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Lenin e il “Fronte unico” in Italia – Sesto capitolo. Lenin e il movimento operaio italiano

Capitolo Sesto

Lenin e il “Fronte unico” in Italia

Stabilizzazione relativa del capitalismo e strategia della NEP in Unione Sovietica

Nel momento in cui si apre il III Congresso dell’I. C. (22 giugno-12 luglio 1921), alla presenza di di 605 delegati rappresentanti le organizzazioni comuniste di 52 paesi, la situazione mondiale e le prospettive rivoluzionarie sono profondamente mutate rispetto al tempo del II Congresso.

Alla fine del conflitto mondiale, infatti, i dirigenti bolscevichi pensavano alla vittoria di altre rivoluzioni proletarie nei mesi immediatamente successivi.

La caduta della Repubblica ungherese dei Consigli e, in precedenza, l’assassinio di Liebknecht e Rosa Luxemburg, non sembravano chiudere il periodo dell’offensiva operaia ma, al più, sottolineare le difficoltà temporanee dell’ “assalto al cielo”.

Il culmine delle speranze fu raggiunto durante il II Congresso dell’I. C. quando l’esercito rosso si spinse fin sotto le mura di Varsavia: l’eventuale vittoria in Polonia avrebbe accelerato la rivoluzione in Germania e altrove. Ma la sconfitta dell’esercito bolscevico presso la Vistola doveva infliggere un duro colpo al processo di diffusione della rivoluzione mondiale.

E’ vero che ancora nel novembre del ’20 Lenin aveva accennato alla possibilità di estendere la rivoluzione in Inghilterra, Francia e Stati Uniti, “se questi paesi decideranno di istituire il blocco ai danni della Repubblica proletaria e sovietica” (1), ma la stabilizzazione del capitalismo nel ’21 e, soprattutto, il riflusso dell’ondata rivoluzionaria mondiale imponevano di fare i conti con i tempi lunghi della rivoluzione.

Davanti ai delegati di molti paesi europei ed extra-europei era Trockij ad analizzare la situazione mondiale: “Ora vediamo e sentiamo che non siamo così vicini alla fine della conquista del potere, della rivoluzione mondiale. Noi avevamo creduto, nel 1919, che non fosse questione che di mesi e ora diciamo che è forse questione di anni…” (2).

Finito nel ’21 il “blocco” attorno alla Russia, quando in Unione Sovietica si apre un periodo di “pacifica edificazione economica”, in precedenza impossibile, Lenin propone la strategia della NEP anche in relazione ai tempi lunghi della rivoluzione mondiale.

Compito del potere sovietico, dirà Lenin nel marzo ’21, in un paese di piccola produzione contadina, è mettere in atto il passaggio, prima di arrivare al capitalismo di stato, verso il capitalismo privato (3). In attesa della rivoluzione internazionale quindi la trasformazione del sistema economico russo doveva dirigersi non verso il socialismo, come abbiamo già detto in precedenza (4), ma verso il capitalismo di stato: la “costruzione del capitalismo” doveva valorizzare la fase del capitalismo privato in quanto in quelle condizioni sistema economico-sociale progressivo rispetto alla piccola produzione patriarcale.

Bordiga ha sempre contestato che con il “comunismo di guerra” si fossero attuate misure socialiste e poi con la NEP si fosse arretrati verso il capitalismo; anzi, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, ha mostrato nei suoi scritti la perfetta continuità del pensiero di Lenin su questo tema: tutte le misure proposte da Lenin dal ’17 al ’23 non vanno in direzione di nessuna “costruzione del socialismo”, ma al più sono passi “verso il socialismo” in attesa della rivoluzione mondiale in quanto il capitalismo di stato, nella scala delle forme di produzione, è il gradino immediatamente precedente il socialismo (5).

Con la NEP diviene più drammatica, rispetto al tempo dell’ “economia da fortezza assediata”, la forbice tra un potere politico rivoluzionario e una struttura economica orientata vero forme sempre più chiaramente capitalistiche.

Il superamento della contraddizione stava unicamente nel dispiegamento delle energie del proletariato mondiale, o almeno europeo, a favore della Russia dei Soviet: “La prospettiva (di Lenin ndr) rimane dunque quella di un proletariato al potere nella Russia assediata – scrive Giorgio Galli – che può rimanere al potere quanto basta per ricevere aiuto dalla rivoluzione della classe operaia dei paesi capitalisticamente avanzati” (6).

La mancata rivoluzione in Occidente ha significato la fine di ogni possibilità di una trasformazione socialista dell’economia russa e la sconfitta dell’Ottobre: “Era chiaro per noi – dirà Lenin al III Congresso dell’I. C. – che senza l’appoggio della rivoluzione mondiale la vittoria era impossibile. Già prima della rivoluzione, e anche dopo di essa, pensavamo: o la rivoluzione scoppierà subito, o almeno presto, negli altri paesi capitalisticamente avanzati, oppure, nel caso contrario, dovremo soccombere” (7).

Con lo stalinismo, invece, inizierà la parodia della “costruzione del socialismo in un solo paese”, cioè l’edificazione del “socialismo reale” in Unione Sovietica.

Tattica del “Fronte unico” e polemica su Livorno al III Congresso dell’Internazionale Comunista

La concretezza teorico-politica del nesso tra rivoluzione in Occidente e trasformazione economico-sociale in senso socialista in Oriente ispira nell’I. C., nella specifica situazione che si apre con il 1921, la parola d’ordine del III Congresso: la conquista delle grandi masse lavoratrici nell’età della “relativa stabilizzazione del capitalismo”, quale “fase di concentrazione delle forze rivoluzionarie in vista di nuove lotte” e per fare dei partiti comunisti europei “grandi eserciti del proletariato mondiale” (8).

Contro questa tattica, che prendeva atto del rallentato ritmo della rivoluzione, nel congresso si profilò uno schieramento di “sinistra” che, facendo propria la “teoria dell’offensiva”, non esitava a parlare di “svolta” nella politica dell’I. C. dando una contrastante valutazione dei tempi della rivoluzione mondiale.

Facevano parte di questa corrente gli italiani, gli austriaci, la maggioranza dei delegati francesi e polacchi, i tedeschi di Cecoslovacchia e la delegazione del KPD. A parere di Hajek “il centro focale della corrente di sinistra era rappresentato dal Bureau ristretto dell’Esecutivo dell’Internazionale, composto da Zinoviev, Radek, Bucharin, Gennari, Hechert, Bèla Kun e Suvarine” (9).

