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la tragedia degli Internati militari italiani

Internati militari italiani

appunti

La deportazione dall’Italia dopo l’8 settembre del 1943 fu davvero imponente e non so quanto conosciuta oggi nel nostro Paese. Furono 770mila circa gli italiani che vennero deportati in Germania, in Austria o in Polonia in strutture chiamate campi di concentramento, campi di sterminio, campi di lavoro e campi di internamento per militari.

615mila furono gli internati militari negli Stalag, 24mila i Triangoli rossi deportati nei KZ, 8500 ebrei italiani finirono ad Auschwitz, ossia in un campo di sterminio, 120mila i lavoratori portati forzatamente nel Reich per lavorare come manodopera a buon mercato nei campi di lavoro.

Destini diversi, destinazioni diverse, diverso anche il trattamento. Ad accomunare queste categorie di persone vi fu il trasferimento forzato nel Reich, le pessime condizioni abitative e spesso la morte.

Questa sera tratteremo solo il caso degli IMI, ossia del destino dei nostri militari dopo l’8 settembre del 1943.

Anticipando le conclusioni potremmo dire che gli IMI furono Traditi, disprezzati, dimenticati, secondo l’efficace definizione di uno dei primi storici tedeschi ad occupari di questo tema.

Traditi da Badoglio e il re (fuga da Roma), disprezzati dalla Germania nazista, dimenticati dalla Repubblica nata dalla Resistenza.

8 settembre 1943

Per capire la tragedia dei militari italiani nei campi di concentramento tedeschi è necessario partire dagli avvenimenti dell’8 settembre 1943.

E’ difficile in poche parole dare un’idea dell’8 settembre ’43 in Italia. Durante la guerra in nessun paese c’è stato un “otto settembre” simile a quello italiano con lo sfascio dell’esercito e la latitanza del governo per alcuni giorni.

Il 3 settembre il governo Badoglio firma l’armistizio con gli angloamericani a Cassibile vicino a Siracusa. L’8 settembre Badoglio parla alla radio e annuncia l’armistizio. Il giorno dopo abbandonano Roma il re, Badoglio, alcuni ministri e la famiglia reale senza dare nessuna disposizione alle forze militari le quali si trovano a che fare con la reazione tedesca. Il risultato fu il caos nell’esercito e 615mila soldati italiani deportati negli stalag tedeschi, ossia nei campi di internamento per militari. È l’inizio dell’odissea degli IMI (Internati militari italiani).

25 luglio 1943

Il punto di partenza per capire l’8 settembre è naturalmente il 25 luglio del ’43 con la sfiducia espressa a Mussolini dal Gran Consiglio del Fascismo e il contemporaneo arresto di Mussolini da parte del re. Finisce il fascismo dopo il Ventennio, senza alcuna reazione del partito fascista e delle varie milizie. Il fascismo finisce senza rumore, senza gloria.

Subito dopo l’arresto di Mussolini il governo Badoglio cerca con esasperante lentezza un contatto con gli anglo-americani per traghettare l’Italia fuori dalla guerra. Tutto avviene in maniera sotterranea per evitare che i tedeschi subodorassero qualcosa. La posizione ufficiale del governo Badoglio è “La guerra continua” mentre in realtà non si vede l’ora di uscire da questa guerra destinata a essere perduta.

Cassibile, 3 settembre

Il 3 settembre a Cassibile, alla presenza di emissari di Einsenhower, il generale Castellano firma l’armistizio. Nel frattempo Badoglio mantiene un assoluto segreto sulla firma del documento.

La speranza di Badoglio è passare da un’alleanza all’altra in modo indolore e che gli americani liberino Roma e vincano la reazione tedesca senza mettere a repentaglio l’esercito italiano e la continuità dello Stato. Obiettivi chimerici smentiti in modo clamoroso dalla realtà.

Badoglio annuncia l’armistizio

Nel pomeriggio del 8 settembre Einsenhower legge alla radio il testo dell’armistizio, poche ore dopo anche Badoglio deve annunciare la resa: Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Einsenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.

L’ambiguità del messaggio spiega il disorientamento, la confusione e alla fine il caos di quei giorni. In sintesi il proclama di Badoglio dice: abbiamo firmato l’armistizio con gli anglo-americani, quindi la guerra è finita. I soldati combatteranno solo se ci saranno atti di ostilità contro di loro.

Non sono nominati i tedeschi i quali erano gli unici a poter reagire con le armi. Ecco perché nel giro di poche ore si passò dall’euforia (la guerra è finita) al terrore derivato dall’aggressione tedesca in una situazione di crescente caos a tutti i livelli.

