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Massacri in colonia. Addis Abeba e Debre Libanos (febbraio-maggio 1937)

L’ “impresa etiopica”, esaltata dalla stampa fascista come “mirabile esempio di colonizzazione italiana”, ossia portatrice di civiltà e progresso fra gli indigeni, fu in realtà condotta con incredibile brutalità sia nel corso della conquista e in pari misura nel momento del consolidamento del controllo del territorio.

Non stiamo parlando solo del tema legato ai “gas di Mussolini” ma anche di terribili fatti che avvennero al tempo dell’attentato a Graziani (19 febbraio 1937) con una repressione condotta senza alcun limite contro la popolazione di Addis Abeba (che non aveva nessuna responsabilità nell’attentato) e nella distruzione del monastero cristiano-copto di Debre Libanos (maggio ’37) ritenuto il cuore della classe dirigente del paese.

L’obiettivo era in sostanza decapitare l’Etiopia di ogni forma di autonomia e quindi governare meglio il paese.

Non era la prima volta che il colonialismo italiano ricorreva a metodi draconiani. In Libia da Sciara Sciat (ottobre 1911) fino alla riconquista di Tripolitania, Fezzan e Cirenaica (anni venti e primi anni trenta), il colonialismo italiano si è caratterizzato per brutali politiche di repressione che trovano l’apice al tempo dei campi di concentramento in Cirenaica per la definitiva sottomissione della resistenza senussita (1930-31).

La storiografia italiana da alcuni anni si è mostrata sensibile al carattere mitologico dello slogan “Italiani brava gente” con ottime opere d’insieme. Citando gli storici più importanti, Del Boca, Rochat e Labanca, ma anche non pochi giovani studiosi, è stato fatto un buon lavoro in diversi contesti storici e geografici a proposito del carattere strumentale di una presunta diversità degli italiani in colonia rispetto ad altri popoli.

Ultimo in termini di tempo l’esaustivo saggio di Paolo Borruso: “Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia” (Laterza 2020).

Le citazioni nell’articolo fanno riferimento a questo saggio di Borruso e al testo di Angelo Del Boca, “Italiani, brava gente?” Neri Pozza Editore 2005.

La guerra d’Etiopia – La propaganda del disprezzo

La guerra d’aggressione all’Etiopia è preparata da un’ampia campagna giornalistica volta a presentare il paese del Corno d’Africa come afflitto da schiavitù perenne e forme particolari di arretratezza endemica. Compito degli italiani sarebbe stato portare la “civiltà romana” sconfiggendo il negus e la barbarie ancestrale.

Senza minimizzare le antiche tare dell’Abissinia è necessario rilevare come il “negus neghesti” Haile Selassie avesse teso, una volta salito al potere (1930), “modernizzare” il paese mandando molti giovani a studiare nelle università europee e americane. Sarebbero dovuti diventare la nuova classe dirigente del paese ma saranno proprio questi giovani nel mirino di Graziani dopo l’attentato del 19 febbraio ’37. Solo pochi scamperanno alle indiscriminate repressioni volte a decapitare la classe dirigente etiope.

Uno dei capitoli più interessanti del testo d Borruso è dedicato alla propaganda del disprezzo portata avanti da organi di stampa cattolici prima e durante il conflitto per additare presunte tare nel cristianesimo abissino.

In sostanza da “Civiltà Cattolica” all’ ”Osservatore Romano” per arrivare ai fogli parrocchiali in molte parti d’Italia, si pone all’indice un cristianesimo definito “primitivo”, “barbaro”, “paganeggiante” e “infarcito di elementi giudaici”.

Non ci fu nessuno sforzo per studiare e comprendere la natura di un cristianesimo antico, con particolari caratteri peculiari, nato in Africa in condizioni isolate rispetto al cristianesimo europeo.

Potremmo citare ad esempio le parole di padre Agostino Gemelli in “Vita e Pensiero” nel quale auspicava la liberazione dell’Etiopia” dalla “funesta eresia eutichiana” e il “ritorno della buona parola predicata agli abissini nel IV secolo dai martiti Frumenzio ed Edesio”.

E’ chiaro che molti settori della Chiesa perseguivano un proprio “imperialismo” accanto all’imperialismo dello Stato fascista: sottomettere alla chiesa di Roma la chiesa abissina.