Uno dei temi, nel congresso, più stimolanti per l’alto livello teorico, è il “modo” in cui era avvenuta la scissione di Livorno e l’atteggiamento da tenere in Italia con gli elementi “centristi” e “semicentristi”. Ma la questione di Livorno era parte di una polemica più vasta che coinvolgeva la strategia dell’I. C. dopo la sconfitta di marzo in Germania e l’espulsione di Paul Levi dal KPD (10).

Non c’è dubbio che la grave sconfitta del proletariato tedesco (definita troppo perentoriamente da Levi “il più grande putsch bakuniano della storia”) (11) fosse derivata da una serie di errori dell’I. C. (nella fattispecie soprattutto di Béla Kun), dall’oggettiva impreparazione politico-organizzativa del giovane KPD, da un certo sinistrismo presente nel partito tedesco, ma anche dalla diversa valutazione nel KPD del tempo storico (linea dell’ “offensiva rivoluzionaria”), rispetto alle valutazioni di Lenin e Trockij al III Congresso.

Fu soprattutto Clara Zetkin, dimissionaria dal CC del KPD dopo l’ “azione di marzo”, rappresentante della “destra” tedesca al congresso, a sollevare polemicamente il problema Livorno dichiarando che la scissione era stata attuata troppo a sinistra, escludendo la maggioranza degli operai: “Io saluto la scissione in quanto è valsa a smascherare i capi poco sicuri ed esitanti. Ma io la deploro in quanto essa tiene centinaia di migliaia di proletari artificialmente lontani da noi” (12).

La Zetkin toccava giustamente anche il problema del ritardo storico del partito rivoluzionario in Italia quando sosteneva che il partito doveva nascere al tempo dell’occupazione delle fabbriche ma (e qui emergeva il carattere strumentale della sua polemica), passata questa occasione favorevole, sarebbe stato necessario temporeggiare.

Contro le tesi della Zetkin e dello jugoslavo Marcovitch, il quale disse che la scissione era avvenuta troppo tardi e senza essere stata preparata adeguatamente, scesero in campo Lenin, Trockij e Rakovski.

In un articolato discorso del 28 giugno Lenin doveva difendere la politica dei comunisti a Livorno: “Per un movimento puramente comunista che è appena all’inizio, in un paese come l’Italia di cui conosciamo le tradizioni, e senza una sufficiente preparazione della scissione, questa cifra (58.000 voti ndr) costituisce un grande successo per i comunisti” (13).

Lenin dimostra di essere pienamente consapevole del ritardo del partito in Italia (“Il partito italiano (socialista ndr) non è mai stato veramente rivoluzionario. La sua più grande disgrazia sta nel non aver rotto con i menscevichi e con i riformisti ancor prima della guerra, sta nel fatto che i riformisti hanno continuato a restare nel partito”) (14), e anche del ritardo nella diffusione della coscienza marxista tra le masse (“Durante l’occupazione delle fabbriche si è forse rivelato un solo comunista? No; in questo momento il comunismo non esisteva ancora in Italia. Si può parlare di una certa anarchia, ma certo non di comunismo marxista”) (15); ma il valore della rottura storica tra bolscevismo e menscevismo in Italia non è assolutamente messo in dubbio. Lo dimostrano le aspre reprimende di Lenin contro Lazzari, il quale chiedeva per il suo partito il diritto di cittadinanza nella III Internazionale (al Congresso erano presenti anche Maffi e Riboldi), senza aver prima espulso i riformisti. Lo dimostrano i violenti attacchi del rivoluzionario bolscevico contro il centrismo serratiano: “Avete preferito l’unione con i 14.000 riformisti e la rottura con i 58.000 comunisti, questa è la migliore dimostrazione del fatto che la politica di Serrati è stata una disgrazia per L’Italia” (16).

Proprio la consapevolezza della necessità di Livorno, ma anche del suo inequivocabile ritardo nel colmare lo iato con il movimento operaio italiano e del carattere minoritario della scissione, spingevano Lenin a una dura polemica con Terracini (e indirettamente con il CC del PCd’I) per non disperdere in un vago sinistrismo i frutti di un evento che indubbiamente introduceva il proletariato italiano nella “storia” superando la “preistoria” dell’influenza riformista e massimalista.

Terracini si era assunto il compito di rappresentare al Congresso la corrente di sinistra e, quindi, la “teoria dell’offensiva” contro la “Lettera aperta” della Centrale del KPD del 7 gennaio ’21 in cui, per la prima volta, si faceva appello agli altri “partiti operai” e ai sindacati tedeschi per azioni comuni a favore delle rivendicazioni immediate degli operai e impiegati.

Non c’è dubbio che Terracini, essendosi assunto il ruolo di “battistrada della sinistra tedesca” (17) e influenzato da Bucharin, accentuasse le linee programmatiche della sinistra centro-europea piuttosto che la linea del PCd’I. Sostituendo la “tendenza statica”, finora predominante nella maggioranza dei partiti comunisti della III Internazionale, con la “tendenza dinamica”, con la cancellazione delle tesi congressuali della parola “maggioranza della classe operaia”, nella condanna della “Lettera aperta”, al di là di ogni autocritica dell’ “azione di marzo”, Terracini doveva mostrare i limiti ancora astratti, dottrinari e anche un po’ scolastici del suo marxismo e, soprattutto, l’incapacità di porsi concretamente sul terreno della lotta di classe nelle condizioni storiche proprie del Terzo congresso (18).

Purtroppo la lezione dell’ “Estremismo”, ad un anno dalla pubblicazione, non era stata ancora pienamente assimilata, e con essa tutte le esperienze bolsceviche di tre rivoluzioni e di tanti anni di lotta politica nelle più diverse condizioni, coagulate nel testo leninista: “Egli ha paura della parola ‘massa’ e la vuole cancellare – affermerà Lenin davanti allo stesso rivoluzionario italiano – Il compagno Terracini non ha capito molto della rivoluzione russa” (19).

Certamente Lenin toccava nel discorso di Terracini i limiti del giovane marxismo italiano, che poi si riverbavano nella difficoltà di Bordiga di comprendere e applicare correttamente in Italia, anche se gli spazi politici per tale progetto (come vedremo) erano molto ristretti, la tattica del “Fronte unico” politico.

Non dobbiamo dimenticare che all’epoca del Congresso internazionalista Bordiga ha 32 anni, Terracini solo 26. Ma non è solo l’età che conta nella militanza comunista: soprattutto conta la qualità dell’esperienza politica nella lotta di classe.

Non si può dire che il socialismo italiano abbia rappresentato in Italia una coerente traduzione del pensiero marxista, né che Turati e Serrati siano stati buoni maestri.