La fuga del governo e lo sfascio dell’esercito

A questo punto il re aveva due possibilità: o la resistenza armata o la fuga. Scelse la seconda, la più facile. La decisione di fuggire senza lasciare ordini precisi fu voluta dal re per evitare quanto più possibile scontri con i tedeschi. Il re voleva salvare con la propria persona la monarchia. Non vi fu neppure il tentativo di difendere Roma nonostante nella capitale ci fossero sei divisioni italiane contro due tedesche.

Il re fugge il 9 settembre (ore 5 del mattino) da Roma. Fuggono con lui anche Ambrosio e Roatta, ossia l’intero Stato Maggiore dell’esercito. Destinazione una città sotto il controllo alleato. Sarà Brindisi.

“Tutti a casa!”

Il risultato fu il caos e lo sbandamento dell’esercito. Non c’è dubbio che l’8 settembre fu pagato duramente soprattutto dall’esercito. Molti generali e ufficiali rimasti senza ordini fuggirono subito seguiti dai soldati. Il timore di una violenta reazione tedesca spiega i gravi fenomeni di sbandamento che avvennero un po’ dappertutto (Potenza, Napoli, Alto Adige, Milano…).

Altrove invece i presidi più forti si opposero con le armi ai tedeschi: a Gorizia, Trieste, Cuneo, Savona, La Spezia, Viterbo si combattè fino a quando la sproporzione delle forze impose la resa.

Lo sbandamento riguardò l’esercito in Italia (24 divisioni). Lontano dall’Italia le truppe rimasero relativamente compatte (35 divisioni) mentre la marina e l’aviazione rimasero tutto sommato unite.

“Tutti a casa?”.

Interpretare l’8 settembre come nel film “Tutti a casa” di Comencini (1961) è sbagliato. Ci furono episodi significativi di resistenza ai tedeschi: a Porta San Paolo (Roma) un giorno di lotta contro i tedeschi (8-9 settembre) provoca tra le 200 e le 450 vittime (soldati e cittadini). In Sardegna il rapporto di forze era favorevole agli italiani: 120mila uomini contro 25-30mila, eppure il comando locale non fece nulla per contrastare il passaggio in Corsica dei tedeschi. In Corsica invece si combattè e i tedeschi dovettero abbandonare l’isola. Il generale Bellomo a Bari riuscì a impedire la distruzione del porto da parte dei tedeschi.

“Distruggete la Divisione Acqui!”

A Cefalonia dal 15 al 24 settembre si combattè duramente (7.500 morti tra cui 5.000 fucilati). Nell’isola greca avvenne l’episodio maggiore di resistenza ai tedeschi. Il generale Gandin della Divisione Acqui decise di combattere i tedeschi che pretendevano la resa dei 12.000 soldati italiani presenti. I combattimenti iniziarono il 15 settembre ma videro subito il prevalere dei tedeschi, meglio armati potendo contare sull’aviazione che bombardava sistematicamente le postazioni italiane.

Gandin si arrese il 22 settembre. La battaglia aveva provocato la morte di 1300 soldati della Acqui. 4-5000 circa furono fucilati subito dopo la resa perché era arrivato un ordine di Hitler da Berlino che intimava di fucilare tutti gli italiani “traditori” che avevano preso le armi contro i tedeschi. Altri 1300 morirono annegati perché le navi che li portavano verso la terra ferma affondarono a causa delle mine. 3000 soldati diventarono Internati Militari in Germania o in Polonia. Un bilancio tragico.

A Corfù negli stessi giorni ci furono aspri combattimenti, nelle isole dell’Egeo altri scontri. La Resistenza a Lero (isola del Dodecaneso) fu ugualmente significativa: sui 12.000 soldati italiani che presidiavano l’isola ne sopravvissero solo 1500 (16 novembre ‘43).

Ci fu invece chi decise di rimanere con i tedeschi. La divisione paracadutisti “Nembo” in Sardegna si spaccò in due: una parte maggioritaria con i tedeschi, un’altra parte invece prese le armi o fuggì.

L’assoluta mancana di ordini di alcun genere e il terrore di un intervento tedesco spiegano lo sfascio dell’esercito che avviene in modo incredibile nel giro di un giorno. Il risultato fu poco più di un milione di soldati italiani catturati dai tedeschi: circa 200.000 fuggirono approfittando della confusione, altri 180.000 decisero di passare dalla parte dei tedeschi e quindi tornare poi in Italia per combattere nelle nuove formazioni fasciste repubblicane, ma 615.000 soldati furono internati nei campi militari in Germania e Polonia.

