conferenza di G. Restelli a Inveruno, novembre ’17
La rotta di Caporetto
24 ottobre 1917
“Ovunque sono visibili le tracce del nostro bombardamento e della ritirata italiana.
Lungo la strada, grosse bocche da fuoco, tirate da una parte a prezzo di grandi sforzi,
autocarri rovesciati, resti di tettoie di lamiera sotto le quali gli italiani avevano ammassato
scorte di pallottole da fucile che hanno poi fatto saltare in aria prima di ritirarsi.
Per terra, a centinaia di migliaia, sono sparsi i piccoli bossoli d’ottone.
Montagne di viveri, di scatolette di carne, di botti di vino sfondate….”
Fritz Weber, “Tappe della disfatta”
Con il passare degli anni Caporetto, da singolo evento della guerra italiana, è diventato l’emblema di tutta la guerra combattuta dal nostro Paese fino al punto da collocare sullo sfondo altri importanti avvenimenti.
Nello stesso tempo Caporetto, complice anche un’eccessiva sovraesposizione di questa battaglia nella storiografia italiana e nella memoria collettiva, è ritenuto uno dei pochi momenti chiave della nostra storia, seppure con connotazioni radicalmente negative al pari dell’8 settembre del 1943.
Che cosa accadde veramente?
I fatti sono noti ma è importante rievocarli ancora. La notte del 24 ottobre 1917 gli austro-ungarici, rafforzati da contingenti tedeschi (sette divisioni) e guidati dal generale tedesco Otto von Below, sfondarono le linee italiane lungo l’Isonzo (presso Plezzo e Tolmino) con un’azione così veemente e ben congegnata da provocare prima l’inutile sacrificio di uomini e mezzi, poi la paura dell’accerchiamento fino alla rotta disastrosa della II Armata del generale Capello tamponata a fatica lungo il fiume Piave, dopo che gli austro-tedeschi si erano impadroniti in meno di 15 giorni di tutto il Friuli e di parte del Veneto giungendo a minacciare Venezia e Treviso.
Dall’Isonzo fino al Piave ci sono circa 100 chilometri di territorio che enormi masse sbandate di militari e centinaia di migliaia di profughi percorsero con l’ossessione di superare i ponti sul Tagliamento e sul Piave prima dell’arrivo degli austro-tedeschi.
Il settore scelto da von Below per scardinare le difese italiane è presidiato dalla Seconda Armata del generale Capello forte di 25 divisioni, 355 battaglioni dei quali 251 in prima linea. Completano lo schieramento della Seconda Armata 2.340 bocche da fuoco delle quali 1.364 di medio e grosso calibro e 725 bombarde. Si tratta di una forza di tutto rispetto. Il suo rivale invece può contare su 15 divisioni ( 168 battaglioni) di cui sette tedesche e mille bocche da fuoco.
Sembrerebbe che gli italiani abbiano una notevole superiorità numerica, in realtà nel settore scelto per lo sfondamento c’è una netta superiorità austro-tedesca perché Below attacca con tutte le sue 15 divisioni contro solo 6 italiane, tra cui il XXVII Corpo di Badoglio.
Le truppe italiane nel settore di Plezzo-Tolmino erano colpevolmente vulnerabili e i tedeschi, con una rapida ricognizione nelle settimane precedenti, se ne erano subito accorti.
L’attacco iniziò, soprattutto con il gas sulle prime linee, intorno alle due di notte del 24 ottobre accompagnato da un tiro di preparazione che sembrò sporadico per non destare particolare preoccupazione tra gli italiani.
Il gas, il micidiale “Croce azzurra”, in realtà fosgene, uccise ottocento uomini in poco più di trenta secondi perché le maschere in dotazione erano inadatte. Il temuto fuoco di controbatteria fu spento sul nascere.
Alle sei del mattino tutto tacque per mezzora, poi si scatenò uno dei più intensi bombardamenti di tutta la guerra grazie all’estrema precisione dei tiri. Ma è soprattutto la violenza del bombardamento con mortai e bombarde a provocare l’interruzione dei collegamenti, la distruzione delle trincee e la neutralizzazione dell’artiglieria italiana.