Se pensiamo al tormentato approdo di Gramsci al marxismo solo alla fine del ’20, dopo un lungo ondeggiare tra crocianesimo, sorelismo, bergsonismo, consiliarismo e finanche mussolinismo, abbiamo la misura delle difficoltà del processo di radicazione del marxismo nell’avanguardia del proletariato italiano.

Siamo del parere che questi aspetti non andrebbero trascurati, come in genere ha fatto la storiografia filo-togliattiana, in sede di analisi dell’ “estremismo” e del “dottrinarismo” della direzione bordighiana dei primi anni del PCd’I. E poi non si dovrebbe dimenticare che il processo di assimilazione del marxismo (“granitica base teorica” dirà felicemente Lenin) nell’esperienza politica richiede anni, ma la controrivoluzione fascista e le manovre dello stalinismo impediranno tale maturazione nel giovane PCd’I.

Fronte unico” e conquista della maggioranza del proletariato

Il maggior punto di contrasto tra Lenin e la delegazione italiana è la tattica del “Fronte unico”: “Chi non capisce che in Europa, dove quasi tutti gli operai sono organizzati, dobbiamo conquistare la maggioranza della classe operaia – afferma Lenin il 1° luglio – è perduto per il movimento comunista, e non imparerà mai nulla, se non ha imparato nulla durante i tre anni della grande rivoluzione” (20).

Il compito fondamentale non era solamente la lotta per smascherare il centrismo, ma la formazione di un solido partito capace di conquistare la direzione del proletariato per condurlo alla lotta: “E ai comunisti italiani – scrive Lenin in una lettera a Zinoviev – un consiglio assai serio e un’esigenza: finché non avrete saputo tenacemente, pazientemente, abilmente convincere e attirare la maggioranza degli operai serratiani, non fate i gradassi, non giocate al sinistrismo” (21).

A questo proposito Lenin doveva ricordare a Terracini che, nel momento dell’Ottobre, il partito bolscevico era un piccolo partito di “rivoluzionari di professione”, ma aveva con sé la maggioranza degli operai e contadini nei soviet e quasi la maggioranza nell’esercito.

Per realizzare questa direttiva prioritaria, nella prima fase di stabilizzazione del capitalismo dopo la fine del conflitto mondiale, era necessaria la tattica del “Fronte unico”, ossia un’azione comune con i partiti di ispirazione rivoluzionaria e con i sindacati per obiettivi comuni nella lotta contro la reazione fascista, per il miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice e per combattere lo sconforto prevalente in questi mesi, in larghi settori della classe operaia italiana.

La nuova parola d’ordine del “Fronte unico d’azione” con i socialdemocratici e i sindacati “gialli” è ufficialmente lanciata nel dicembre ’21 in una riunione del C. E. dell’Internazionale.

Nell’appello al proletariato internazionale del 1° gennaio ’22 si sottolineava che l’I. C. aveva sempre sostenuto la necessità del “partito indipendente” che riunisse tutti i lavoratori che credevano nei “principi della dittatura del proletariato e del regime dei soviet” (“Essa non ritratta una parola di ciò che ha detto sino ad ora sulla necessità di formare partiti comunisti…”), ma i tempi lunghi della rivoluzione mondiale esigevano una larga unità del proletariato “per difendere le rivendicazioni che sono comuni a tutti e che devono unirvi”, la quale richiedeva un’alleanza temporanea e su obiettivi concreti con altri partiti operai non marxisti (22).

La tattica del Fronte unico derivava anche dalla necessità di evitare l’ “accerchiamento capitalistico” contro la repubblica dei Soviet; quindi era importante intensificare la pressione dei partiti comunisti nei paesi capitalisti, renderli più solidi, accentuarne la combattività e, soprattutto, realizzare ampi schieramenti politici capaci, almeno, di porre ostacoli alla politica estera della borghesia e al generale ritorno all’ “ordine” all’interno degli Stati.

La sottolineatura, anche nel discorso di Lenin del 1° luglio, del piano dei principi (costituzione e rafforzamento del partito rivoluzionario, obiettivo della dittatura del proletariato, denuncia delle esitazioni, delle ambiguità e, soprattutto, del carattere politicamente borghese della politica dei partiti “alleati”) accanto agli obiettivi limitati e contingenti del “Fronte”, inseriscono le direttive dell’I. C. in una coerente politica rivoluzionaria ben diversa dai vari “fronti popolari” contro il fascismo e della togliattiana “democrazia nuova” o “progressiva” post-‘45.

E’ vero che il III Congresso sulla questione italiana il 29 giugno approvava una risoluzione in cui si diceva che se il PSI avesse allontanato dal partito i “destri”, il Comitato esecutivo avrebbe compiuto “i passi necessari per l’unificazione del PSI, epurato dagli elementi riformisti e centristi, con il PCd’I per trasformarli in un’unica sezione dell’I. C.” (23); ma, nelle parole dell’11 luglio di Lenin a Terracini e alle delegazioni straniere, l’accento batteva indubbiamente più sul compito storico della conquista delle masse senza sacrificare minimamente il patrimonio storico-politico accumulato nei partiti comunisti nati dalla scissione dai socialdemocratici. Lo prova, sempre nel discorso dell’11 luglio, l’elogio di Lenin dello sciopero di Roma dell’8 luglio, che aveva visto la partecipazione di 50.000 operai di varie tendenze, anche anarchici, repubblicani ed ex-combattenti (24). In altre occasioni Lenin dirà che con questo sciopero “è avvenuta la conquista della maggioranza della classe operaia da parte nostra”, anche se si è trattato di “una vittoria locale e momentanea” (25).

Nei suoi interventi al Congresso Lenin voleva solamente affermare che il primo tempo era la fondazione del partito attraverso la serrata polemica contro il centrismo e il socialsciovinismo (quindi nessuna sconfessione postuma di Lenin dei risultati di Livorno); il secondo, prioritario per la rivoluzione perché l’insurrezione non si prepara senza l’appoggio organizzativo del proletariato, era la radicazione dei giovani partiti comunisti nel “cuore” delle masse.

Così Fortichiari ha sintetizzato la concezione del “Fronte unico” contro le distorsioni di una certa storiografia: “… Lenin e Zinoviev… lo intendevano come leva per staccare le masse proletarie dalla soggezione ai partiti socialdemocratici, come tramite per sollecitare l’espansione dell’influenza comunista nelle file operaie di tutti i paesi europei… tanto che essi… esigevano una contemporanea, dura, spietata denuncia delle centrali socialiste come baluardi, coscienti o no, dei regimi borghesi. Per gli esponenti più alti del comunismo internazionale un appello al fronte unico doveva essere una prova chiarificatrice dell’effettiva collusione e della necessità di spazzarle via dal campo della lotta” (26).