Bilancio dell’8 settembre ’43

Il bilancio dell’8 settembre ’43 è tragico: 650.000 soldati italiani deportati nel Reich, 20.000 morti in quei giorni (fucilati (6-6500), uccisi in combattimento, annegati (circa 13mila)), 5mila dispersi, più enormi quantità di materiali bellici perduti. Negli stalag tedeschi moriranno circa 30.000 soldati fino alla liberazione nell’aprile-maggio del ’45. In più l’8 settembre volle dire una grave perdita di credibilità del governo italiano presieduto da Badoglio.

Gli IMI e i nazisti

L’ampia introduzione è stata resa necessaria per capire la tragedia degli IMI, ossia dei militari italiani catturati e inviati come bestie in Germania per lavorare in forma coatta. Nel momento della cattura si diceva loro che sarebbero stati rimpatriati. Poi in Slovenia i vagoni erano chiusi e prendevano la via dell’Austria. L’esperienza del viaggio fu traumatica e ritorna in molti racconti.

Potremmo dire che la capitolazione dell’Italia si rivelò un buon affare per la dirigenza nazista perché cadde sotto il controllo tedesco un’area altamente industrializzata: l’Italia del nord. Fu possibile quindi dirigere la produzione a favore delle esigenze belliche tedesche e nello stesso tempo utilizzare un’imponente quantità di manodopera rappresentata dagli ex soldati italiani ora nelle mani tedesche.

Qualche cifra

I tedeschi catturarono nelle giornate convulse dopo l’8 settembre poco più di 1 milione di soldati italiani. Circa 200mila fuggirono approfittando della debole presenza di soldati tedeschi. Rimasero nelle mani dei tedeschi circa 800mila soldati. Nel momento della cattura il 23% dei soldati e degli ufficiali si dichiarò a disposizione come “alleato volontario” della Wehrmacht, della Luftwaffe, delle SS o aderì a Salò (in totale 186mila). Rimasero circa 615mila ex militari che divennero poi IMI.

Questo risultato poco edificante per Mussolini invece era ottimo per i tedeschi che avevano già deciso di utilizzare il grosso degli internati per il lavoro coatto. La RSI contava molto sui prigionieri di guerra per far rinascere un esercito fascista.

La RSI e gli IMI

La presenza di oltre 600mila soldati italiani prigionieri oltre confine metteva a disagio le autorità della Rsi nei rapporti con la popolazione italiana. La “collaborazione obbligata” con il Reich mostrava così il volto più vero: non un’alleanza alla pari ma un’“alleanza” fortemente squilibrata. In poche parole la qualifica di IMI nascondeva a malapena l’effettiva prigionia.

A Berlino non si prende neppure in considerazione la possibilità di un nuovo esercito italiano per il timore di un “secondo tradimento”. Dall’altra parte Salò aveva bisogno di salvare la faccia.

– La qualifica di IMI, invece del più freddo “prigionieri di guerra”, doveva permettere a Salò di non ammettere prigionieri nelle mani degli alleati.

– E poi la qualifica di “prigionieri di guerra” poi avrebbe voluto dire riconoscere l’autorità del Regno del Sud mentre l’unica autorità in Italia era rappresentata da Mussolini. Nella memorialistica invece la qualifica di IMI era nata solo per evitare la presenza della CRInternazionale e quindi per punire gli italiani per il presunto “tradimento”.

I tedeschi permettono a un organismo italiano del ministero degli Esteri (SAI) di prendersi cura degli ex soldati ma la carenza di risorse, le ambiguità tedesche non permisero in misura adeguata gli aiuti. La CRItaliana avrebbe voluto fare di più a patto però di avere più spazio nell’organizzazione degli aiuti.

Anfuso da Berlino limitò molto il ruolo della CR Italiana per ragioni di immagine: doveva essere il fascismo a fornire gli aiuti. I tedeschi rifiutarono la collaborazione della CR internazionale affermando che dell’assistenza si occupavano gli italiani. Alla fine il risultato fu una palese insufficienza degli aiuti per gli ex soldati. Anfuso considerava gli internati politicamente inaffidabili e scarsamente motivati.