Dopo due ore di tiro incessante dell’artiglieria scattano le fanterie nemiche su un fronte di 32 chilometri tra Plezzo e Tolmino. Due divisioni italiane, le più esposte, sono travolte dall’impeto dell’avanzata.
Gli austro-tedeschi non attaccano le cime dove gli italiani si aspettavano un’azione di forza, semplicemente le oltrepassano ai fianchi mentre le artiglierie sulle cime dei monti rimangono colpevolmente inattive e a causa della nebbia e dell’interruzione dei collegamenti telefonici neppure si accorgono dello sfondamento in profondità.
Le Stosstruppen in azione
A differenza della tattica della “Strafexpedition” dell’anno precedente in Trentino, con una manovra rischiosa ma ben ponderata gli austro-tedeschi non guardano in alto ma in basso infilandosi nei valloni verso Caporetto incuranti delle cime da cui potevano esserci pericoli per la presenza in forze dell’artiglieria nemica. E’ un modo di procedere che urta contro tutte le regole di strategia.
L’avanguardia della fanteria austro-tedesca è composta da battaglioni d’assalto secondo tattiche già sperimentate nel 1915 e poi perfezionate nell’anno successivo. Il loro compito è incunearsi in profondità avanzando celermente senza preoccuparsi di nuclei di nemici ancora attivi che sarebbero stati neutralizzati successivamente. E’ la nuova tattica dell’ “infiltrazione” che rappresenta una delle più notevoli innovazioni sul fronte occidentale. I gruppi d’assalto dispongono della nuova mitragliatrice leggera Maxim montata su motociclette e in più gli Jager (Truppe alpine) fanno avanzare mortai e cannoni da montagna mettendo a punto l’esperienza accumulata combattendo nei Carpazi e nei Vosgi. Anche la cavalleria partecipa allo sfondamento prendendo alle spalle i reparti italiani in fuga.
Così sintetizza uno storico inglese gli importanti mutamenti tattici dell’esercito tedesco che spiegano la schiacciante superiorità tecnico-tattica sull’esercito italiano nel penultimo anno di guerra: “Nel 1915 e nel 1916, unità sperimentali tedesche condussero un lavoro pionieristico su metodi e armi specializzate necessari a conferire nuovamente alla fanteria la capacità di movimento sotto il fuoco del nemico: bombe a mano specificamente progettate per l’attacco, cannoncini trasportabili a mano, mitragliatrici leggere, lanciagranate, lanciafiamme e, infine, i mitra. L’unità tattica di queste Stosstruppen diventò la squadra di fanteria, composta da otto uomini al comando di un sottufficiale: il gruppo più ampio effettivamente controllabile di persona da un singolo individuo sul campo di battaglia moderno” (1).
Alle tre del pomeriggio del 24 una divisione tedesca arriva a Caporetto dopo una marcia senza ostacoli di 25 chilometri. Il Monte Nero e il Merzli sono tagliati fuori nell’impossibilità di reagire. Intanto il generale Cavacciocchi, comandante del IV corpo d’armata, ordina la ritirata mentre Cadorna, nel suo comando a Udine, solo nelle prime ore della serata del 24 si rende conto delle dimensioni del disastro. Cadorna ordina di ripristinare le linee difensive dietro l’Isonzo ma è troppo tardi di fronte all’avanzata rapidissima degli austro-tedeschi (2).
Le poche riserve disponibili vengono mandate a presidiare le cime montuose mentre gli austro-tedeschi sfondano in pianura. Agli ufficiali che guidano questi soldati era sempre stato insegnato che la guerra si combatte sui monti e non nelle valli.
Isolate e circondate cadono una dopo l’altra le montagne che avrebbero dovuto essere il baluardo dei confini italiani. Il Matajiur è preso dal tenente Rommel con un’azione fulminea al comando di pochi uomini.
Il 27 ottobre, tre giorni dopo, Cadorna ordina la ritirata dietro il Tagliamento di tutto il fronte italiano. Anche la Terza Armata del duca d’Aosta, fino a quel momento non coinvolta nel generale disastro, è costretta a ripiegare.
