L’8 Marzo tra storia e modernità
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Pietroburgo, 8 marzo 1917
Dopo il centenario della Rivoluzione bolscevica in Russia (2017) credo che ormai non è possibile avere più dubbi sull’origine storica dell’8 marzo quale Giornata Internazionale della Donna.
Il 23 febbraio 1917 a Pietrogrado, capitale allora della Russia zarista, ci fu una grande manifestazione di protesta delle donne della città. Chiedevano a gran voce pane, legna, carbone… e soprattutto che finisse quella maledetta guerra che fino a quel momento era costata la vita ad alcuni milioni di soldati russi falcidiati dalle mitragliatrici tedesche e austro-ungariche oppure morti nel gelo dei Carpazi a combattere una guerra voluta dalla sola classe dirigente zarista.
In genere nelle città russe le proteste finivano nel sangue con l’intervento dei cosacchi oppure delle truppe di stanza nelle città.
Quel giorno invece incredibilmente i cosacchi non intervennero e neppure i reparti di polizia. Nel frattempo, in quelle ore, alla protesta delle donne si erano uniti gli operai in sciopero del quartiere operaio di Viborg.
Nelle ore centrali di quel giorno (in realtà era l’8 marzo, Festa della Donna, secondo il calendario gregoriano) le vie gelide di Pietrogrado erano percorse da una folla di 250.000 persone che chiedevano la testa dello zar e l’immediata fine della guerra.
Allo zar Nicola II vennero addossate tutte le responsabilità della nefasta conduzione della guerra e fu scaricato anche dalla stessa classe dirigente russa. Il risultato fu in ogni caso più che significativo: dopo trecento anni la dinastia dei Romanov era caduta e la Russia era diventata una repubblica!
Dopo pochi mesi ci fu un’altra rivoluzione, ancora più importante e nelle giornate di fine ottobre ’17 (7 novembre secondo il calendario in vigore nel resto dell’Europa) i comunisti presero il potere e da quel momento la storia dell’Europa cambiò direzione di marcia.
E’ bello pensare che la più importante rivoluzione politica del Novecento partì dalle donne! Donne operaie e socialiste che in quel momento lottavano per la loro sopravvivenza e chiedevano la fine della guerra.
New York, 25 marzo 1911
C’è un altro fatto in genere associato alla Festa della Donna ed è l’incendio che divorò gli ultimi piani di un edificio a New York il 25 marzo del 1911.
Quel giorno era un venerdì e l’orario di lavoro stava per terminare in quelle che erano chiamate le “fabbriche del sudore” perché le operaie lavoravano a ritmi altissimi sollecitate e insultate in ogni momento da padroni privi di scrupoli.
All’ottavo piano dell’Asch building lavoravano circa 500 operaie della Triangle Shirtwaist Company, la più importante fabbrica tessile di New York, conosciuta soprattutto per le sue bianche camicette alla moda.
Per cause accidentali (probabilmente una sigaretta) i tessuti presero fuoco e nel giro di pochi minuti l’aria diventò irrespirabile. Le operaie erano chiuse all’interno per evitare furti o l’ingresso di sindacalisti per perorare scioperi o proteste.
Quando riuscirono ad aprire la porta presero tutte la scala antincendio ma il numero delle persone la fece crollare. A questo punto erano in trappola. Chi stava all’ultimo piano raggiunse il tetto e grazie a una scala passarono all’edificio a fianco, le altre invece non ebbero vie di fuga.
Molte morirono soffocate dal fumo e poi divorate dalle fiamme, altre invece si buttarono dall’ottavo e dal nono piano come poi novant’anni dopo dalle Torri Gemelle al tempo dell’attacco di Bin Laden (11 settembre 2001).
Alla fine i corpi senza vita soffocati dal fumo, bruciati dal fuoco o morti cadendo dall’alto furono 146, 39 di questi erano donne italiane giovanissime emigrate negli anni precedenti, sole o con la loro famiglia.
Donne ebree dell’Europa orientale, donne italiane provenienti dalle regioni più povere, donne americane delle classi indigenti, tutte unite nello stesso destino fatto di bieco sfruttamento in fabbrica, di totale mancanza di qualunque diritto durante il lavoro e poi morte per gravi carenze sul piano della sicurezza.
Si sa, la sicurezza costa e non è un caso che nella più famosa e moderna fabbrica tessile della Grande Mela (immaginate i profitti!) non c’era nulla che potesse essere utilizzato per un incendio che era largamente prevedibile, non c’erano neppure i secchi pieni d’acqua perché toglievano spazio!
Anche i pompieri di New York quel giorno piansero perchè le scale antincendio non arrivavano all’ottavo piano. Avevano dimenticato di adeguare le loro scale alla città che rapidamente saliva…
Due episodi simbolo: protagonismo politico e schiavitù sociale delle donne
I due fatti sono all’origine dell’8 Marzo e credo che tutti e due ben rappresentino la condizione della donna nel “secolo breve” fino ad oggi.