Odio anti italiano

Subito dopo l’8 settembre in Germania la propaganda ha buon gioco a eccitare la popolazione contro gli italiani. Poi gli IMI rientrarono anch’essi tra i “traditori” perché non avevano aderito alla Germania o alla RSI. Sulla stampa compaiono pregiudizi razzisti nei confronti degli italiani. Le autorità tedesche oscillano tra la punizione per il tradimento e la razionale utilizzazione in quanto manodopera schiava. Prevale nettamente la seconda opzione.

Speer e le aziende tedesche nella gestione degli IMI

“Adesso tutti, ma proprio tutti quelli che hanno bisogno di manodopera si buttano sugli italiani” (Gobbels).

Artefice dell’utilizzo della manodopera Imi nelle aziende belliche fu Albert Speer, onnipotente ministro per gli Armamenti. Speer voleva decentrare una serie di competenze sulla gestione dei lavoratori alle imprese, favorire le grandi imprese e privilegiare le imprese belliche a scapito di altri settori. Speer agiva in collaborazione con i rappresentanti delle grandi aziende molto interessate alle forniture di materie prime e alle commesse. Gli obiettivi industriali erano individuati in sede centrale, l’esecuzione spettava al settore privato.

Verso la metà del ’43 mancavano all’economia bellica tedesca 1 milione e mezzo di lavoratori. La libera gestione degli IMI capitava a proposito. L’impiego degli italiani consente di mandare al fronte un po’ di tedeschi. Speer volle un utilizzo immediato degli Imi per evitare arruolamenti “volontari” e per mandarne il più possibile verso le aziende belliche e non più di tanto nel settore minerario. Nonostante tutta la fretta immaginabile molti Imi arrivarono a destinazione nelle fabbriche nei primi mesi del ’44 dopo lungaggini, conflitti di competenza, mancanza di trasporti e altro.

La migliore condizione degli ufficiali

Solo i soldati e i sottufficiali furono usati come manodopera, non gli ufficiali in ottemperanza alla Convenzione di Ginevra del 1929.

Le condizioni di lavoro

“Sempre il solito regime di vita: sei giorni al lavoro e la domenica chiusi dentro come delinquenti”.

Appena arrivati nelle zone più industrializzate gli ex soldati dovettero fare i conti con la mancanza di alloggi oppure abitare in alloggi improvvisati. Speer impose alla W. di sorvegliare i nuovi campi anche se non tutte le norme di sicurezza erano rispettate.

Molte aziende stabiliscono d’accordo con Speer di continuare la produzione durante gli allarmi aerei. Gli incidenti in fabbrica colpiscono soprattutto la manodopera straniera, che si trova al basso nella scala gerarchica politico-razziale. Appena arrivati in fabbrica c’è il problema della lingua e un vero e proprio addestramento professionale non c’è. Per gli incidenti sul lavoro conta anche lo sfinimento dovuto a fame e stanchezza con le frequenti punizioni fisiche.

Ogni stalag madre aveva più sottocampi di lavoro. Molto richiesti erano gli specializzati, ma erano pochi perché molti soldati provenivano dall’agricoltura e dall’edilizia. Le condizioni di vita era un poco migliori nelle piccole-medie aziende. Vennero utilizzati anche per rimuovere le macerie delle abitazioni nelle città dopo i bombardamenti (lavoro molto pericoloso). Per andare al lavoro era necessario fare tragitti tra i due e i sei chilometri (andata e ritorno).

La produttività

La produttività degli IMI nelle piccole-medie aziende era pari all’80-100% dei lavoratori tedeschi. Nelle grandi aziende diminuiva notevolmente. Nei settori peggiori, es. le miniere, era forte la sproporzione tra quanto richiesto e la situazione alimentare. In ogni caso il rendimento dipese molto dalle condizioni di utilizzo del lavoratore.

Per ottenere una migliore resa furono molto utilizzate misure coecitive come: riduzione delle razioni, aumento della giornata lavorativa, punizioni corporali, il cottimo ecc.

Nella seconda metà del ’44 la produzione bellica tocca livelli mai raggiunti con il prolungamento dell’orario di lavoro e una razionalizzazione dei processi produttivi.

Nell’ambito della “guerra totale” la settimana lavorativa è di 72 ore. Il maggior sfruttamento dei lavoratori coatti serviva anche per non peggiorare più di tanto le condizioni dei lavoratori tedeschi. In genere una domenica su quattro è libera. Sono le aziende a gestire e stabilire orari e condizioni di lavoro.