Il 29 gli attaccanti superano il Tagliamento mentre indietreggia disordinatamente una turba di soldati che colpevolmente è stata lasciata sola nel momento iniziale dello sfondamento. Nella più totale latitanza dei comandi, spesso fuggiti per primi alla minaccia dell’accerchiamento, i soldati saccheggiano città e villaggi (3). Una volta in salvo i più in alto in grado attribuirono ai soldati la resa passiva, la fuga vigliacca e poi la rotta.
“Dove sono i generali, perdio?”, esclama Attilio Frescura nel suo celere “Diario di un imboscato”. “Che fa il Comando supremo?”, si chiede il tenente Valentino Coda negli “Appunti d’un ufficiale della Seconda Armata” e così tanti altri ufficiali e semplici soldati sorpresi dalla totale scomparsa dei quadri medio-alti dell’esercito nei giorni decisivi della rotta.
La tragedia di Caporetto è anche dovuta all’incapacità degli Alti Comandi di porre non solo un argine all’anarchia dilagante ma anche di definire con precisione e senza ripensamenti le scelte più opportune per mantenere integro l’esercito pur di fronte alla superiorità avversaria.
Lo stesso Cadorna è responsabile del caos di quei giorni perché dopo aver ordinato la ritirata al Tagliamento con colpevole ritardo il 27 ottobre, lascia precipitosamente Udine per porre lo Stato Maggiore a Treviso, ossia dietro Il Piave, troppo lontano per“avere la sensazione della travolgente realtà e per poter agire tempestivamente di fronte all’incalzar degli eventi… Nessuno resta a contatto immediato delle armate, in un momento così particolarmente delicato e in cui più che mai sarebbe necessaria l’azione dominatrice e coordinatrice del Comando supremo” (4). E fino al Piave il generalissimo si segnalerà più per la sua assenza che per provvedimenti atti a ricostruire l’esercito in quei difficili frangenti.
Anche i civili fuggono di fronte agli austro-tedeschi intasando le poche strade disponibili e creando colossali ingorghi di uomini, mezzi e animali.
Il 4 novembre (una data che un anno dopo avrà il sapore della vittoria) Cadorna ordina la ritirata al di là del Piave mentre prepara altre difese lungo il Mincio e il Po ritenendo che anche Milano e l’Italia centrale fossero in pericolo.
Il nuovo governo di emergenza nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando esonera Cadorna e affida l’esercito al generale Diaz, il quale intanto prepara la resistenza lungo il Piave. La Linea del Piave, ancorata attorno ai due baluardi del Grappa e del Montello, diventerà per un anno intero l’estrema difesa italiana per evitare che gli avversari dilaghino nella Pianura Padana.
I conti del disastro
A questo punto si fanno i conti del disastro e i numeri sono agghiaccianti: 10.000 morti, 30.000 feriti, 250.000 prigionieri, 300.000 sbandati e 400.000 civili in fuga. Nel conteggio devono rientrare anche le armi lasciate nelle mani del nemico: 3.152 cannoni, due terzi delle bombarde, un terzo delle armi portatili più enormi depositi di equipaggiamenti, di munizioni e di viveri.
Lissa, Custoza, Adua, ovvero le precedenti gravi sconfitte dell’esercito italiano durante il Risorgimento e l’avventura coloniale africana di fine secolo, sembrano eventi di effimera importanza.
Le responsabilità di Capello e Badoglio
Come è stato possibile una tale catastrofe che non ha precedenti lungo il fronte occidentale caratterizzato dopo la Marna da precarie avanzate (almeno fino all’offensiva tedesca della primavera del ’18) e da uno stillicidio di contrattacchi per riprendere le posizioni temporaneamente perdute?
Nel famigerato bollettino del 28 ottobre Cadorna incolpò solamente i soldati scaricando su di loro ogni responsabilità: “La mancata resistenza di reparti della II Armata vilmente ritiratesi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra…”.
In realtà Caporetto è il risultato di un insieme di gravi responsabilità che toccano i vertici militari, la conduzione della guerra fino a quel momento unite a un evidente e colpevole ritardo nell’elaborazione di nuovi piani strategici rispetto all’esercito tedesco, l’unico tra gli eserciti in lotta a capitalizzare le esperienze fino a quel momento maturate nel tentativo di superare l’impasse della guerra di trincea e dei “bagni di sangue” conseguenza dell’ “assalto frontale”.