Se politici, amministratori, uomini d’affari ragionavano in termini di terre da sottrarre alle popolazioni abissine, la chiesa romana ragionava in termini di ampliamento della propria sfera d’azione in Africa soggiogando un intero culto religioso.

Fu gioco forza da parte del Vaticano valorizzare benedire la presunta “missione civilizzatrice” delle armi italiane accanto al pregiudizio razzista ben incanalato dalla stampa fascista. Contribuirono a tutte queste forme di propaganda i tanti cappellani cattolici mandati in Etiopia al seguito delle truppe (poco più di trecento).

Il ruolo di Inghilterra e Francia

Non c’è dubbio che Parigi e Londra avrebbero potuto stroncare sul nascere le velleità dell’ “imperialismo straccione” di casa nostra inserendo il petrolio tra i prodotti soggetti all’embargo deciso dalla Società delle Nazioni all’inizio del conflitto (3 ottobre ’35) e chiudendo il Canale di Suez al passaggio delle navi italiane. La prospettiva della circumnavigazione del continente africano per raggiungere il Corno d’Africa avrebbe sicuramente fatto riconsiderare l’impresa.

Il problema è che Londra e Parigi temevano che nel caso di un atteggiamento duro nei confronti dell’aggressione italiana Mussolini potesse virare la politica estera italiana verso la Germania. Già c’erano timori per una nuova guerra in Europa e l’alleanza con l’Italia avrebbe legittimato ancora di più la politica “revisionista” di Versailles condotta da Hitler.

Alla fine Inghilterra e Francia favoriranno la conquista italiana dell’Etiopia, il discredito della Società delle Nazioni (l’Etiopia era uno Stato membro) e l’alleanza sempre più stretta tra Mussolini e Hitler. Peggio di così non si poteva.

L’inizio della guerra

Mussolini voleva vendicare Adua (1896) e soprattutto sapeva che l’Etiopia era un grande banco di prova per l’Italia fascista, quindi non si poteva sbagliare.

Mai l’Africa aveva visto un esercito così potente schierato al proprio interno. Nel maggio del ’36, nel momento della capitolazione etiope, l’Italia aveva portato in Europa 330.000 militari italiani, 87.000 ascari, 100.000 lavoratori italiani militarizzati, 10.000 mitragliatrici, 1.100 cannoni, 250 carri armati, 90.000 quadrupedi, 14.000 automezzi, 350 aerei.

L’esercito abissino era ricco solo di uomini ma estremamente scarso in armamenti. Poche mitragliatrici, niente protezione aerea e nessuna protezione contro i gas asfissianti usati in grande quantità dall’esercito italiano.

Se la guerra durò sette mesi è solamente per le palesi difficoltà del primo comandante, Emilio De Bono (sostituito presto da Badoglio), la mancanza di strade e le rapide incursioni dell’esercito abissino capace alcune volte di far indietreggiare e mettere in difficoltà l’esercito italiano.

Il ruolo dei gas

Arma letale ma non determinante nella vittoria italiana fu l’uso di aggressivi chimici proibiti dalle varie convenzioni internazionali dopo gli effetti devastanti nella Grande guerra.

Diciamo che iprite, fosgene, arsina ebbero uno scopo terroristico e demoralizzante sulle truppe abissine. La vittoria in fu dovuta alla superiorità tecnologica delle armi italiane.

In ogni caso i militari fecero di tutto per rendere sempre più devastanti i gas. Haile Selassie denunciò a Ginevra le “raffinate” tecniche seguite dopo le prime sperimentazioni sui campi di battaglia dell’efficacia dei gas sull’esercito etiope e sulle popolazioni: Borruso, pp. 160-161

Importante nell’ottica della vittoria finale anche l’alleanza con le autorità mussulmane in Etiopia da sempre insofferenti della politica perseguita dalla maggioranza cristiano-amhara che faceva capo al negus.

La resistenza etiope dopo la sconfitta

Con grande clamore in Italia fu salutato l’ingresso di Pietro Badoglio ad Addis Abeba il 6 maggio del ’36 e la “rinascita dell’Impero sui colli fatali di Roma”.

Rimaneva però il problema delle decine di migliaia di soldati e ufficiali allo sbando dell’esercito del negus e delle prime formazioni di resistenza armata, che poi daranno molto filo da torcere alle truppe d’occupazione.