Alimentazione

C’era una notevole differenziazione tra le diverse categorie di prigionieri di guerra o lavoratori civili. Al fondo i “lavoratori dell’Est”, gli IMI e i prigionieri di guerra russi (categoria peggiore). Sono le aziende stesse a usare l’arma del ricatto alimentare per ottenere di più ma così nasceva un circolo vizioso tra denutrizione, scarsa produttività, riduzione del vitto e così via. Solo chi riceveva pacchi poteva avere un’alimentazione appena accettabile, ma erano pochi, soprattutto ufficiali.

Gli italiani non ebbero aiuti dalla Croce Rossa e la SAI fu nettamente inferiore ai compiti che doveva assumere. Tra giugno e settembre arrivarono in media a ogni internato 5,3 kg di cibo.

Con il dicembre ’43 la razione quotidiana è di 550 gr. di patate e 250 gr. di navone. Ulteriori diminuzioni nel ’44. Le conseguenze erano molte giornate perse per malattia. Contro i “simulatori” si riducevano ulteriormente le razioni e si minacciava violenza. Alla fine della guerra le razioni non superavano le 1350 calorie rispetto alle 2250 che dovevano essere assicurate. Molte volte a mezzogiorno gli internati non avevano nulla. Il cibo solo alla mattina e alla sera.

Le razioni supplementari erano assicurate solo con il cottimo e il raggiungimento degli obiettivi quotidiani. Le ore di lavoro per avere supplementi erano 75. In ogni caso le razioni supplementari non colmavano il deficit calorico. Spesso le aziende non davano quanto previsto, es. la zuppa, perché il rendimento era stato scarso. Quindi al ritorno nello stalag l’internato aveva meno del previsto.

Anche le punizioni corporali erano utilizzate come strumento per ottenere una migliore resa. Speer approvava queste misure, soprattutto l’alimentazione commisurata al rendimento. L’alimentazione differenziata serviva anche per disgregare i legami di gruppo. Capisquadra e capireparto diventavano gli arbitri dell’alimentazione degli internati. Le assenze per malattia nei settori peggiori erano pari al 25%.

I comportamenti delle aziende sono contraddittori: da una parte le aziende che aderiscono volentieri alle direttive che arrivavano dall’alto, dall’altra altre ci sono aziende preoccupate per la riduzione della produttività e per le alte percentuali di ammalati. In ogni caso anche queste aziende ebbero poche risorse da convogliare nei propri stalag perché vari organismi sopra di loro non consideravano importante l’alimentazione dei prigionieri di guerra (tranne americani, francesi, inglesi, belgi).

L’esperienza della fame tra gli IMI

“Chi non lavora sono guai e si resta quasi senza mangiare, dunque si deve lavorare per forza”. Gli operai specializzati erano trattati meglio perché potevano beneficiare dei supplementi e il loro lavoro era sicuramente meno pesante rispetto ai non qualificati.

– Vitto in uno stalag vicino a Berlino: mattino 150gr. di pane, 25 margarina, 25 marmellata; la sera mezzo litro di acqua con 4-5 patate. Due-tre volte alla settimana 25 gr. di salame. Con il passaggio a “lavoratori civili” la situazione migliorò, ma durò poco perché con gli ultimi mesi di guerra divenne ancora proibitiva.

L’abbigliamento

Un paio di citazioni eloquenti (Renata):

“Senza cambi di biancheria, senza possibilità di ripulirci stiamo diventando a poco a poco degli stracciati e dei luridi accattoni. Cacciamo lumache, gatti e topi. Nelle immondizie cerchiamo bucce di patate, residui di rape e carote. Nessuno può aiutarci anche perché gli altri civili stranieri sono a corto di viveri”.

“La cosa ossessionante era la fame via via che passavano i giorni e i mesi. L’organismo era debole, perché quel che potevi mettere sotto i denti era troppo poco e noi eravamo in miniera e bisognava lavorare. Arrivarono le malattie e morirono molte persone. Eravamo come lupi, sempre alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Così questa cosa con la fame è diventata una continua ossessione”.

La situazione alimentare degli ufficiali era sicuramente migliore, in più non lavoravano. Ricevevano un numero maggiore di pacchi da casa e dalla SAI.

La retribuzione

Le aziende pagavano un salario per loro molto vantaggioso. Anche i reclusi erano pagati, però in Lagergeld, una sorta di moneta che aveva corso solo nei lager e serviva per comprare poche cose, quasi mai cibo. In caso di basso rendimento la quota salariale per il lavoratore diminuiva. Si avvantaggiava lo stalag che aveva più denaro da gestire. Gli spacci vuoti (birra, sapone, sigarette) fanno perdere al Lagergeld ogni attrattiva, così le aziende ricorrono a premi in cibo. In questo modo il costo di un IMI era pari al 65% rispetto a un lavoratore tedesco.