Prima di tutto sono evidenti precise responsabilità del generale Capello, comandante della II Armata travolta il 24 ottobre, il quale, nonostante gli ordini di Cadorna, non aveva messo le sue divisioni sulla difensiva, a causa dell’autunno inoltrato, in attesa della ripresa delle operazioni a primavera. Lo schieramento di Capello (conosciuto come “il macellaio” dai suoi uomini) è votato all’offensiva come se si dovesse attaccare di lì a pochi giorni al di là dell’Isonzo e quindi vittima predestinata in caso di attacco nemico.
Le responsabilità di Capello
Probabilmente Capello già pensava a una nuova offensiva di primavera e lo schieramento profondo era congeniale ad essa. Attestato in posizione troppo avanzata è in particolare un giovane ufficiale alle dipendenze di Capello, il generale Badoglio, comandante del XXVII Corpo d’armata collocato metà al di qua e metà al di là dell’Isonzo. Da notare che lo schieramento anomalo della II Armata impedì di distruggere i ponti sull’Isonzo facilitando quindi l’impetuosa avanzata austro-tedesca dei primi giorni.
Badoglio è consapevole che il suo Corpo d’armata è mal collocato ma immagina probabilmente di attirare gli austriaci in una trappola (la “trappola di Volzana”) e annientarli con i cannoni di cui dispone. Invece gli 800 cannoni sotto il comando di Badoglio rimasero “tragicamente muti”, secondo le risultanze della Commissione d’ inchiesta del 1918-19.
Non dobbiamo sottovalutare, quando tentiamo di ricostruire le singole battaglie, il peso degli arrivismi personali e delle prospettive di carriera che si sarebbero aperte in caso di vittoria.
Capello era il vincitore di Gorizia e della Bainsizza (Undicesima battaglia dell’Isonzo) e Badoglio era il conquistatore del Sabotino nel ’15. Tutti e due sono generali ambiziosi, ancora giovani (Badoglio ha 46 anni, Capello 58) e soprattutto non hanno stima di Cadorna che giudicano un ottuso incapace (5).
Ci sono altri gravi aspetti da considerare nell’ambito delle responsabilità di Cadorna e Capello. Nei giorni precedenti erano arrivati segnali inequivocabili di offensiva nemica che fu colpevolmente sottovalutata, per esempio tenendo lontane le truppe di riserva e non preoccupandosi di rafforzare le difese.
Bisogna anche dire che da quando l’Italia era entrata in guerra contro l’Austria-Ungheria era la prima volta che subiva un attacco massiccio nel settore dell’Isonzo, ed era anche la prima volta che tedeschi e austriaci combattevano insieme contro gli italiani.
Eppure Cadorna avrebbe dovuto intuire che la stasi delle operazioni in oriente (siamo alla vigilia della vittoria dei bolscevichi in Russia) avrebbe convogliato truppe verso l’Italia nel tentativo di indebolire il fronte dell’Intesa provocando l’uscita dalla guerra dell’alleato più debole. Alcuni prigionieri, tra cui un generale cecoslovacco, avevano addirittura comunicato il giorno, il settore dell’attacco e le forze in campo, ma la reazione dei vertici militari italiani fu di incredulità o tracotanza (6).
Le responsabilità di Cadorna
Cadorna è responsabile anche di piani di ritirata molto lacunosi o addirittura fumosi che non si era mai preoccupato di elaborare contando sempre sulla sua “filosofia” che prevedeva la tenuta del territorio con continue offensive frontali per spezzare prima o poi le linee nemiche e attuare l’azione di sfondamento.
Il prezzo che l’esercito italiano aveva pagato per le precedenti undici battaglie lungo l’Isonzo era stato tale da demoralizzare profondamente i soldati italiani che ancora non erano stati uccisi né feriti dal fuoco nemico oppure decimati dalle draconiane disposizioni di Cadorna nei casi di violazione della disciplina militare di “fronte al nemico”. Il costo delle undici offensive era stato di 400.000 morti: tanto erano costate le “spallate” volute dal generalissimo per dilagare nel territorio austriaco e vincere la guerra. I risultati ottenuti erano stati dovunque modesti e tali da scardinare nei fanti non solo la fiducia nella vittoria ma anche il rispetto nei confronti degli ufficiali.