In sostanza nel maggio del ’36 le truppe italiane controllavano solo una minima parte del territorio. Anche la zona intorno ad Addis Abeba era pericolosa per il radicarsi di formazioni partigiane che agitavano temi religiosi e nazionali.

Contro la resistenza etiope, come in precedenza in Libia, furono mobilitate truppe in funzione anti guerriglia che si macchiarono di crimini quali incendi di villaggi e dei campi, fucilazione sommaria dei “ribelli” ma anche di tanti contadini accusati di collusione con la resistenza, distruzione di animali e risorse fondamentali per la sopravvivenza di queste comunità.

Il “general Graziani”, “macellaio degli arabi” al tempo della riconquista della Cirenaica (1930-31), non deluse le attese di Mussolini con campagne militari volte a fare “terra bruciata” dei ribelli e di tutti coloro che in vario modo sostenevano la resistenza. Ma ancora al tempo dell’attentato a Graziani, quindi nove mesi dopo la fine della guerra, molte zone erano sottratte al controllo italiano.

Fu questo uno dei motivi che portarono al richiamo in Italia del “viceré” Graziani nel dicembre ’37 (dopo Debre Libanos). La constatazione che la terribile repressione aveva rinfocolato ovunque lo spirito di rivincita degli etiopi.

Anche il successore, Amedeo duca di Aosta, nonostante i suoi metodi più accomodanti, dovette affrontare senza successo la continua resistenza etiope al pieno controllo del territorio da parte delle autorità italiane. Le prime offensive inglesi in territorio etiope (1940-41) si saldarono con una resistenza mai vinta del tutto.

19 febbraio 1937

Vediamo i fatti. Quel giorno Graziani, governatore dell’Etiopia dopo il rimpatrio di Badoglio, doveva ricevere i maggiori dignitari della comunità abissina (coloro che si erano sottomessi all’Italia), durante una cerimonia pubblica all’interno del palazzo del governatore. Erano presenti anche alcune migliaia di poveri di Addis Abeba a cui Graziani avrebbe dovuto regalare qualche moneta. Il motivo era festeggiare la nascita del primogenito del principe Umberto.

Durante la cerimonia due giovani eritrei, nascosti tra la folla, lanciarono sul governatore alcune granate Breda che provocarono la morte di sette persone e il grave ferimento di Graziani investito da più di trecento schegge.

Subito dopo lo scoppio i reparti armati presenti nel cortile del palazzo spararono selvaggiamente contro il pubblico presente alla cerimonia (in gran parte formato da poveri) uccidendo un centinaio di presenti.

E mentre Graziani era operato d’urgenza, il federale Cortese chiamò a raccolta non solo i fascisti ma tutti gli uomini validi della comunità italiana per vendicare l’accaduto.

Accaddero in tre giorni di feroci violenze episodi particolarmente disgustosi con massacri indiscriminati nei confronti di uomini, donne e bambini inermi. Moltissimi tucul della periferia di Addis Abeba furono incendiati, le persone che fuggivano terrorizzate uccise sul posto, molti arsi vivi con la benzina oppure uccisi con armi da fuoco, bastoni e mazze (chi non era armato).

“Tranquilli” padri di famiglia fino a un momento prima dell’attentato a Graziani, si trasformarono in implacabili assassini nei tre giorni successivi. Ed è così che Addis Abeba, città africana, per tre giorni fu desertata dagli africani! Con queste parole Paolo Borruso descrive la follia genocidiaria di quei giorni: p. 89.

Testimone delle atrocità il giornalista Gino Poggiali il quale scrisse nel suo diario segreto: p. 210-211 (Angelo Del Boca).

Le violenze sarebbero sicuramente continuate al di là dei tre giorni se non fosse intervenuto Mussolini preoccupato per la presenza di diplomatici stranieri in città i quali stavano scattando molte fotografie di quanto vedevano. Fu così allora che Graziani dal suo letto di ospedale ordinò a Cortese di cessare con il massacro.

Difficile quantificare le vittime: sicuramente alcune migliaia di abitanti di Addis Abeba. Tremila, probabilmente. E’ inutile dire che le repressioni continuarono nelle settimane successive (4000 deportati in Italia e nei lager somali ed eritrei).

Non sbaglieremmo a individuare nella completa distruzione della classe dirigente etiope il vero scopo di tanto sangue. Debre Libanos, in questa prospettiva, è solo l’ultimo capitolo di questa storia.