Uno dei motivi di questa situazione era permettere al lavoratore tedesco e al popolo tedesco di continuare ad avere un regime alimentare alto nonostante la guerra. L’esperienza della Prima guerra mondiale insegnava.

Disciplina e punizioni

Era esercitata direttamente dalle aziende con i loro fiduciari. I soldati della W. assicuravano che nessuno scappasse dalla fabbrica e durante gli spostamenti. I capisquadra ebbero molti poteri e spesso picchiavano senza specifici motivi.

“Resistenza senza armi”?

Il comportamento degli IMI era caratterizzato da apatia, stanchezza piuttosto che da un’esplicita volontà di ribellione fondata su motivazioni politiche. Nello stesso tempo non si trova traccia di una resistenza collettiva e politicamente motivata.

Ben pochi indizi quindi alla tesi di una “Resistenza senza armi”. Questo mito è nato in un momento in cui la memoria degli IMI rischiava di scomparire di fronte alla predominanza della Resistenza armata (Rochat). Solo dagli anni Ottanta è stato possibile definire meglio la realtà.

Sabotaggio?

Anche il sabotaggio fu poco nulla praticato per l’ampia e meticolosa sorveglianza. L’ unico atteggiamento possibile era la resistenza passiva e individuale che però si scontrava con il sistema delle punizioni e il terrore in cui vivevano gli IMI. Quindi i margini per comportamenti “scorretti” erano molto ridotti.

“Non reagisce un uomo che non ha forza. Non sta più in piedi. E’ come un malato, come si faceva a reagire? Non sentivamo neanche più la rabbia”. Al massimo si faceva finta di lavorare o si “andava piano”.

Talvolta gli IMI si ferivano volontariamente per es. gettandosi sul piede acqua bollente. Infatti solo in casi di forte menomazione si era ricoverati in “infermeria”.

I rapporti con i tedeschi

I capisquadra erano molto arroganti e violenti, talvolta anche i lavoratori tedeschi ma non sempre. Nelle memorie anzi si mettono in evidenza i legami che nacquero con i lavoratori tedeschi, non subito, ma con l’andare del tempo.

”All’inizio Badoglio.. poi Italiener… alla fine camerat”. Giornali e aziende raccomandavano sempre di evitare rapporti con gli italiani e gli altri prigionieri. Altri tedeschi invece ebbero dagli IMI preziosi in cambio di pane.

Le condizioni di vita negli Stalag

Le condizioni di vita e lavoro nei Kz erano “di gran lunga peggiori” (G. Hammermann). Nel Reich esistevano 60 grandi Stalag e una miriade di piccoli e medi. All’inizio le condizioni di vita sono ancora peggiori rispetto ai mesi successivi. In ogni caso le condizioni di vita rimasero sempre animalesche:

“Vivono in ambienti malsani e inadatti, i pagliericci contengono terra e polvere al posto della paglia perché il contenuto è sempre lo stesso da mesi ed è pieno di parassiti di tutti i tipi” (direttore SAI). Pochissimo sapone e detersivo in polvere. Se però avevano parassiti addosso dovevano continuare l’orario di lavoro.

L’abbigliamento era inadatto perché le divise e gli scarponi erano confiscati per abiti già logori in partenza. Ai piedi avevano zoccoli di legno per contenere i costi e disincentivare le fughe.

Difficili anche gli scambi epistolari. Agli IMI era consentito ricevere solo due pacchi al mese per un max di 5 chili. Ma spesso c’erano ruberie nei pacchi oppure i pacchi nei piccoli stalag non arrivavano. Anche il conforto religioso era reso difficile perché i cappellani erano pochi e stavano negli Oflag. In ogni caso le pessime condizioni di vita erano imputabili soprattutto alle direzioni aziendali.

Pulci, pidocchi e cimici impedivano di dormire la notte. Lo sporco feriva la dignità degli uomini. In genere c’era un lavaggio e una disinfestazione mensili degli abiti e del corpo. Ma poi nelle baracche lo sporco e i parassiti rimanevano. Gli abiti venivano poi restituiti come capitava.

Il problema principale degli ufficiali era la monotonia e l’isolamento. Si cercava di rimediare con una certa attività culturale. Da rivedere la presunta resistenza al fascismo negli Oflag.