Cadorna è ancora responsabile perché ottuso e accentratore aveva con rara sistematicità rimosso fino a quel momento 217 generali, 255 colonnelli e 355 comandanti di battaglione ritenendoli inadatti al comando o incompetenti e provocando nei sostituti una pedissequa sudditanza ai suoi ordini.
Eppure l’esercito italiano lottò caparbiamente durante la ritirata altrimenti non spiegheremmo gli 11.690 morti e i 21.950 feriti della Seconda Armata di Capello due giorni dopo lo sfondamento iniziale e le 65-70.000 perdite austro-tedesche fino a quando gli attaccanti furono fermati al Piave.
Il “generalissimo” si discolpò attribuendo tutta la colpa allo “sciopero di guerra” e alla propaganda disfattista dei socialisti e dei pacifisti che il governo non aveva neppure tentato, a suo parere, di debellare. Errori di tipo militare: nessuno. ”Militarmente la difesa era completa, l’organizzazione studiata e portata a compimento fino ai suoi più minuti dettagli; non c’è nulla da rimproverarci. Non ha rimorsi la mia coscienza” (7).
E’ difficile vedere solo elementi di propaganda in questo manifestino che gli austriaci lanciarono sulle truppe italiane in ritirata il 29 ottobre: “In questo momento così critico per la vostra nazione, il vostro generalissimo, che insieme a Sonnino è uno dei più colpevoli autori di questa guerra inutile, ricorre ad uno strano espediente per scusare lo sfacelo. Egli ha l’audacia di accusare il vostro esercito, il fiore della vostra gioventù, di viltà, quello stesso esercito che tante volte si è lanciato per ordine suo ad inutili e disperati attacchi! Questa è la ricompensa del vostro valore! Avete sparso il vostro sangue in tanti combattimenti, il nemico stesso mai vi negò la stima in tanti combattimenti, il nemico stesso mai vi negò la stima di avversari valorosi. E il vostro generalissimo vi disonora, vi insulta per discolpare se stesso!”.
La Terza Armata del Duca d’Aosta e la Quarta Armata del generale Mario Nicolis di Robilant (poi al generale Gaetano Giardino) si ritirarono ordinatamente su ordine di Cadorna per il pericolo di essere accerchiati invece la Seconda Armata di Capello fu responsabile di una vera e propria rotta che si concluse solo al Piave.
In totale i soldati italiani in ritirata erano un milione incalzati da un milione di soldati nemici. Entrambi gli eserciti si riversarono su un piccolo territorio, il Friuli, travolgendolo e lasciando solo dolore e delusione tra gli abitanti.
La fuga dei civili
La rotta trascinò anche 400.000 civili terrorizzati prima dai soldati italiani abbandonati a se stessi e poi dall’arrivo degli austriaci.
Lasciamo alla penna di un grande scrittore e testimone degli eventi il compito di dare l’idea di quello che accadeva sulle strade del Friuli: “La folla pazza, in fuga, in tumulto. Carri, bambini, soldati, vecchi, donne, cavalli, materassi alti, ondeggianti, gruppi d’inferociti, turbe di bruti; un urlare, un incalzare, un rigurgitare; la gente, nella ressa, rovesciata sulle spallette del ponte, il capo e le braccia penzoloni, come morti sui davanzali; cavalli impennati sul risucchio, pugni in aria, facce livide, occhi sbarrati, bocche dure, e qualche viso innocente di bambina” (8).
L’arresto dell’avanzata al Piave
Ludendorff, il principale stratega dell’esercito tedesco, non si aspettava sicuramente una vittoria tattica così eloquente. L’obiettivo da lui definito con von Below una settimana prima del 24 ottobre era dare all’Italia una “spallata” fino al Tagliamento, ma quando von Below chiese l’autorizzazione di inseguire gli italiani fino al Piave lo lasciò fare.