Nella rete della repressione finirono nelle settimane successive anche i cantastorie, indovini e stregoni di Addis Abeba che secondo Graziani avevano predetto la sconfitta italiana.

E’ evidente, anche in questo caso, la volontà di privare il popolo etiope di ogni punto di riferimento culturale e identitario. Sono fucilati anche gli allievi della scuola militare di Olettà, la futura classe dirigente del paese.

Debre Libanos – Il più grave crimine in terra d’Africa

Tornato al “lavoro” Graziani sapeva bene che i massacri di Addis Abeba non avevano risolto il problema sia della resistenza armata sia della presenza in ampie aree del rifiuto dell’occupazione italiana.

L’obiettivo ora era “spezzare le reni” della intellighenzia abissina colpendo il cuore della religiosità cristiano-copta del paese. La distruzione del monastero di Debra Libanos e la messa a morte dei religiosi del monastero era la via da perseguire.

Il monastero di Debre Libanos (a 100 chilometri circa dalla capitale) apparteneva alle origini del cristianesimo abissino. Dal XIII secolo era tornato a essere il punto di riferimento religioso dell’intero paese. Forti legami con il potere politico imperiale avevano assicurato ai monaci la protezione personale dei vari negus.

Graziani aspettò il mese di maggio per far scattare la repressione perché dalla metà del mese sarebbe affluiti al monastero molti pellegrini per la festività più importante nel calendario copto. Con i monaci, diaconi, autorità religiose, studenti di teologia … nella rete sarebbero caduti anche molti fedeli.

Il pretesto per Graziani era stata la presenza nel monastero dei due attentatori nel giorno successivo all’attentato. In realtà i due raggiunsero il monastero tramite un complice alla guida del proprio taxi solo perché nel monastero c’era da poco la moglie di uno dei due. Bastò solo questo per incolpare centinaia di pacifici monaci.

La stessa storiografia etiope ha messo in evidenza che l’organizzazione dell’attentato fu dovuta ai soli tre attentatori. Dietro di loro non c’era nessuna organizzazione di alto livello con a capo una parte dei religiosi del monastero. Anche Paolo Borruso è convinto che i tre abbiano fatto da soli.

Si prepara il massacro

Dall’inizio del mese di maggio affluirono molte truppe italiane nella zona del mnastero ma il movimento di soldati fu giustificato come preventivo rispetto ad atti di terrorismo compiuti dai partigiani locali.

Così tra i monaci non si diffuse alcun timore per una eventuale trappola in cui sarebbero caduti i religiosi. Anzi tra la gente furono mandati in primis i carabinieri, abbastanza apprezzati dalla popolazione per un certo fare pacioso e rassicurante.

A partire dal 20 maggio scattò la trappola: l’intera comunità religiosa di Debre Libanos fu caricata su numerosi camion per essere sterminata poco lontano in luoghi assai poco frequentati. Pochissimi riuscirono a fuggire. Autore e fedele esecutore degli ordini di Graziani, il generale Maletti.

In gran parte la mattanza fu compiuta da reparti libici mussulmani (libici e somali) o reparti di ascari eritrei i quali per ragioni storiche odiavano gli etiopi (in Libia anni prima la mattanza era stata compiuta da ascari etiopi).

Aver aizzato gli odi religiosi ed etnici è un’altra colpa degli “Italiani brava gente”.

Così Graziani si espresse su Debre Libanos: p. 221 (Del Boca).

Quante vittime a Debre Libanos?

Secondo ricerche storiche recenti, compiute in loco dallo storico inglese Ian Campbell, si va da un minimo di 1423 a un massimo di poco superiore alle duemila vittime (452 il dato ufficiale), alle quali dobbiamo aggiungere i massacri di Addis Abeba e i 250.000 etiopi uccisi in guerra.

Ecco perché parecchi anni fa lo storico Angelo Del Boca ha proposto che il 19 febbraio diventi il Giorno della Memoria dei crimini compiuti dal colonialismo italiano.
E’ inutile dire che finora nessun politico italiano si è prodigato affinché la proposta di Del Boca avesse attuazione.

Da notare che i massacri avvennero senza che dal Vaticano si levassero critiche. Sappiamo però che il papa (Pio XI) fu subito informato. Anche nei decenni successivi la chiesa ha mantenuto un grande riserbo sulla vicenda.