La solidarietà

I pensieri e le azioni del singolo miravano a un solo scopo: la sopravvivenza. Non c’erano quindi le condizioni per azioni di solidarietà tra gli internati. Oppure c’erano ma solo a livello di gruppi ristretti a base regionale. I nervi erano sempre eccitati e bastava un nonnulla per provocare risse e alterchi. Il sovraffollamento faceva il resto. Rare anche le discussioni politiche tra i soldati.

I reati e le punizioni

Non fu infrequente l’uso delle armi contro gli IMI per fughe, rifiuto del lavoro o altro. Le punizioni corporali erano molto più diffuse.

Erano angherie per spezzare il morale i lunghi appelli, le violenze senza perché, gli insulti, il disprezzo, gli esercizi ginnici la sera o la mattina. Spesso erano le aziende ad aizzare alle violenze quando la produzione calava.

Come sistema di punizione c’erano le docce di acqua gelata. Spesso erano puniti coloro che chiedevano il ricovero nell’infermeria. Era un rischio chiedere l’intervento medico. Erano ricoverati solo coloro che crollavano sul lavoro. Spesso non tornavano indietro. In ogni caso chi era ricoverato mangiava meno. Negli “ospedali” solo “urla e morti”.

La privazione del vitto era molto temuta. Le punizioni collettive miravano a spezzare i deboli legami esistenti. Molti malati di tifo (scarsa igiene, acqua inquinata, salmonella) e tubercolosi.

La trasformazione in lavoratori civili

Il motivo principale è per elevarne la produttività. Il provvedimento è adottato contemporaneamente alla “guerra totale”. Mussolini preme su Hitler sostenendo che ci sono 6-7 milioni di famiglie italiane interessate con risvolti propagandisti evidenti.

Il provvedimento è del 3 agosto ’44. Il contratto prevede lo stesso trattamento della manodopera civile italiana. L’opinione pubblica italiana reagisce con sospetto.

In molti campi gli internati non firmano l’adesione nonostante la minaccia delle punizioni, esempio essere inviati nei temuti campi di rieducazione al lavoro. Non fu tanto opposizione di tipo politico quanto il timore  di apparire a guerra finita “collaborazionisti” dei tedeschi oppure altri temevano un inganno e quindi essere mandati al fronte a combattere o a scavare trincee. Il sospetto che fosse una trappola era molto forte.

Per superare questa reticenza il 4 settembre la trasformazione in lavoratori civili avvenne d’autorità. Anche gli ufficiali vennero costretti a lavorare.

Una forte opposizione ci fu anche tra gli ufficiali, non tanto per motivazioni politiche quanto per il timore di ripercussioni negative dopo la guerra. Per esempio era forte il timore che lo Stato italiano non aiutasse più le famiglie.

Difficile dare un quadro sintetico: per molti IMI il cambiamento fu positivo, per altri non ci furono cambiamenti sostanziali. Rientravano nel campo (senza più filo spinato e guardie) alle 21 o 22. Potevano andare al cinema o a mangiare in trattoria, potevano incontrare civili e donne… gli abiti però continuavano a essere logori e a volte non potevano entrare nei locali pubblici. Ora è la Gestapo (la polizia) che interviene quando ci sono reati.

In quanto “lavoratori civili” ricevono marchi che possono spendere dove vogliono, anche se sono pochi perché le tasse e le trattenute delle ditte sono molto alte (per “vitto e alloggio”).

Dall’altra i cambiamenti durarono poco perché già con l’inizio del ’45 la sconfitta ormai imminente stava portando il Paese alla paralisi e i primi a pagarne le conseguenze erano i prigionieri di guerra di tutti i paesi tranne gli occidentali.

Gli ultimi mesi

In alcuni casi il comportamento delle guardie divenne più duro, in altri casi migliorò. Alla fine della guerra ci furono anche esecuzioni in massa degli IMI per ragioni non del tutto chiare. Vennero costretti allo sgombero dai lager con modalità che ricordano i prigionieri dei KZ (“marce della morte”).

La liberazione

Fu accolta ovunque con comprensibile gioia. Con gli americani i problemi di fame finirono subito, con gli inglesi ci fu dell’astio, con i russi l’alimentazione continuò a essere un problema non risolto. I sovietici poi utilizzarono gli IMI per il lavoro coatto: sgombero macerie.