Dopo il Tagliamento emersero però i primi problemi per gli attaccanti poiché ogni giorno che passava diventava sempre più pesante la progressiva lontananza dalle fonti di rifornimento, l’impossibilità di avvicendare le truppe che avanzavano oppresse dalla stanchezza, l’oggettiva difficoltà di portare avanti le artiglierie per seguire l’avanzata impetuosa della fanteria. Erano problemi che nel giro di una decina di giorni provocarono un inevitabile rallentamento dell’avanzata complice anche la ricostituzione di una efficace linea difensiva italiana lungo la sponda destra del Piave.
Ludendorff non poteva neppure avvalersi di equipaggiamenti per la costruzione di ponti, disponeva di supporti ferroviari inadeguati e anche gli animali da tiro (necessari per far avanzare le artiglierie) erano in numero ridotto mentre la cronica carenza di autocarri, vero e proprio limite logistico degli eserciti austro-tedeschi, condizionò l’avanzata che in gran parte era effettuata a piedi dalla fanteria.
Per le truppe germaniche ed austriache bloccate al Piave sarebbe stata fondamentale un’offensiva dal saliente trentino sul modello della “spedizione punitiva” del ’16, ma Ludendorff e Conrad avevano carenza di uomini. E così la “manovra a tenaglia” che avrebbe provocato l’uscita dalla guerra del nostro Paese non poté realizzarsi.
L’esonero di Cadorna
La linea del Piave fu tenuta anche per l’arrivo entro il 10 novembre di 5 divisioni britanniche e 6 francesi oltre ad un buon numero di aerei che avrebbero garantito la superiorità nei cieli. Gli Alleati posero una sola condizione al loro aiuto: l’esonero di Cadorna considerato il massimo responsabile del disastro. Il re prese atto della volontà degli ufficiali anglo-francesi e lo sostituì con il semisconosciuto Armando Diaz.
Il nuovo fronte, lungo solamente 120 chilometri rispetto al fronte precedente di 190 chilometri lungo l’Isonzo favoriva i difensori a corto di truppe e cannoni.
Alla fine il fronte tenne anche per il disimpegno a dicembre di Ludendorff consapevole che ormai il Piave sarebbe diventata un’altra linea statica e in ogni caso non decisiva nel conflitto. La guerra si doveva vincere in Francia contro inglesi e francesi, l’Italia continuava ad essere un fronte secondario.
La resistenza italiana e prima ancora la riorganizzazione dell’esercito ebbero del miracoloso. Merito del nuovo capo di Stato Maggiore, generale Diaz, il quale, consapevole del profondo malessere presente nell’esercito italiano, evitò ogni offensiva inutile e costosa in vite umane preferendo la difesa del territorio di fronte ai rischi di un’ulteriore invasione austriaca provocata dal disimpegno delle truppe.
I soldati italiani erano stanchi dopo due anni e mezzo di guerra che fino a quel punto aveva dato modesti risultati pagati a un prezzo altissimo.
Solo l’Undicesima Battaglia dell’Isonzo, quella che precede la rotta di Caporetto, combattuta fino al 12 settembre, costò 40.000 morti, 100.000 feriti e 18.000 prigionieri. Un’ecatombe per conquistare pochi chilometri di terreno pietroso sull’altipiano della Bainsizza. Trieste era sempre lontana.
Ma al di là dell’esorbitante numero di morti e feriti tra le file italiane (sacrifici di sangue che ogni esercito pagava), il soldato italiano aveva la consapevolezza di essere solo “materiale umano” per i generali i quali progettavano inconcludenti offensive senza mai preoccuparsi del suo stato d’animo, delle condizioni di vita nel freddo e nel fango delle trincee e della pessima qualità del cibo che mangiava.
Spesso Cadorna rimandava o aboliva le licenze oppure richiamava in prima linea reparti decimati che già avevano combattuto per settimane. Anche quando il soldato era allontanato dalla prima linea verso le retrovie le condizioni di vita erano inumane, spesso nel pericolo di essere colpito dall’artiglieria austriaca e con il divieto tassativo di entrare nei villaggi e nelle città per evitare che fosse visibile lo stato animalesco in cui versava. Gli unici momenti in cui dimenticava gli orrori che aveva visto era quando beveva abbondantemente grazie all’alcool generosamente elargito dai comandi e quando aveva la possibilità di avvicinarsi a uno dei tanti bordelli delle retrovie che Cadorna aveva quasi subito autorizzato.
