Le donne nella Grande Guerra
Per le donne il trauma bellico ha certamente significato lutto, sofferenza e ansia materna, ma ha causato senza dubbio anche una frattura dell’ordine familiare e sociale.
Mentre la memoria e l’immagine maschile sono caratterizzate generalmente dal senso dell’orrore della violenza gratuita, della sofferenza e della tragedia, alcune testimonianze orali di donne lasciano intravedere piuttosto un senso di liberazione e di orgoglio, nonchè di accresciuta fiducia in se stesse. Nelle fotografie dell’epoca le donne ritratte nelle mansioni un tempo riservate agli uomini (per esempio quelle adibite ai trasporti, come conduttrici o bigliettaie di tram) e nelle relative divise appaiono generalmente fiere, sorridenti e contente Una realtà diversificata Una cosa era la condizione delle donne di classi popolari, costrette a subire ristrettezze economiche e alimentari, il peso di nuove responsabilità e il superlavoro derivante dall’accumulo di compiti per l’assenza dei maschi; un’altra quella delle giovani operaie da poco entrate nel lavoro di fabbrica, esposte a lavori pesanti e pericolosi, ma pronte ad approfittare di qualche spazio di liberta dalla tutela maschile e in particolare paterna che cosi gli era offerto; un altro aspetto, infine, era quello delle donne appartenenti alla classe media, che trovarono per la prima volta il modo di uscire dall’ambito familiare, di sentirsi valorizzate in compiti socialmente utili e pubblicamente riconosciuti. Ma vi fu anche il caso estremo di quelle donne che dovettero subire le violenze sessuali degli eserciti occupanti. Non tutte le donne, quindi, vissero il tempo di guerra allo stesso modo, ma almeno per alcune la memoria di quel tempo “felice” appare oggi comprensibile, perché rinvia al senso di liberazione da un mondo chiuso nell’ambito privato e domestico, nel ruolo di madri e spose, nel quale si trovavano comunque “prigioniere” ancora in quel tragico agosto del 1914. Bisogno di manodopera Il bisogno crescente di manodopera in tutti i settori (specialmente nella produzione bellica), provocò chiaramente una specie di invasione di campo femminile nelle più diverse realtà professionali. Le donne si scoprirono tranviere, ferroviere, portalettere, impiegate di banca e dell’amministrazione pubblica, operaie nelle fabbriche di munizioni. Si arrivò pertanto alla rimozione di tabù e confini tra uomini e donne, con una nuova confusione e mescolanza dei sessi. Non dobbiamo pensare che le donne fecero il loro ingresso nella produzione industriale solo in questo momento. A partire dalla rivoluzione industriale inglese e poi europea la presenza femminile nelle fabbriche tessili era notevole. Ora però le donne occupavano settori lavorativi dove mai in precedenza qualcuno avrebbe immaginato ruoli femminili. Donne che organizzano scioperi Anche le donne che lavoravano in fabbrica non riuscivano a sfamare i figli con il loro stipendio. Le donne organizzarono allora veri e propri scioperi, per aumentare i salari e per porre fine alla guerra. Ad esempio, nel maggio del 1914 si astennero dal lavoro le operaie delle industrie tessili di Como, Vigevano e Borgosesia, nell’agosto del 1915 le operaie tessili di Torino; a settembre e a novembre l’agitazione si estese dal Milanese al Novarese e nel 1918, sebbene sul finire della guerra, riuscirono ad ottenere qualche aumento di salario e alcune categorie anche l’orario ridotto a otto ore. Comunque, si registrarono marcate controtendenze, volte a ristabilire i confini di un tempo e a ricondurre le donne al loro interno. Un piccolo, ma significativo indizio linguistico di tutto questo consiste nel fatto che, alle lavoratrici delle fabbriche di munizioni venisse affibbiato il termine diminutivo, ma anche vezzeggiativo di “munitionnette”, in Francia, e di “canaries” (canarini) in Inghilterra – quasi a ribadire che esse rimanevano sempre donne, avevano cioè qualcosa di specifico che le distingueva: la grazia femminile non veniva meno anche nella fabbricazione di ordigni letali. C’e’ comunque da sottolineare che, nel caso inglese, il soprannome derivava perlopiù dalla colorazione gialla, assunta dalla pelle delle operaie, in seguito al contatto con la polvere pirica e le sostanze chimiche, evidentemente nocive, adoperate in fabbrica. A migliaia morirono le giovani operaie, a causa di questa realtà. Ruoli femminili I compiti in cui la donna è più frequentemente rappresentata al tempo della Grande Guerra, sono quelli più tradizionali dell’infermiera e della dama di carità, che sottolineano il ruolo tipicamente femminile di angelo consolatore, di custode dell’uomo. Mentre ai medici professionisti erano affidate diagnosi e terapia, le infermiere venivano quasi sempre relegate al compito materno della cura e della consolazione dei pazienti. Come scrisse un medico francese: “Ai medici la ferita, alle infermiere il ferito”. In Italia il volontariato femminile, sotto l’egida della Croce Rossa, sorta nel 1864, venne successivamente incentivato da donne del ceto medio-alto come Rita Camperio Meyer, figlia di un ufficiale che aveva svolto una missione in Manciuria al tempo della guerra russo-giapponese del 1904-1905 e aveva avuto modo di apprezzare il contributo delle donne all’organizzazione sanitaria dell’esercito russo. La Croce Rossa aveva permesso alla Camperio Meyer di fondare a Milano nel 1908 la prima scuola italiana per infermiere. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale l’organizzazione della Croce Rossa mobilitò moltissime infermiere volontarie, che trovarono impiego immediato nelle opere di assistenza sanitaria nelle immediate retrovie, nei treni-ospedale e negli ospedali piu’ grandi, lontani dal fronte. Nel 1917 le infermiere della Croce Rossa erano quasi 10.000, e altrettante quelle organizzate da altre associazioni di soccorso. In ultima analisi, non si devono trascurare gli immensi rischi e le estenuanti fatiche che caratterizzavano il lavoro e la vita stessa delle infermiere, soprattutto di quelle impegnate in zona di guerra. Infezioni mortali, avvelenamento dal contatto con soldati gassati, turni massacranti e un inumano stress psicologico, lasciavano poco spazio alle relazioni sentimentali e a qualsiasi tipo di svago o passatempo. L’OPINIONE PUBBLICA Con un giudizio fulminante lo scrittore Ugo Ojetti, già corrispondente di guerra del Corriere della Sera, così si esprimeva nel 1917: “La fiumana di donne penetra, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli uomini: campi, fabbriche… Talune, è vero, assomigliano ai bambini, specie quando ancora non ne hanno di propri: si stancano, si distraggono, sospirano, litigano, s’impuntano, scioperano, minacciano, strillano. Ma le più, insomma, lavorano e sono preziose, e s’ha bisogno di loro… La donna è prima di tutto un essere pratico il cui lavoro sociale è utilissimo…”. Rara sintesi di pregiudizi e valutazione positiva del lavoro femminile. Un “mondo alla rovescia” A colpire maggiormente l’immaginario collettivo fu soprattutto la comparsa delle donne in occupazioni tradizionalmente inconsuete, in una specie di “mondo alla rovescia”. Spesso quotidiani e riviste dell’epoca sfoggiavano clamorose fotografie di donne italiane o straniere impegnate come spazzine, tranviere, barbiere, direttrici d’orchestra, boscaiole, ecc.. Del resto, quando i conduttori dei tram furono sostituiti dalle donne ci fu una levata di scudi perbenista, in quanto questo lavoro poneva le donne a diretto contatto degli uomini e solo donne di scarsa levatura morale potevano accettare tali rischi, sebbene l’amministrazione pare che avesse avuto l’accortezza di scegliere per la bisogna ragazzone robuste dall’aspetto alquanto virile. Alla fine però anche questa novità finì per essere accettata per amor di patria, ma quando una mattina videro delle donne realmente impegnate a guidare i tram, l’opinione pubblica si scatenò: i tram sarebbero deragliati e si sarebbero contati i morti, previsione che si rivelò priva di fondamento, perché il numero degli incidenti non alterò le statistiche precedenti – tuttavia continuò a suscitare viva disapprovazione il fatto che le tranviere al capolinea si accendessero spesso una sigaretta. Infaticabili, le donne della propaganda organizzavano balli, lotterie e pesche di beneficenza, e vendevano persino, a ben cento lire, un “bacio patriottico”. Una maestrina, Luigia Ciappi, diventò simbolo delle virtù guerriere delle donne, perché si travestì da soldato e tentò di partire per il fronte. Ci fu anche un volontariato espresso esclusivamente dalle donne di estrazione borghese e aristocratica. Le cosiddette “Dame visitatrici” e quelle che si mettevano a disposizione dei vari Uffici Assistenza e Uffici Dono, avevano il compito di recare aiuto, sostegno e conforto alle famiglie dei mobilitati nonché agli stessi soldati quando si trovavano in licenza, nelle retrovie o negli ospedali. L’arte del riciclaggio Nel sostegno allo sforzo bellico venivano indiscutibilmente alla luce quell‘inventiva e quella capacità di risparmio e “riciclaggio” che erano considerate virtù tipicamente femminili. Si utilizzarono, per farne cappotti, parti di pellicce prelevate da indumenti usati, si promosse allo stesso scopo l’allevamento dei conigli, si inventarono forme di riuso della carta di giornale per riscaldare il rancio nelle gavette, o speciali superfici compresse detti “coltroni” (grandi coltri) che proteggevano i soldati dal vento e dal freddo. Si inventarono speciali indumenti antiparassitari, contenenti miscele per tener lontani i pidocchi che tormentavano i fanti in trincea. Si provvide anche ad organizzare la raccolta dei noccioli di vari frutti (pesche, albicocche e prugne) per vari usi farmacologici e di saponificazione. Persino la maschera antigas, simbolo di una guerra combattuta coi mezzi più terrificanti, fu inventata, a quanto pare, dalle donne di un comitato bolognese, prima di essere perfezionata da esperti di chimica e di essere prodotta in scala industriale dai