La Chiesa durante la guerra
L’elezione al pontificato di Benedetto XV avvenne in un momento difficile: il 5 settembre del 1914 era appena iniziata la guerra ed era in corso la battaglia della Marna, che segnerà la sconfitta delle ambizioni tedesche di arrivare rapidamente a Parigi e porre così fine alla guerra almeno lungo il fronte occidentale.
L’atteggiamento di Benedetto XV fu improntato subito al rifiuto netto del conflitto in corso con accenti talvolta accorati.
Anche il predecessore, Pio X, non aveva mancato di far sentire la sua voce mentre si preparavano le condizioni politico-diplomatiche che porteranno agli eventi d’inizio agosto con lo scoppio della guerra.
Quindi è corretto parlare di continuità della politica vaticana tra il Pio X e il successore piuttosto che di discontinuità.
La critica di Benedetto XV alla guerra in corso è ricca di espressioni dense: “tremendo spettacolo”, “immane flagello”, “orrenda carneficina”, “immane conflitto”, “immane lotta”, “orribile lotta fratricida”, “suicidio dell’Europa civile”. (1)
Non si tratta però di pacifismo radicale, del resto estraneo alla storia e alla dottrina della Chiesa. Già da Sant’Agostino aveva classificato le guerre in “giuste” ed “ingiuste”. Anche questa guerra rientrava in questa casistica e in particolare era giudicata una guerra invisa a Dio e nata dalla follia distruttiva degli uomini.
Sbaglieremmo però se ci fermassimo a questo livello evitando di capire quali erano le motivazioni profonde della politica papale.
L’ ”inutile strage”
Lungo tutto il conflitto fino alla denuncia dell’ “inutile strage” (1° agosto 1917) il Papa fu accusato negli ambienti dell’Intesa di essere “austriacante”, ossia di essere dalla parte degli Imperi centrali, Germania e Austria-Ungheria.
Quando fu resa pubblica l’esortazione apostolica “Dès le début”, indirizzata ai capi di Stato dei popoli belligeranti, che conteneva la famosa frase sulla inutilità della strage sui campi di battaglia, molte voci autorevoli si alzarono per demistificare il documento papale con l’accusa di fare il gioco degli Imperi centrali in un momento a loro favorevole a livello militare.
Cadorna proibì che i giornali che arrivavano al fronte parlassero della nota papale e Sonnino (ministro degli Esteri) deplorò l’iniziativa. Così avvenne nelle cancellerie di Parigi e Londra. Ma anche a Berlino l’appello alla fine della guerra e a una pace giusta e dignitosa per tutti fu rapidamente messo da parte. Il Kaiser era convinto in quel momento che la guerra (con la probabile defezione della Russia) si stava mettendo al meglio per la Germania e non era opportuno intavolare trattative di pace con il rischio di cedere il Belgio o l’Alsazia-Lorena.
Non c’è dubbio che, seppure non palese, l’atteggiamento vaticano dallo scoppio della guerra in avanti fu di simpatia nei confronti del cattolicissimo Impero asburgico visto come antemurale all’espansionismo russo nei Balcani e alla presenza dell’Islam turco nella stessa area (Bosnia Erzegovina).
La penetrazione della Russia greco-ortodossa avrebbe avuto l’appoggio dalla Serbia il cui dinamismo nell’area balcanica avrebbe eroso posizioni all’Impero ottomano ma anche alla tradizionale influenza della Duplice Monarchia in questa area cruciale tra Europa cristiana e Medio Oriente islamico.
A Berlino la trama diplomatica tra il governo e la Chiesa di Roma era retta del Nunzio Pacelli, che alla vigilia della seconda guerra mondiale diventerà Papa con il nome di Pio XII.
In questo momento Pacelli era impegnato a mantenere vivo il legame con i cattolici tedeschi che vivevano in un Impero tedesco che fronteggiava da una parte i Russi e dall’altra poneva un freno al laicismo della Francia e alle ambizioni nel continente della Gran Bretagna anglicana.
Quindi chi additava in Benedetto XV il “papa crucco” non aveva tutti i torti. Ma sbaglieremmo ancora se vedessimo nella politica papale solo una stampella per sorreggere due imperi che in caso di sconfitta sarebbero scomparsi.