Del resto siamo del parere che un’eventuale fusione in Italia (che come vedremo non si realizzerà) non avrebbe contraddetto o “liquidato” Livorno, ma anzi soppresso il tradizionale massimalismo nel fusionista PSI e rinsaldato il ruolo egemonico del PCd’I nel rapporto con la classe operaia.

Nei bolscevichi, in Lenin in particolare e nei comunisti italiani, vi era la consapevolezza che Livorno segnava una data periodizzante nella storia del movimento operaio italiano, dalla quale non era possibile alcun regresso, e che l’omogeneità non formale ma sostanziale del partito non doveva essere alterata.

Il tema della “conquista della maggioranza” del proletariato non è un espediente tattico per riparare alle difficoltà contingenti del movimento comunista nel ’21, ma costituisce uno degli aspetti peculiari dell’intera riflessione leninista sul partito.

Il problema era distinguere il “partito avanguardia” dalla setta di iniziati oppure dal cenacolo di intellettuali. Il sinistrismo europeo era superabile solo coniugando il massimo di centralizzazione e di organizzazione, sostenuto da ricchezza teorica e capacità politica, con uno stretto legame con la massa.

Solo questi requisiti, a parere di Lenin, avrebbero permesso di preparare alla rivoluzione le milizie del proletariato ed educarle al marxismo.

Il partito è comunista, aveva detto Lenin al tempo del II Congresso dell’I. C., soltanto “se conta nelle sue file i migliori rappresentanti di questa classe, se è composto di comunisti pienamente coscienti e devoti, educati e temprati dall’esperienza di un’ostinata lotta rivoluzionaria, se ha saputo legarsi indissolubilmente a tutta la vita della classe e, attraverso di essa, a tutta la massa degli sfruttati, se ha saputo ispirare a questa classe e a questa massa una fiducia completa” (27).

Rafforzamento delle strutture del partito, “Fronte unico” sindacale e “ritirata” strategica di classe nell’azione del PCd’I nel biennio 1921-22

Siamo convinti che Bordiga e la direzione del PCd’I nei primi due anni, al di là di qualche enunciazione troppo frettolosa, non abbiano mai pensato che la rivoluzione potesse essere opera di minoranze autarchiche e selettive, che il “partito-avanguardia” potesse reggersi sulla filosofia dei “pochi ma buoni” (a tale proposito l’interpretazione che dà Spriano della politica di Bordiga è fuorviante) (28); il problema vero era che senza un’adeguata strutturazione, dopo Livorno, del partito a livello centrale fino agli elementi organizzativi periferici, a cui tendono le “Tesi di Roma”, la “conquista della maggioranza del proletariato” si sarebbe ridotta al massimo a un legame elettoralistico oppure alla difesa di interessi corporativi.

Del resto il problema della conquista delle masse era stato posto con grande rigore teorico a Livorno chiarendo che non si trattava solo di una semplice penetrazione politica, teorica e organizzativa nella classe operaia ad opera del partito leninista: “Il problema della tattica comunista sta qui: nel raggiungere più larghi strati della massa e condurli sul terreno dell’azione rivoluzionaria, preparandoveli in armi ideali e materiali, conservando al partito il suo carattere di qualità che garantisca il successo di tale preparazione, evitando l’errore di prospettiva di credere di poter raggiungere più facilmente la massa allargando le basi del partito rivoluzionario in quantità, ma avendo attenuato il carattere e il contenuto del partito e della sua opera, che perdurando il loro carattere generale e massimale, vadano a combaciare con le manifestazioni frammentarie di limitati interessi e si risolvano nel conseguire obiettivi immediati e contingenti a scapito del supremo risultato rivoluzionario” (29).

Lo stesso coerente sviluppo di questa linea politica lo ritroviamo nelle “Tesi di Roma” sulla tattica, presentate da Bordiga e Terracini al II Congresso del PCd’I nel marzo del ’21, considerate a torto da Livorsi come anticipatrici di “molte posizioni anche attuali dei gruppi minoritari extraparlamentari meno ingenui e… più estremisti” (30). In realtà queste tesi si ricollegano storicamente alla linea definita a Livorno e con essa al patrimonio di esperienze del leninismo.

E’ ribadito (tesi del “Fronte unico” sindacale) che i militanti del partito lavorino nelle organizzazioni di massa e “tendano a conquistare nella loro organizzazione il seguito della massa e le cariche elettive, divenendo così il naturale veicolo di trasmissione delle parole d’ordine del marxismo” (31).

Allora come mai le rivendicazioni immediate “sia che si tratti di richieste economiche, sia che rivestano carattere politico” sarebbero state proposte dal PCd’I “come obiettivi di una coalizione degli organismi sindacali, evitando la costituzione di comitati dirigenti di lotta e di agitazione nei quali tra altri partiti politici sia rappresentato e impegnato quello comunista”? Come mai veniva esplicitamente rifiutata la tattica del “governo operaio” (obiettivo di potere intermedio tra Stato borghese e dittatura del proletariato) e si invitava l’I. C. ad elaborare una tattica “entro limiti non rigidi, ma sempre più netti e meno oscillanti man mano che il movimento si rafforza e si avvicina alla sua vittoria generale” (32).

Quali sono in sostanza le cause del conflitto tra l’I. C. e il PCd’I nel biennio 1921-’22? Siamo convinti che questo “conflitto”, su cui tanto ha insistito la storiografia marxista “ufficiale”, vada ridimensionato nei suoi termini generali (ma non certamente rimosso), individuando il nocciolo profondo del problema e superando ogni schematizzazione politicizzante.

A nostro parere le “Tesi di Roma” sono la più coerente traduzione delle indicazioni del III Congresso perché entrambi postulano che la “crisi finale” del capitalismo debba porsi nei tempi lunghi e che il partito debba affrontare il problema della “ritirata strategica”.

A questo proposito, per noi, vanno analizzate le fasi più importanti della storia del movimento operaio italiano in questo periodo partendo dalla “Difesa dei comunisti” in un memoriale di Bordiga (33).