militari. MODA FEMMINILE E GRANDE GUERRA Anche la moda fu influenzata dalla Grande Guerra. Finita la guerra i vestiti femminili divennero più pratici e l’eleganza raffinata della Bella Epoque fu definitivamente abbandonata. Con l’ingresso delle donne nelle fabbriche, le gonne lunghe e strette si presentano fastidiose nel lavoro quotidiano, lasciando il posto a quelle più corte e più comode. I colli sono più scesi e spesso assumono la forma delle giacche militari, quasi come voler uniformare, su un unico fronte, militari in trincea uomini e donne a lavoro. Perfino i colori assumono spesso maggiore uniformità sui vestiti, abbandonando la sfarzosa fantasia e il lusso degli anni precedenti, in nome del rigore della guerra. Anche le pettinature sono più sbrigative, con capelli tirati indietro e più corti. Sul finire della guerra la moda assecondò queste tendenze fino a decretare la fine della donna Belle Epoque. La stilista più amata e celebrata fu Coco Chanel, la quale diceva che le nuove idee le venivano rovistando gli abiti dei suoi amanti uomini. LE REAZIONI La presenza femminile era percepita, specialmente dai vecchi operai, come un sovvertimento dell’ordine naturale se non un vero e proprio “attentato alla moralità”. Le nuove assunte venivano paragonate agli “imboscati” e considerate oggetto di favoritismi interessati da parte dei dirigenti maschi. Nelle lettere di protesta indirizzate dal personale ai dirigenti delle fabbriche, si parlava spesso delle donne come di “sgualdrine” che vivevano nel lusso, approfittando della loro nuova condizione sociale ed economica. Ma qualcosa nonostante tutto cambiò: le donne iniziarono a bere alcolici, a fumare, ad uscire di sera e a frequentare locali di divertimento, che prima erano considerati prerogativa dei maschi adulti. Le basi per un’identità femminile antagonista erano state poste. GRANDE GUERRA, DONNE, CULTURA E POLITICA Durante la guerra aumentò il numero delle donne che frequentavano gli istituti superiori; nell’anno accademico 1917-18 23.000 maschi e circa 2.000 femmine frequentarono le 17 università governative e le 4 libere. Nel 1917 si laurearono 108 dottoresse in lettere, 4 in scienze economiche e commerciali, 81 in matematica, 7 in farmacia, 6 in medicina, 1 ingegneria e 1 in agraria, ma nel 1918 ci fu una flessione, sebbene il numero rimanesse superiore a quello di prima della guerra. Ristagnarono invece i progressi nella situazione politica e giuridica della donna, solo in Gran Bretagna il 28 marzo 1917 venne varato il progetto di legge che concedeva il voto alle donne che avessero compiuto trent’anni. DOPO LA GUERRA L’esigenza di trovare un lavoro per i reduci spinse talvolta al licenziamento rapido e completo delle donne dalle occupazioni che avevano ricoperto, anche se in alcuni settori, per esempio nel terziario, la loro presenza continuò nonostante tutto a crescere. La difficoltà di trovare lavoro scatenò la guerra dei sessi che naturalmente fu perduta dalle donne. La retorica dominante fu infatti quella che prescriveva alle donne il rientro nei ranghi, nei ruoli familiari, nei compiti procreativi e materni. Fu vera emancipazione? Difficile dare una risposta univoca. Dobbiamo considerare le realtà dei singoli paesi, il ruolo sociale delle donne, la loro età, le condizioni di tempo e tante altre variabili. Oggi gli storici sono piuttosto scettici sulle opportunità di vera emancipazione femminile durante e dopo la guerra. Pensiamo solamente al peso del lutto che condizionò molto le donne contadine e la loro rielaborazione dell’esperienza durante la guerra. Oppure il fatto che le donne furono espulse dalle fabbriche appena finita la guerra. Oppure ancora a molte donne costrette al nubilato a causa dell’enorme numero di maschi morto in guerra. E poi la fame, il freddo, le malattie nelle città e nei villaggi durante la guerra, il sovraccarico di lavoro in famiglia… senza dimenticare le donne che subirono violenze nelle zone conquistate dagli eserciti nemici con stupri, uccisioni e la pesante eredità dei “figli della guerra”. Forse la guerra fu un’opportunità di emancipazione solo per le giovani donne della piccola media borghesia le quali approfittarono di spazi lavorativi e di opportunità di studio prima preclusi accanto a nuove opportunità di tempo libero e libertà sessuale. Pensiamo all’immagine della garconne degli anni Venti (favorevoli cambiamenti anche nel vestiario). Conclusione Tuttavia, in conclusione, seppure con molte contraddizioni la Grande Guerra incrinò modelli di comportamento, le relazioni tra generi e classi di età, nonché tra le varie classi sociali, mettendo in discussione gerarchie, distinzioni e autorità ritenute immutabili. Un effetto che sarebbe emerso più ampiamente nel secondo dopoguerra, contribuendo a conferire alle lotte sociali, comprese quelle per i diritti delle donne, quell’impronta di stravolgimento radicale dell’ordine esistente che avrebbe fatto per un momento tremare il ruolo egemonico che l’uomo aveva sempre avuto.
|