È evidente nella nota del 1° agosto ’17 la volontà di porre la Chiesa super partes quando finalmente le potenze in guerra si sarebbero accordate per la fine delle ostilità. La posizione di parziale equidistanza tenuta dal Vaticano durante la guerra avrebbe permesso di porre la Chiesa di Roma al centro delle trattative e del futuro dell’Europa.
Il dopoguerra avrebbe rilanciato l’immagine del Vaticano e ne avrebbe fatto un perno nel sistema delle relazioni internazionali. Non è un caso che il documento del 1° agosto non contenga solo la critica alla guerra ma anche l’invito a “proposte più concrete e pratiche” per la fine del conflitto. In ogni caso le proposte di pace dovevano essere basate su criteri di equità e giustizia.
Le cose non andarono come si sperava a Roma e le reazioni delle varie cancellerie furono negative. In particolare il Papa fu accusato di fare il gioco dei socialisti e dei pacifisti o addirittura delle potenze che avevano voluto e alimentato la guerra (Berlino e Vienna).
Nel fallimento delle proposte di pace la Chiesa scontava una certa marginalizzazione nella politica europea che derivava dalle difficoltà a scendere a patti nel corso dell’Ottocento e dei primi del Novecento con le grandi novità di quest’epoca: dalla Rivoluzione Francese alla Belle Epoque passando dall’affermazione del liberalismo, del laicismo e dei nuovi valori materialistici dello sviluppo dell’industria e del commercio nel mondo.
Nazionalismo religioso
Ma se a Roma si guardava alla guerra con un misto di orrore e di impotenza diplomatica, nelle varie chiese nazionali non ci furono tentennamenti e ovunque vescovi cattolici e autorità protestanti aderirono alla politica dei rispettivi governi.
Nel corso della guerra l’allineamento delle chiese nazionali ai valori patriottici e all’aperta collaborazione con i governi fu un processo rapido e senza particolari contraddizioni (2). A questo proposito è interessante quanto avvenne in Italia.
Già nell’aprile del ’15 (quindi poco prima che l’Italia entrasse in guerra) il generale Cadorna emanò una circolare che prevedeva l’assegnazione di un ecclesiastico per ogni reggimento. Solo dopo una settimana dallo scoppio della guerra tra Italia e Austria la Santa Sede decise di istituire un “vescovo del campo” avente giurisdizione su tutto il clero in armi (3). Il ruolo fu occupato per tutta la durata della guerra da monsignor Angelo Bartolomasi il quale aveva il diritto di scegliere i cappellani e proporli al ministero della Guerra per la nomina.
I cappellani militari
Tra le tante forme di partecipazione della chiesa italiana al conflitto non c’è dubbio che il ruolo svolto dai cappellani militari fu forse quello di maggiore importanza.
Con l’unità del 1861 l’esercito italiano aveva deciso di non avvalersi dell’operato dei cappellani stante il conflitto tra Chiesa e Stato all’indomani di Porta Pia.
Alcuni cappellani erano stati introdotti nell’esercito al tempo della guerra di Libia (1911-12) soprattutto per premiare il Vaticano dell’appoggio che dette al governo Giolitti. La lotta contro l’Islam turco era vista positivamente nel quadro di una possibile espansione del cattolicesimo nel Nord Africa. La guerra contro Costantinopoli rientrava in quelle guerre “giuste” nei confronti delle quali la Chiesa non aveva mai mancato di dare il proprio appoggio.
Fu il cattolico Cadorna (aveva due figlie suore) a volere un numero maggiore di cappellani a contatto con le truppe. Era convinto che la presenza di fervore religioso tra i soldati avrebbe aumentato la carica combattiva e impedito che tra i soldati si diffondessero le idee “disfattiste”.
Il ruolo dei cappellani fu numericamente importante: in totale furono 2.400 nel corso del conflitto a cui dobbiamo aggiungere 22.000 ecclesiastici alle armi. Si trattava di sacerdoti sottoposti agli obblighi militari che scelsero per il 90 per cento di operare nelle compagnie di sanità ma 1.582 religiosi ottenero il grado di ufficiale e “più di una volta si verificò il caso di reparti comandati da preti i quali avevano regolarmente frequentato i corsi allievi ufficiali ed erano diventati tenenti o capitani del regio esercito”. (4)
Il ruolo degli ecclesiatici nel corso della guerra fu fondamentale per la tenuta dell’esercito soprattutto nei momenti critici, come dopo la rotta di Caporetto quando fu necessario agire sul morale dei soldati e arginare l’offensiva austro-tedesca lungo il Piave.