Da una parte le donne di Pietrogrado sono simbolo delle tante lotte condotte dalle donne nel corso del XX secolo: pensiamo solo alle donne nella Resistenza italiana ed europea al nazismo, pensiamo alle lotte civili in Italia negli anni Settanta e Ottanta quando in gioco erano i diritti essenziali: il divorzio, l’aborto, la parità uomo-donna in fabbrica, il diritto allo studio…; dall’altra le operaie della “Triangle” sono invece l’emblema delle donne sfruttate, calpestate, vilipese e uccise per pochi dollari.
Sarebbe lungo l’elenco delle sofferenze inflitte alle donne in tutti i continenti, dalle mutilazioni religiose al servaggio nel mondo contadino fino alla moderna schiavitù salariale nel rampante capitalismo asiatico dove ogni giorno avvengono tragedie simili alla “Triangle”. Anzi le tragedie spesso sono ancora più gravi vista la straordinaria espansione del capitalismo in alcune aree asiatiche.
La peggiore catastrofe che ha coinvolto donne operaie è quella del Rana Place (Dacca – Bangladesh) del 24 aprile del 2013 quando per il crollo dell’edificio dove lavoravano 5000 operaie e operai tessili (!), morirono sotto le macerie 1.138 persone, nella maggioranza donne e bambine. Tra i corpi furono trovate molte magliette con i marchi più famosi al mondo, esempio Benetton.
Anche questo è un paradosso: donne occidentali che si vestono con T-shirt eleganti e a basso prezzo pagate con il sangue di altre donne!
Nel mondo occidentale tutto bene? Non direi se pensiamo solamente ai femminicidi di cui la cronaca tutti i giorni o quasi ci dà notizia.
C’è un inquietante parallelismo tra le donne che muoiono per mano di bruti e le donne che muoiono per cause di lavoro. I femminicidi nel 2015 sono stati 111, nel 2016 sono stati 120, in gran parte tragedie maturate nell’ambito familiare. Nel 2015 le donne morte per cause legate al lavoro sono state 110 (malattie professionali, infortuni sul lavoro, nel tragitto casa-lavoro, infortuni domestici…).
Una grande tragedia che si consuma ogni anno. Eppure tutta l’attenzione dei media è dedicata ai femminicidi. Delle donne che muoiono per lavoro nessuno ne parla! Verrebbe da dire morte due volte: a causa dello sfruttamento in fabbrica e poi uccise un’altra volta perché subito dimenticate.
La modernità pagata dalle donne
Però c’è un fatto che vorrei sottolineare, di cui nessuno o quasi parla. Nessuno mette in dubbio che molte donne (non certo tutte!) in Occidente hanno realizzato i loro sogni: viaggi, studio, benessere, bellezza, libertà, indipendenza… Nulla a che vedere con la vita delle loro nonne tra campi, fabbriche, guerre e tanti figli.
Ed è proprio questo il problema: la nostra società dà molto alla donna sul piano dell’affermazione personale ma dall’altra depaupera la donna di quanto è più femminile ed essenziale nella sua natura: ossia la facoltà di procreare che è quanto più appartiene alla donna.
In Italia siamo intorno a un figlio per coppia, negli altri Paesi poco più. Troppo poco per mantenere allo stesso livello la popolazione. E c’è qualcuno che ancora non ha capito quale funzione possano svolgere le giovani coppi di migranti in Italia e nel resto dell’Occidente!
L’ ”inverno demografico” (popolazione sempre più vecchia, culle vuote, coppie sterili) è il prezzo che la nostra società impone alle donne. Una ferita alla propria dignità di donne e di madri costrette al figlio unico. Una palese negazione di quanto più contraddistingue nella specie umana la donna dall’uomo.
Sarebbe facile dare la colpa all’egoismo delle coppie giovani che mancano al loro compito riproduttivo. Non cadiamo in questo errore. Dagli Stati Uniti alla Finlandia fino all’Italia il quadro è lo stesso. Per dirla in breve: dove c’è miseria si fanno i figli (l’Africa sta esplodendo a livello demografico), dove c’è benessere i figli sono merce preziosa.
Quante donne vorrebbero più figli? Non poche sicuramente. Ma questo desiderio legittimo si scontra con appartamenti sempre più piccoli, affitti esosi, disoccupazione incombente, futuro incerto o incertissimo, alte spese e prolungate nel tempo per la crescita dei figli (figli a carico fino a 30 anni e oltre), orari di lavoro incompatibili con il dovere di madre, servizi pubblici inesistenti (nel Sud) o carenti (al Nord) e soprattutto molto costosi. Aiuti dallo Stato: zero (o quasi).
E’ uno dei massimi paradossi della modernità: quanto più la società industriale e terziarizzata dà alla donna come affermazione di sé nel lavoro, nel quotidiano… tanto più le toglie a livello riproduttivo lasciandola sola in un’ottica di piatto individualismo e di solitudine precoce.