In queste condizioni non si poteva pretendere che il soldato italiano fosse animato da fervore patriottico come quello tedesco, inglese e francese e neppure che facesse propri gli ideali piuttosto nebulosi che erano alla base della nostra guerra contro gli austro-ungarici.
Lo stato di grave sfiducia, provocato anche dalla durezza degli ordini e dalla inumanità della repressione degli episodi di indisciplina e ammutinamento, giustificano nei giorni della rotta le migliaia di fucili buttati ai bordi delle strade, le mostrine strappate alle divise, la ricerca di abiti civili con i quali tornare al più presto a casa nell’illusione che la guerra fosse finita.
Scrive Angelo Del Boca chiarendo le responsabilità del generalissimo: “Cadorna è stato per ventinove mesi il vero, indiscusso padrone dell’Italia. Nessuno prima di lui e dopo di lui (Mussolini compreso), si è arrogato il diritto di vita e di morte su tutti gli abitanti della penisola. Disponeva, a suo piacimento, di uno degli eserciti più potenti del mondo, continuamente rafforzato con immani trasfusioni di sangue. Disponeva di propri tribunali di guerra, che imponevano la sua legge. Attraverso la censura militare metteva un bavaglio a combattenti e a civili. In accordo con Sidney Sonnino, poteva senza battere ciglio decretare la morte per fame di 100.000 prigionieri. Per finire, era l’uomo che non aveva il minimo imbarazzo nel diramare direttive di questo tenore: “Deve ogni soldato essere certo di trovare, all’occorrenza, nel superiore il fratello o il padre, ma anche deve essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi” (9).
Fu facile poi da parte degli alti comandi attribuire ai soli soldati gli scempi della ritirata con il saccheggio dei civili, l’uccisione sommaria di ufficiali e carabinieri che cercavano di portare un po’ di ordine, l’abbandono al nemico di enormi quantità di materiali, la resa di interi reparti. Cadorna parlò di “sciopero militare”, di “propaganda sovversiva” di stampo socialista che aveva da tempo raggiunto il fronte, di nessuna coscienza di patria e del dovere all’interno di masse di soldati tetragone a qualunque ideale. In realtà invece“la fanteria nell’annata 1917 era grandemente demoralizzata. Voleva la pace a tutti i costi… L’offensiva di maggio (Decima battaglia dell’Isonzo) aveva fiaccato la resistenza dei fanti, quella di agosto (Undicesima battaglia), condotta brutalmente e a forza di carabinieri, aveva messo a nudo le piaghe di cui soffriva il popolo delle trincee. Il fante non uccideva i carabinieri, non sparava contro le automobili dei generali, contro le colonne dei camion, contro le finestre illuminate degli alti Comando… per un’insofferenza alla disciplina o per istinti criminali, bensì per ragioni profondamente umane e sociali… La guerra era divenuta una sofferenza sociale…” (10).
La Commissione d’inchiesta, al lavoro tra il ’18 e il ’19, chiarì che Tra Plezzo e Tolmino era stato attuato un modernissimo piano di guerra che aveva provocato una sconfitta militare derivata da una vera e propria sorpresa strategica. Gli errori del Comando poi avevano aggravato la situazione, ma era da escludere il presunto “tradimento” organizzato dalla truppa e propagandato dai vari Cadorna, Mussolini e Bissolati. “In conclusione: la rotta e lo sbandamento, il gettare le armi vengono oggi considerati l’effetto e non la causa di ciò che chiamiamo Caporetto” (11).
La riorganizzazione dell’esercito lungo il Piave
L’accanita resistenza lungo il Piave, durata un anno fino alla battaglia decisiva di Vittorio Veneto (iniziata il 24 ottobre del ’18, ad un anno esatto da Caporetto), ci fa comprendere che il soldato italiano a certe condizioni voleva continuare a combattere (12).
Diaz capì che bisognava invertire la rotta pena la sconfitta italiana. Ammorbidì gli strumenti repressivi pur senza abolirli, ripristinò le licenze, migliorò il trattamento al fronte, assicurò il riposo nelle retrovie, migliorò l’alimentazione e istituì una struttura di propaganda che aveva il compito di motivare al combattimento il soldato italiano e soprattutto limitò fino ad annullarle le scriteriate offensive sul modello di Cadorna che tanta rabbia avevano instillato tra i soldati.