Contro la tesi fascista del “complotto”, cioè del tentativo di colpo di Stato che sarebbe stato attuato dai comunisti italiani, secondo l’accusa, dal principio del ’22, Bordiga, dopo aver sottolineato marxianamente la differenza tra le “condizioni oggettive” e le “condizioni soggettive” della rivoluzione e focalizzato la centralità del partito in questo processo, riepilogava le esperienze della lotta di classe in Italia insistendo sulla contemporaneità tra l’ ”apice dell’influenza politica del proletariato”, raggiunto alla fine del ’20, e l’ “offensiva capitalistica” che si concreta con l’espandersi del fascismo parallelamente al declinare delle lotte. L’obiettivo del fascismo non è solamente contenere politicamente la forza operaia, sostiene Bordiga, ma “disperdere non solo i partiti sovversivi, ma anche le organizzazioni economiche della classe lavoratrice” per riportare la classe operaia alle condizioni del ’18, prima cioè delle vittorie salariali del “Biennio Rosso”, per poter “disporre del lavoro proletario ad un prezzo rinvilito” (34).

Di fronte a questa “offensiva generale” di tutta la borghesia e dello Stato il partito rivoluzionario non poteva certamente proporre, blanquisticamente, l’offensiva rivoluzionaria, anzi doveva concretizzare “un’azione comune di tutte le organizzazioni operaie per la difesa di quelle conquiste e di quei diritti che la borghesia attacca”; l’obiettivo era il “mantenimento delle posizioni” per porre in difficoltà la generale ristrutturazione del capitalismo dopo la guerra.

Il PCd’I nasce nello stesso momento del dilagare dell’offensiva capitalistica, quindi, senza rinnegare i propri principi il partito doveva assumere – continua Bordiga – un’altra tattica riassumibile nella parola d’ordine “della resistenza con tutti i mezzi alle manifestazioni dell’offensiva borghese” (35). A questo proposito Bordiga ricordava il formarsi dell’ ”Alleanza del Lavoro” grazie all’impegno dei comunisti, la lotta al suo interno e l’intempestivo “sciopero generale legalitario” dell’ 1-3 agosto ’22, a cui parteciparono, anche se con posizione fortemente polemica, i comunisti, altra sconfitta cruciale subita dal movimento operaio italiano, vera “Caporetto” per Spriano (36) voluta dall’avventurismo dei repubblicani e degli anarchici e dalle ambizioni ministeriali dei riformisti.

In questa grave situazione politica il compito fondamentale del partito doveva essere la “conservazione del massimo grado possibile di efficienza del proletariato”, cioè “il porre piede su una piattaforma più salda per l’azione a venire” (37).

Questa, a nostro parere, potrebbe essere una chiave storiografica interessante per spiegare le presunte insufficienze del partito di fronte al movimento degli “Arditi del popolo” (38).

Il problema prioritario allora, perfettamente individuato da Bordiga, era il rafforzamento del partito nella lotta contro la reazione e non l’ ”annacquamento” delle sue strutture in una qualunque coalizione di interessi e tendenze borghesi, seppure antifascista.

La previsione di una “non breve durata del regime fascista” presupponeva “salvaguardare il più possibile la sua organizzazione, i mezzi di propaganda, la coscienza della convinzione…” nell’attesa che una “lenta crisi” del fascismo desse al proletariato “la possibilità di ritessere la sua tela organizzativa per sviluppare di nuovo un’azione classista” (39).

La prospettiva della “ritirata strategica”, mantenendo contemporaneamente saldi i rapporti con le masse, era stata proposta dallo stesso Lenin a Bordiga e a Camilla Ravera durante un colloquio precedente l’inizio dei lavori del IV Congresso dell’I. C.. Così la Ravera ha ricordato le sue parole: “… voi sarete costretti ad un lungo periodo di clandestinità, come siamo stati costretti noi nel nostro paese. Dovrete lottare anche in quelle condizioni e non perdere mai il contatto diretto con il vostro paese, con il vostro popolo, le sue organizzazioni, i suoi problemi, le sue lotte” (40).

Anche Fortichiari, il prestigioso compagno “Loris”, responsabile dell’ “Ufficio I” (illegale), conferma che questa era la linea politica del partito nel periodo della controrivoluzione fascista: “Lo smarrimento e la confusione avevano guadagnato molte zone della sinistra attorno al PCd’I che, malgrado tutto, rimaneva saldo nelle sue posizioni. Teneva queste posizioni per l’avvenire, perché era assurdo contare su una ripresa rivoluzionaria nel momento della ritirata disastrosa delle forze organizzate, nella scia dei dirigenti” (41).

Bordiga cercava di organizzare una “ritirata” ordinata della classe operaia di fronte alla controffensiva borghese per assestate, in una buona posizione strategica, l’avanguardia di classe in attesa di una prossima ripresa della lotta (a questo punto anche la filosofia del “tanto peggio tanto meglio” che Spriano attribuisce alla direzione bordighiana risulta errata) (42); ma l’egemonia gramsciano-togliattiana unita alla “destra” di Tasca-Graziadei, e poi la direzione di Togliatti negli anni dello stalinismo, stravolgeranno la strategia coerentemente rivoluzionaria di Bordiga perché verrà tolto al proletariato italiano il suo “cervello politico”: il partito leninista.

Ci siamo dilungati su questo scritto di Bordiga perché lo riteniamo fondamentale per capire la sua azione politica e in generale quella del PCd’I nel biennio 1921-22. Lo stesso Livorsi, a proposito di questo articolo, è costretto a dire che “tale tattica pure intrinsecamente settaria, sia stata molto meno ‘insurrezionalistica’ ed irrealistica di quanto di solito si ritenga” (43).

Non vogliamo certo sostenere che tutta l’azione del PCd’I, e nella fattispecie di Bordiga, sia stata così lineare e coerente come appare nel testo precedente: errori di valutazione erano comuni allora anche (e soprattutto) in Gramsci e Togliatti nell’I. C. Ma ciò che emerge maggiormente nella pagina bordighiana è un’importante analisi del fascismo, ricondotto non al carattere “incompleto” della rivoluzione democratico-borghese risorgimentale (tema caro a Gramsci e Gobetti) quanto alla reazione politica di una borghesia moderna capitalisticamente, capace di usare in diverse circostanze storiche democrazia e fascismo. In più Bordiga appare particolarmente lucido nell’individuazione dei compiti del partito rivoluzionario in un’epoca di riflusso delle lotte.

Queste sono, senza dubbio, le indicazioni più importanti che emergono dall’analisi del fondatore del PCd’I. Del resto anche lo stesso Lenin aveva dato un buon giudizio del PCd’I tra il III e il IV Congresso dell’I. C. “Lo sviluppo dei partiti comunisti tedesco e italiano dopo il III Congresso dell’I. C. dimostra che essi hanno tenuto conto dell’errore commesso dagli estremisti di sinistra a questo congresso e che lo stanno correggendo, a poco a poco, lentamente, ma fermamente. Le decisioni del III Congresso vengono lealmente attuate” (44).

