che ne abbia approfittato. Questo va a suo merito.

Conclusione

Nella sua non lunga vita Dante ha vissuto un po’ tutte le possibili esistenze che un uomo può conoscere. Il potere e la polvere, la bella vita giovanile e il ritrovarsi povero, l’amore e la solitudine, la gloria poetica e l’ostracismo della sua città, la gioia e la profonda amarezza …

Una vita di estremi senza i quali forse non avremmo il suo capolavoro.