Eppure si trattava di cristiani simili ai cattolici romani. L’Etiopia rappresentava il più grande insediamento di cristiani in terra africana.

Le spoliazioni

Altro scempio a Debre Libanos furono i furti del ricchissimo tesoro del monastero che custodiva anche preziose opere d’arte appartenute agli ultimi negus. Tutto fu rubato dal monastero.

Quando Haile Selassie tornò nel 1941 trovò solo i resti della grande chiesa del monastero, un grande silenzio (tutti i monaci erano stati uccisi, deportati nei campi di concentramento italiani oppure erano fuggiti), i tucul dei monaci incendiati o in rovina e il furto di ogni bene della chiesa etiope.

Il trattato di pace del ’47 obbligava l’Italia a ridare al popolo etiope tutto ciò che era stato trafugato in quegli anni ma ad oggi nulla è stato riconsegnato (tranne la stele di Axum alcuni anni fa).

Che fine ha fatto il tesoro di Debre Libanos?

Oggi avrebbe un valore inestimabile, arricchito da quattro grandi corone d’oro, che erano quelle dell’incoronazione degli ultimi negus. Nessuno può dirlo. Forse una parte si trova nel Vaticano, probabilmente tanti altri pezzi in collezioni private. Badoglio stesso era tornato in Italia nel ’36 con circa 300 casse contenenti opere d’arte trafugate dovunque.

Lager italiani in colonia

Come se non bastasse tutto ciò, per i monaci scampati alla mattanza o per personalità di rilievo del mondo abissino ci fu il grave capitolo delle deportazioni in strutture detentive in Italia e in alcuni orribili campi nel Corno d’Africa, come quello di Danane in Somalia o di Nocra in Eritrea.

Sul lager di Danane (mortalità del 50 per cento) Borruso ci propone la testimonianza di un dignitario etiope: pp. 146-147.

Schiavitù in colonia

Durò poco la colonizzazione italiana, almeno fino al 1941 (anno della caduta dell’Etiopia di fronte all’offensiva inglese), ma in questi anni i terreni migliori dell’altipiano passarono nelle mani di affaristi italiani i quali ripristinarono quella schiavitù che nelle intenzioni il governo italiano avrebbe dovuto estirpare con la fine della “barbarie” etiope.

Sui metodi degli schiavisti italiani in Somalia abbiamo testimonianze sulle piantagioni di Genale (da p. 145, Del Boca).

Apartheid ad Addis Abeba

La nostra storia non è ancora finita. Pensando di rimanere a lungo ad Addis Abeba politici e pianificatori dettero vita già nel ’37 a un regime di netta separazione razzista tra italiani e indigeni che trovò attuazione in una serie di piani edilizi e urbanistici che solo in parte vennero realizzati (nel giugno del ’40 l’Italia è di nuovo in guerra).

In ogni caso erano previsti nella capitale quartieri per indigeni e quartieri per italiani, cinema per gli uni e gli altri, locali pubblici dove l’incontro tra le due “razze” sarebbe stato impossibile.

La lotta contro il “madamato” e la scomparsa di “Faccetta nera” in colonia andarono in questa direzione.

Da notare due cose: l’apartheid ad Addis Abeba (era l’unica vera città in Etiopia) precedette l’apartheid in Sud Africa e la legislazione del ’37 fornì spunti per la legislazione antiebraica del ’38.

Nebbie di memoria

Con l’andare del tempo la memoria di Debre Libanos si è persa, complice l’atteggiamento ambiguo dei governi repubblicani, poco inclini ad approfondire episodi negativi del nostro recente passato, ma anche a causa della politica della nuova Etiopia dopo il ‘45, più attenta alle opportunità internazionali per annettere l’Eritrea quanto all’importanza di denunciare ciò gli italiani avevano fatto.

Del resto lo stesso Haile Selassie aveva chiesto al suo popolo di evitare vendette e ritorsioni ai danni degli italiani rimasti in colonia. Bel gesto secondo alcuni, per altri invece furba politica volta a non privarsi dell’apporto economico e tecnologico italiano in vista della ripresa del paese.

Ed è così che il più grave massacro di africani di tutta la storia moderna è stato colpevolmente dimenticato nelle “nebbie” della memoria.