In genere i cappellani evitarono discorsi troppo accesamente patriottici o guerrafondai, mantennero i discorsi su toni meno accesi. In ogni caso parlarono sempre di un “dovere da compiere”, di “sacrifici utili alla Patria”, del “sacro suolo d’Italia da difendere”. Instillarono nei soldati l’ubbidienza nei confronti dei superiori anche quando i graduati li mandavano a morire inutilmente davanti ai reticolati nemici; descrissero la guerra come qualcosa da sopportare così come nel mondo contadino si erano sempre sopportate la siccità, la tempesta, le malattie. Ovunque predicarono la passività, la sottomissione, la rassegnazione incontrando la stima di Cadorna e del suo Stato Maggiore.
Due casi significativi: Padre Semeria e Padre Gemelli
Vi furono anche religiosi che fecero discorsi accesamente patriottici come il barnabita Padre Semeria il quale davanti agli orrendi spettacoli delle carneficine quasi impazzì e fu ricoverato in una clinica in Svizzera, tranne poi tornare guarito nel ’16 e continuare la sua opera tra i soldati.
Padre Agostino Gemelli trascorse tutta la guerra tra il Comando di Cadorna e il fronte studiando scientificamente la psicologia del soldato in trincea e ricavando la netta impressione della facile addomesticabilità del fante-contadino in un contesto del tutto particolare come quella guerra. Era l’occasione giusta per rendere più pregnante il ruolo della Chiesa nelle trincee approfittando di un’occasione irripetibile per far uscire la Santa Sede dal cono d’ombra della “Questione Romana”:
“Il soldato mobilitato – soprattutto in certe circostanze – si trova in tale condizione da accettare con favore tutto ciò che il cappellano gli suggerisce per il bene della sua anima … Occasione magnifica per diffondere l’amore della legge di Gesù Cristo che forse non si presenterà più l’uguale”. (5)
La paura quindi sarebbe stata la molla attraverso cui arrivare al cuore dei combattenti facendo fare alla Chiesa un salto di qualità nel rapporto con le autorità politiche e militari. Il risultato fu la devozione nei confronti Sacro Cuore di Gesù con la distribuzione di milioni di immaginette e una comunione collettiva con due milioni di soldati al fronte il 3 gennaio del 1917.
Ma non furono le immaginette e l’azione di Gemelli a tracciare una nuova strada. La paura in sé poteva avere aspetti contraddittori e controproducenti: cessata la paura (esempio quando il militare era nelle retrovie o in licenza) il soldato riprendeva atteggiamenti e comportamenti dove di cristiano spesso non c’era nulla (esempio l’ampia frequentazione dei bordelli per la truppa voluti dallo stesso Cadorna oppure locali di ritrovo in cui ubriacarsi).
La “Case del Soldato”
Era necessario quindi agire diversamente per rendere più pregnante l’azione della Chiesa. L’istituzione della “Case del Soldato”, fortemente volute da padre Minozzi, rappresentò un’occasione di proselitismo più duratura e pregnante.
Soprattutto da Caporetto in avanti e spesso con la collaborazione dell’Ufficio P (propaganda), le “Case del Soldato” ebbero un ruolo importante nel controllo del soldato evitando la propaganda disfattista e permettendo alla Chiesa di svolgere un ruolo più maturo.
Un nuovo fervore religioso?
I soldati in trincea ascoltavano volentieri le prediche dei cappellani o dei religiosi in divisa per un motivo molto preciso: temevano la morte e la pratica religiosa era da loro vista come viatico contro i pericoli che aleggiavano intorno a loro.
Da qui l’enorme diffusione di immagini religiose (e non solo quelle di Gemelli) che i soldati portavano addosso come protezione contro le pallottole nemiche o le mille insidie della guerra di trincea.
Sembrò a molti prelati che i giovani soldati e ufficili tornassero all’ovile dopo decenni di propaganda laicista e liberale che in Italia aveva visto l’arretramento della Chiesa dopo l’Unità. Non furono pochi i prelati che parlarono di un miracolo che avveniva davanti ai loro occhi: le messe negli ospedali con una partecipazione di massa, al fronte lo stesso fervore, prima di un’azione erano gli stessi soldati a chiedere l’assistenza religiosa…
Spiriti disincantati come Gemelli non si facevano molte illusioni sulla rinascita del senso religioso tra le masse. In ogni caso era una situazione irripetibile che avrebbe permesso alla Chiesa di acquisire un ruolo nazionale e far breccia nella società italiana.