Il ritorno a casa

Quasi tutti gli IMI tornarono a casa con il dicembre ’45. Il ritorno fu abbastanza rapido con gli americani (anche se gli IMI non furono certo i primi a tornare a casa), decisamente più lungo con i sovietici (in alcuni casi gli IMI furono portati nel territorio sovietico).

Rimpatrio e mancata integrazione

A partire dal luglio ’45 ogni giorno passavano dal Brennero 7mila ex IMI. I campi di accoglienza scoppiavano. Molti erano i malati infettivi (tubercolotici). Finalmente la Croce Rossa è molto attiva. Tra ex IMI ed ex prigionieri di guerra nelle mani degli Alleati finita la guerra c’erano 1.400.000 reduci. I sovietici rilasciarono 12.500 prigionieri.

Nasce subito l’astio degli ex Imi nei confronti dei partigiani vincitori. Nell’agosto del ’45 ci furono due grandi manifestazioni di protesta di ex soldati. I pochi benefici nell’Italia povera del ’45 erano a vantaggio solo dei partigiani: lavoro, aiuti, denaro, ricompense.

“Vediamo questi partigiani, questi liberatori, benvestiti, bere, cantare, passarci vicino perché son forti loro, perché il governo molto spesso li premia. E noi? Per chi fu il nostro sacrificio dunque? Per chi abbiamo rifiutato di collaborare con il nemico?”. Tornarono in un’Italia che voleva dimenticare il passato.

Video Napoli Milionaria

Suscitavano sconcerto poi i cambiamenti intervenuti nell’Italia del dopoguerra: nuovi attori politici, nuove ideologie. Per chi nei lager aveva mantenuto il suo credo, es. gli ufficiali monarchici, fu un duro colpo. Gli ideali di patria dopo il ’45 subirono un duro colpo, altro aspetto che suscitò disappunto tra gli ex IMI. Pesa di di loro il sospetto di “collaborazionismo”. Soprattutto non possono entrare a far parte del gruppo dei “vincitori”.

Solo con la storiografia della fine degli anni Ottanta si prende in considerazione la loro storia. La riabilitazione è stata solo morale ma priva di aspetti economici.

Risarcimenti?

Gli Alleati considerano gli IMI “ex alleati del nemico”, infatti vennero rimpatriati tra gli ultimi. Gli organi competenti italiani fecero propria questa qualifica anche per chiudere subito la stagione dei contenziosi che avrebbero rischiato di pesare sulle disastrate casse dello Stato italiano. Si dice che con il pasaggio a “lavoratori liberi” gli IMI erano stati retribuiti e il lavoro era stato volontario. Non ci furono rimborsi per nessuno. Al loro ritorno in patria gli ex ufficiali ricevono sporadici aiuti di tipo alimentare.

Pesava inoltre la difficoltà di far rientrare gli IMI nella nuova Italia fondata sulla Costituzione e sulla Resistenza. Gli IMI ricordavano piuttosto la disfatta dell’8 settembre. Anche i lavoratori italiani in Germania vennero considerati “collaborazionisti” senza distinguere chi era andato volontariamente rispetto a chi era stato precettato.

C’erano poi problemi giudirici internazionali: la categoria degli IMI non era riconosciuta da nessuna legge e i prigionieri di guerra non potevano chiedere il lavoro non pagato per il semplice motivo che i prigionieri di guerra non dovevano lavorare.

La Germania ha accettato di beneficiare solo i chi era stato nei Kz, gli ebrei e la manodopera schiava.

Nel 1996 il Parlamento europeo ha sollecitato le aziende tedesche a risarcire i lavoratori coatti. Le cifre stanziate sono state oggetto di molte controversie perché le persone erano in numero molto alto.

Una legge federale tedesca del ’96 permette ai singoli di agire individualmente contro ditte tedesche e la stessa Repubblica federale tedesca. Nel ’99 è creata la Fondazione “Memoria, Responsabilità, Futuro”. Sono messi a disposizione 10 miliardi di marchi. Quando sono iniziati i pagamenti sono rimasti esclusi gli ex prigionieri di guerra. I fondi ridotti hanno spinto gli avvocati a rifiutare i pagamenti perché gli IMI sono sempre stati prigionieri di guerra.

Finora gli IMI (2004) non hanno ricevuto alcun risarcimento per il lavoro coatto a suo tempo esercitato.

Quindi possiamo riallacciarci alle considerazioni iniziali. Gli Imi furono effettivamente Traditi, disprezzati, dimenticati. Il loro sacrificio non fu accolto e compreso e per lungo tempo rimasero ai magini della vita civile italiana.

Ora è tempo di cambiare!