La scienza della “ritirata ordinata” nella strategia di Lenin e Bordiga

La “scienza della ritirata” non è una specifica “invenzione” bordighiana, ma appartiene invece all’analisi leninista dei compiti del partito in un’epoca di arretramento di classe.

Lenin ne aveva già parlato nel 1909 in un articolo nel quale tirava le somme della sconfitta del 1905: “… le grandi guerre della storia, i grandi problemi della rivoluzione, sono stati risolti soltanto perché le classi d’avanguardia, rinnovando più volte l’assalto e istruite dall’esperienza delle disfatte, sono giunte alla vittoria. Gli eserciti sconfitti imparano molto” (45). Nell’ ”Estremismo”, “summa” delle esperienze del partito-scienza nel corso di tre rivoluzioni, Lenin scrive: “I partiti rivoluzionari debbono completare la loro istruzione. Essi hanno imparato a condurre l’offensiva. Ora bisogna comprendere la necessità di completare questa scienza con la scienza della ritirata in buon ordine. Bisogna comprendere… che non si può vincere senza aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata” (46).

Siamo convinti che in Lenin non vi è separazione tra la tattica e l’organizzazione nel partito (come invece ritengono molti commentatori accentuando in lui l’autonomia della tattica sulla strategia) e nemmeno una rigida distinzione tra “guerra di movimento” e “guerra di posizione”. Anzi in ogni momento è presente il piano organizzativo, il piano sistematico per affrontare le svolte, le esplosioni sociali e le complicazioni politiche.

Quindi possiamo affermare che in Lenin e Bordiga i due momenti fondamentali della lotta di classe sono un tutto organico, tanto che non è possibile una fase di avanzata senza una fase di ripiegamento dato che solo questa permette di utilizzare quella. Ciò è evidente in un discorso di Lenin del 17 ottobre ’21 sulla NEP quando afferma che “chi è stato battuto una volta vale il doppio” (47).

Nella coscienza strategica del partito i tempi della rivoluzione sono accelerati perché le ragioni della sconfitta sono, allo stesso tempo, già le ragioni della nuova avanzata.

Il tema della “ritirata” è tipico ancora delle analisi di Lenin al tempo della NEP quando, dopo l’azione del marzo ’21, non si realizza la sincronia auspicata tra rivoluzione in Germania e trasformazione in senso socialista della struttura economico-sociale russa.

L’ ”assalto al cielo” subiva una pausa obbligata, fedelmente registrata da Lenin: “Verso la primavera del ’21 appare chiaro che era stato frustrato il nostro tentativo di passare ai principi socialisti di produzione e di distribuzione con il sistema dell’ ’assalto’, cioè con il mezzo più breve, rapido e diretto. La situazione politica della primavera del ’21 ci rivelò che per una serie di questioni economiche non potevamo non ripiegare sulla posizione del capitalismo di stato, non passare dall’ ‘assalto’ all’ ‘assedio’” (48).

Le stesse posizioni programmatiche sono ribadite da Lenin dalla tribuna del IV Congresso dell’I. C.: la “ritirata” in Unione Sovietica (di cui gli aspetti più evidenti erano la generale miseria, la rivolta di Kronstadt, le prime divisioni nel partito bolscevico) sarebbe stata risolta a breve scadenza solo dalla crisi mondiale del capitalismo (49).

Visto il problema in questi termini possiamo sottolineare la stretta affinità di fondo della strategia di Lenin in Unione Sovietica e di Bordiga in Italia nel biennio 1921-22.

A nostro parere la storiografia marxista “ufficiale” non ha valutato attentamente gli spazi limitati dell’azione del PCd’I durante l’offensiva fascista e, soprattutto, non ha opportunamente considerato l’operato di Bordiga volto a preservare e irrobustire ciò che poteva trasformare la “ritirata” in una nuova offensiva: il partito.

Da qui le frequentissime accuse di “estremismo”, “dottrinarismo”, “infantilismo”… di cui abbonda la pubblicistica gramsciano-togliattiana (50).

Indubbiamente la difficoltà di impegnare il PCd’I nella tattica del “Fronte unico”, al di là del “Fronte unico” sindacale, risponde alla forma mentis ancora in parte “settaria” del nucleo fondatore del partito, ma ci sembra un errore enfatizzare ciò che divideva nascondendo ciò che univa la strategia di Lenin con la politica dei bordighiani.

Questi aspetti andrebbero attentamente valutati per evitare di presentare la politica del PCd’I nei primi due anni in antitesi e quindi in forte contrasto con quella di Lenin. Contrasto è vero vi fu sulla tattica (anche se il “Fronte unico” sindacale fu rigidamente applicato), ma precisa convergenza, indubbiamente, vi fu sui principi e sui fini.

Del resto l’applicazione del “Fronte unico” politico non era per niente di facile attuazione. Il problema che si poneva Bordiga può essere così formulato sinteticamente: come è possibile allearsi con i serratiani e i turatiani dopo anni di ferma campagna volta a denunciare l’opportunismo nelle file del movimento operaio italiano? Come avrebbero potuto gli stessi opportunisti accettare un tale accordo o patto di collaborazione? E quale sarebbe stata la reazione nella parte più cosciente della classe operaia di fronte ad accordi e alleanze così contrarie alla politica fin lì seguita.

Problemi ai quali la dirigenza bordighiana non riuscì a dare una risposta esaustiva. E poi la malattia di Lenin doveva impedire una valida chiarificazione di questi punti tra l’I. C. e la dirigenza del PCd’I.

Zinoviev non aveva per nulla la stessa intelligenza e duttilità di Lenin su questioni così delicate. Il suo ruolo in questi frangenti acuì le divisioni fino a permettere al gruppo gramsciano di assumere il controllo del partito esautorando la direzione di Bordiga e dei compagni a lui più fedeli.

Le difficoltà del “Fronte unico” politico in Italia: il “Circo Barnum” alla prova

Se riepiloghiamo, seppure brevemente, la storia del PSI (il “Circo Barnum” secondo una famosa espressione di Gramsci) da Livorno alla metà del ’23, ci rendiamo conto che, più che settarismo da parte del PCd’I, vi è stata nel partito di Serrati una grande ambiguità venata di opportunismo nei rapporti con l’I. C.

Rimane pienamente valida la tesi di uno dei protagonisti di questo periodo storico, Bruno Fortichiari, il quale ben conosceva la tradizione politica pendolaristica dei socialisti italiani, quando scriveva che “data la crescente simpatia delle masse operaie verso la rivoluzione russa (i socialisti ndr) si destreggiano fra atteggiamenti apparentemente consoni alle parole d’ordine di Mosca e il fallimentare impegno a salvare l’unità del PSI minata dalla presenza dei riformisti” (51). A parere di “Loris” sono stati i Serrati (il “Gran Senusso”), i Maffi, i Malatesta, i Riboldi, i Lazzari ad alimentare a Mosca molte illusioni perché consapevoli che solo nel rapporto con l’I. C. potevano avere un ruolo politico in Italia.