Il superamento di fatto della “Questione Romana”
Era la rivincita di Porta Pia, la vittoria di Pio IX di fronte all’alterigia dello Stato unitario, la sconfitta di quallo stupido anticlericalismo che nel corso dell’Ottocento prediceva la scomparsa del senso religioso tra le masse. Dovunque l’Italia liberale e “illuminista” arretrava e gli anticlericali di un tempo scoprivano l’importanza dello spirito religioso per il governo delle masse.
Ora la Chiesa metteva a disposizione i suoi strumenti a un esercito italiano che fino a quel momento aveva conosciuto solo l’inflessibile durezza della disciplina voluta da Cadorna.
Non è sbagliato dire che il terreno favorevole alla Conciliazione si formò nelle trincee dell’Isonzo e poi del Piave. Prima del Concordato del ’29 i rapporti tra Stato e Chiesa furono improntati a reciproca collaborazione. La “Questione Romana” era nei fatti finita.
“Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo?
E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme,
l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche,
la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni,
una guerra di evidenti aggressioni, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, le repressioni di manifestazioni popolari ?”
don Milani, “Lettere a cappellani e giudici”
Note
1) Giovanni Vian, “Benedetto XV e la denuncia dell’ “inutile strage” in “La Grande Guerra. Uomini e luoghi del ’15-‘18”, a cura di Mario Insenghi, UTET 2008, tomo 2, p. 736
2) Scrive Gianfranco Ravasi: “Le cattolicità nazionali – e l’esempio italiano è illuminante – avevano raccolto l’appello papale con scarso entusiasmo, sottoposte com’erano alle spinte nazinalistiche, alla propaganda interventista di alcuni governi o di partiti e movimenti d’opinione. Si assisteva così alla benedizione di bandiere, vessilli, gagliardetti, truppe e persino armi e in certe chiese si levavano suppliche non tanto per la pace, quanto per la vittoria (tra l’altro, vittoria di cristiani su altri cristiani)”, in “Europa rossa di sangue cristiano”, “Domenicale” del 25 luglio 2004, p. 32
3) Per tutto il discorso del ruolo della Chiesa nell’esercito italiano si veda di Piero melograni, “Storia politica della grande guerra”, Laterza 1977, da p. 130.
4) Op. cit., pp. 133-134
5) Sergio Luzzatto, “Un chierico vestito da soldato. La guerra di padre Agostino Gemelli”, “La Grande Guerra. Uomini e luoghi del ’15-‘18”, a cura di Mario Insenghi, UTET 2008, tomo 1, p. 458. Potremmo dire che la Chiesa utilizzò ogni strumento per far breccia nell’animo dei soldati. È interessante questa testimonianza di un cappellano militare che girava tra le trincee con la sua invidiata macchina fotografica: “La fotografia mi serve assai per promuovere la frequentazione ai SS. Sacramenti. Vanno pazzi per il loro bel musettino riprodotto sulla carta. Dalle cinque del mattino alle nove di sera… è un andirivieni di soldati che sotto tutte le forme, mi pregano di far loro il ritratto. A tutti dico la stessa canzone: io ti farò questo piacere, ma tu procura di far piacere al Signore compiendo i tuoi doveri religiosi”, in R. Morozzo della Rocca, “La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldati (1915-1919)”, Studium, Roma, 1980, p. 53
Bibliografia
– “Benedetto XV e la pace”, a cura di Giorgio Rumi, Morcelliana, Brescia 1990
– Gabriele De Rosa, “L’età contemporanea”, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 189-222
– “Chiesa e guerra. Dalla benedizione delle armi alla “Pacem in terris” “, a cura di Mimmo Franzinelli, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 91-127
– Luigi Bruti Liberati, “Il clero italiano nella grande guerra”, Editori Riuniti, Roma 1981
– Mimmo Franzinelli, “Padre Semeria e la Grande Guerra”, in “Italia contemporanea”, n. 197, dicembre 1994, pp. 719-46