Anche l’oscuro e ambiguo Heller (“referente” dell’I. C. in Italia), molto probabilmente nelle sue relazioni a Mosca scriveva che era l’atteggiamento settario del PCd’I e in particolare del suo Comitato Centrale, a sabotare l’iniziativa del riavvicinamento tra i due partiti, piuttosto che il carattere elusivo della politica dei “sinistri” socialisti. Ma in questo periodo il collegamento tra il PCd’I e Mosca è ancora largamente manchevole e ciò può avere alimentato ulteriori equivoci e incomprensioni (52).

La stessa Clara Zetkin, già polemica contro Livorno e favorevole alla tattica del “Fronte unico” in Germania, quale rappresentante dell’I. C. al 18° Congresso Nazionale del PSI dell’ottobre ’21 a Milano, doveva rimanere delusa dai risultati dell’assise socialista.

Nel suo discorso al “Lirico” invitò i massimalisti ad unirsi alla III Internazionale separandosi dai riformisti: “Le decisioni del congresso del PSI furono una delusione per la Zetkin – scrive Fortichiari – Il problema per lei primario, come per Lenin e per l’Esecutivo dell’I. C., era stato eluso. I socialisti avevano quasi snobbato, nelle loro discussioni, l’appello dell’autorevolissima compagna inviata da Mosca” (53). Infatti la frazione “terzinternazionalista” di Maffi e Lazzari ottenne pochissimi voti: 3.765 contro 47.628 a Serrati , 19.916 ai riformisti e 8.080 a una mozione centrista.

In questo periodo, ricorda Tasca, nessuno nel PCd’I era favorevole al “Fronte unico” con i socialisti. Anche al II Congresso del PCd’I, sostiene Tasca, Gramsci rivolse le sue critiche non al presunto “estremismo” bordighiano ma ai pericoli di un eccessivo allargamento del partito che potesse favorire la “destra” di Tasca-Graziadei (54). E naturalmente con Gramsci vi era sempre il fedele Togliatti, in questo periodo bordighiano intransigente.

Quando poi Gramsci vorrà attuare di testa sua il “Fronte unico” lo farà con “manovre… destituite di qualunque serietà” e condannate dal partito (55). Pensiamo al tentativo fallito di avvicinare D’Annunzio a Gardone nell’aprile ’21 (il “poeta invasato” dal nazionalismo) (56) per proporgli un accordo tra il PCd’I e gli ex-fiumani della “vittoria mutilata” (!) (57); oppure al tentativo dei gramsciani di Torino di proporre ai giolittiani de “La Stampa” e alla sinistra del PPI un accordo comune contro il fascismo (58) (sappiamo che Bordiga accolse due comunisti torinesi che chiedevano l’avallo della Centrale con “un sacco di ingiurie”). Per poi arrivare alla lunga paralisi dell’opposizione parlamentare dell’ ”Aventino” al fascismo (l’ “anti-Parlamento legiferante” per Gramsci) dopo il delitto Matteotti (dal giugno ’24 al 3 gennaio ’25), per concludere, diremmo bordighianamente, e dopo mesi di equivoco, che la socialdemocrazia italiana segue “la via di Noske” (59).

Una politica, questa, che verrà fatta propria della leadership togliattiana dopo il ’45 con le “larghe aperture” al mondo cattolico, ad ampi settori del partito socialista e con la preferenza della lotta parlamentare rispetto alla lotta di classe.

Quando finalmente il 3 ottobre ’22, durante il 19° Congresso del PSI a Roma – che Arfè ha definito “di uno squallore senza precedenti” (60) – i massimalisti si separarono dai riformisti (ma ormai sono i tempi della Marcia su Roma), il nuovo gruppo dirigente massimalista, dopo il IV Congresso del Cominter (novembre ’22), si scisse ulteriormente in due tronconi proprio sull’atteggiamento da tenere verso l’I. C. e la fusione con il PCd’I: da una parte i “terzini” capeggiati da Serrati e Maffi, dall’altra l’opposizione sempre più aperta di Vella e Nenni.

Si arrivò poi al XX Congresso socialista, dal 15 al 17 aprile ’23, quando la maggioranza dell’assise si pronunciò contro la fusione e i “terzini”, ormai rappresentanti settori molto ristretti del proletariato italiano, il 3 agosto furono espulsi (Serrati, Maffi, Riboldi, Buffoni e Malatesta).

La decisione autoritaria dell’Esecutivo dell’I. C. di rinnovare quasi interamente la Centrale del partito uscita dal Congresso di Roma (il nuovo gruppo dirigente risultò formato da Togliatti, Scoccimarro, Gennari, Tasca e Terracini), fu vanificata dai fatti. Solo nel ’24 Serrati, sempre più demoralizzato, solo e sconfitto dagli avvenimenti, aderirà mestamente al PCd’I.

Del resto anche Lenin era consapevole delle grandi difficoltà da superare per realizzare accordi di durata non temporanea con le organizzazioni opportuniste. Lo prova il suo commento “Abbiamo pagato troppo caro” dell’aprile ’22, agli scadenti risultati dell’assise di Berlino, nei primi giorni dello stesso mese, con i rappresentanti della II e dell’ “Internazionale 2 e mezzo” (61).

Siamo del parere che al di là delle affermazioni spesso troppo perentorie e polemiche dei maggiori rappresentanti dell’I. C. al III e IV Congresso, soprattutto Zinoviev, Bucharin e Radek, contro il rifiuto del PCd’I del “Fronte unico” politico e del sospetto ingenuo di Bordiga che in questa tattica potesse celarsi un qualcosa di “opportunistico” e tale da sconfessare Livorno e l’autonomia del partito, vi sia stata – scrive Fortichiari – una “valutazione diversa che l’uno e l’altro davano in questa fase dei rapporti di classe in Italia” (62).

Sintetizzando molto potremmo scrivere che il “Fronte unico” politico, tattica pienamente marxista, era in Italia di difficile attuazione soprattutto a causa della politica ambigua del centrismo socialista.

Purtroppo il netto rifiuto di Bordiga di questo tipo di alleanze e di sfruttare le pur minime possibilità d’azione (seppure in gran parte motivato, come abbiamo detto), doveva fare della tattica politica del PCd’I una sorta di “terra di nessuno” – scrive Cortesi – che “poi divenne spazio di manovra di Gramsci e della ‘destra’ del partito (63), già emersa al Congresso di Roma, la cui influenza nel partito culminerà con i provvedimenti autoritari dell’aprile ’23 e l’emarginazione della sinistra dagli organi centrali e periferici del partito con la cosiddetta “bolscevizzazione”.

A questo punto però emergono anche le responsabilità dell’I. C. e soprattutto dei suoi rappresentanti in Italia che hanno alimentato quella minoranza estranea a Livorno per farne uno strumento di pressione sul gruppo dirigente e finendo per favorire proprio il gruppo gramsciano privo, in questo periodo, di valide alternative politiche per aspirare alla dirigenza del partito e, soprattutto, immaturo di fronte alla gravità della situazione interna e internazionale. Infatti Gramsci non riuscirà a capire, oppure lo potrà fare molto approssimativamente, che il mancato prodursi della rivoluzione in Occidente doveva provocare un deciso mutamento della situazione in Russia e nella III Internazionale (64).

La problematica della fusione tra PCd’I e PSI negli ultimi scritti di Lenin

E’ difficile analizzare l’atteggiamento di Lenin nel ’22 sul problema della fusione prima di tutto perché possediamo pochi suoi articoli e poi perché la lunga malattia gli impedirà, per gran parte dell’anno, di occuparsi di problemi politici.

E’ interessante una lettera di Lenin a Trockij del 25 novembre ’22 in cui gli chiedeva di proporre a Bordiga “con molta insistenza la tattica da voi indicata, altrimenti le loro azioni saranno estremamente dannose per i comunisti italiani in avvenire” (65).

In effetti il IV Congresso dell’I. C. (novembre ’22), dopo i contrasti nell’Esecutivo allargato del febbraio-marzo dello stesso anno, discusse il progetto della fusione e, nonostante l’opposizione di Bordiga a nome del PCd’I, la commissione congressuale l’approvò all’unanimità. Il Comitato Esecutivo del PCd’I con Bordiga accettò il progetto per disciplina.

Tenendo conto dell’atteggiamento di grande lealtà di Bordiga al congresso, il provvedimento “autoritario” risulta politicamente immotivato.

Possediamo anche una lettera di Lenin a Lazzari dell’11 dicembre ’22 nella quale si rivolgeva al vecchio operaista, ora più che mai “terzino”, facendo appello al suo “prestigio” ed “entusiasmo di vecchio e devoto rivoluzionario” per raggiungere l’obiettivo della “salda e sincera unione di tutti i veri rivoluzionari”. Nella lettera Lenin auspicava che la progettata fusione potesse realizzarsi grazie all’iniziativa di Lazzari “nel caso che Serrati, forse anche involontariamente, ponga ostacoli” (66).

E’ difficile dire quanto Lenin credesse nella buona fede e, soprattutto, nelle capacità politiche dopo Zimmerwald, Kienthal, il III e il IV Congresso dell’I. C. dell’ “intransigente” Lazzari (già al XX Congresso del PSI egli si accodò al gruppo maggioritario ed evitò per poco l’espulsione del 3 agosto) e del fautore dell’ “unitarismo” a tutti i costi, Serrati.

Se ripensiamo alla violenta polemica di Lenin contro Serrati in “Note di un pubblicista” (“Serrati – solo una volpe, un animaletto”) (67) e all’ironia sul “vecchio Lazzari” al III Congresso dell’I. C., strumento di una “truffa da politicanti e da menscevismo” (68), ci rendiamo conto che, al di là delle parole affettuose della lettera, anche per Lenin gli spazi politici per operare una fusione in Italia erano veramente compromessi.

Comunque, in ogni caso, come abbiamo già sottolineato, la fusione del PCd’I con i lazzariani e magari i serrtiani rientrava nell’obiettivo della conquista delle masse: “Lazzari ha lodato la nostra risoluzione sulla tattica – aveva detto Lenin al III Congresso – E’ un grande successo del nostro congresso. Se Lazzari l’accetta, migliaia di operai che seguono Lazzari verranno certamente a noi e i loro capi non potranno allontanarli facendo a loro paura” (69).

Il “testamento” di Lenin ai comunisti di tutto il mondo

A nostro parere più significativo per cogliere lo stato d’animo di Lenin alla fine del ’22 è il breve discorso tenuto dalla tribuna del IV Congresso dell’I. C. il 13 novembre, il quale può essere definito il suo “testamento” ai comunisti di tutto il mondo: “Ma anche i compagni stranieri devono studiare… I compagni stranieri debbono digerire un buon pezzo di esperienza russa. Come questo avverrà non lo so”.

In Italia – continua Lenin – i fascisti avrebbero potuto dimostrare al proletariato la sua debolezza e quindi spingere la classe operaia a una organizzazione più forte e duttile. Ma il problema vero era l’assimilazione completa del patrimonio teorico e politico dei bolscevichi: “Noi studiamo nel senso generico della parola. Essi invece devono studiare in un senso particolare, per comprendere veramente l’organizzazione, la struttura, il metodo e il contenuto del lavoro rivoluzionario. Se questo sarà fatto, sono convinto che le prospettive della rivoluzione mondiale saranno non soltanto buone, ma eccellenti” (70).

Ecco il vero problema posto ai comunisti italiani e del mondo intero: “Studiare l’esperienza russa” voleva dire approfondire l’analisi della lotta di classe, irrobustire il partito cementandolo al marxismo, diffondere la coscienza rivoluzionaria nel proletariato.

Ma la “decapitazione” dell’I. C. – per usare un’espressione di Cortesi – contemporanea alla “decapitazione” del PCd’I (71), impediranno la maturazione dei quadri rivoluzionari di Livorno e liquideranno anche il partito e quella luce fioca che, come la lanterna di Diderot, poteva “illuminare” le coscienze nel buio della reazione fascista attraverso la diffusione del marxismo e così preparare la successiva avanzata.

In questi termini sintetizza Cortesi il momento dell’ascesa di Stalin e l’emarginazione del nucleo fondatore del partito: “Svolta post-leniniana nell’Internazionale e svolta di centro-destra nel partito italiano; emarginazione del trotskismo ed emarginazione del bordighismo (dove i due termini significano in realtà tutta la sinistra in Unione Sovietica e in Italia); origini dello stalinismo e origini del gramscismo” (72).

E’ da qui che dobbiamo partire per comprendere per quali motivi il proletariato oggi, a quasi settant’anni da Livorno, oscilli ancora tra il rifiuto della politica e un’ingenua fiducia nell’opportunismo.

Note al capitolo sesto