L’esercito poté contare anche sull’entusiasmo dei cosiddetti “Ragazzi del ‘99” e sui giovani volontari della leva dell’anno 1900 che riempirono i vuoti dei reparti e rinsaldarono le difese.
Niente di eccezionale, quindi, si trattava di provvedimenti sensati che Cadorna e il suo Stato Maggiore avrebbero dovuto far propri e che invece non furono mai introdotti provocando, tra le tante conseguenze, anche il disastro di Caporetto.
“Un silenzio pesante, il silenzio della sconfitta grava sulla valle dell’Isonzo,
da cui si alza il fumo degli ultimi incendi. L’artiglieria non spara quasi più:
qualche raffica di mitragliatrice echeggia ancora sul Matajur… e non si ode più nulla.
Questo allontanarsi, questo ammutolire, questo estinguersi della battaglia
è una cosa che supera ogni immaginazione.
Ventisette mesi di guerra, combattuti su quei monti che parevano imprendibili,
sono un sogno che dilegua”
Cesco Tomaselli, “Gli ultimi di Caporetto”, 1931
1) Mac Gregor Knox, “Destino comune: dittatura, politica estera e guerra nell’Italia fascista e nella Germania nazista”, op. cit., p. 222. I più intelligenti ufficiali italiani si erano accorti che tra il nostro esercito e quello austriaco c’era un notevole gap tattico: “E bisogna confessare che (il sistema di azione tattica) l’austriaco è assai più snello, più elastico del nostro… l’austriaco in tutta la sua concezione di guerra è meno rigido di noi. E’ curioso, sembra impossibile a noi che vantiamo sempre la genialità latina, ma è così. Ne dà prova ogni giorno”. La significativa riflessione è di Angelo Gatti in “Caporetto: dal diario di guerra inedito (maggio-dicembre 1917)”, citato in MacGregor Knox, “Destino comune”,op. cit., p. 209. In questo periodo Gatti è lo storico ufficiale del Comando Supremo di Cadorna e stretto collaboratore del “generalissimo”
2) Mentre gli austro-tedeschi stanno dilagando ovunque nel Bollettino delle ore 13 del 24 ottobre Cadorna scrive: “Il nemico ci trova saldi e ben preparati”. Tra le 18 e le 19 Cadorna è ancora ignaro di quanto sta accadendo. Solo in serata, intorno alle 22, dopo circa 14 ore dall’inizio dello sfondamento, si avrà la dimensione del disastro. “Dove erano gli ufficiali dello Stato maggiore generale nei momenti in cui si giocavano tutte le nostre fortune?”, si chiedevano i fanti (“Questo è il grido che erompe e risuona dovunque”); in Luigi Gasparotto, “Rapsodie (diario di un fante)”, Treves, 1924, p. 171
3) Vi furono alcuni ufficiali che si batterono fino alla fine con un gran senso dell’onore mentre la stragrande maggioranza degli ufficiali fuggiva per prima abbandonando interi battaglioni e reggimenti al proprio destino, ossia l’annientamento oppure la cattura. Il generale Giovanni Villani, comandante della XIX Divisione, sopportò il primo urto e di fronte al disastro si suicidò lasciando un biglietto: “Non ce la faccio più… lascio ad altri l’incombenza di continuare”. Si suicidò anche il generale Gustavo Rubin de Cervin. Di fronte alle accuse di Badoglio di aver ceduto “intempestivamente”, il generale, che non poteva sopportare di essere accusato dal maggior responsabile del disastro, preferì mettere fine alla propria vita
4) Queste valutazioni sono dello storico, ed ex combattente nella Grande Guerra, Piero Pieri in “L’Italia nella prima guerra mondiale”, Einaudi, 1965, p. 152. Da notare che Pieri, a differenza di tanti storici oggi, come Ludovico Del Boca, Mario Isnenghi, Silvio Bertoldi e altri, considera Cadorna nel complesso un valido stratega pur rimproverandogli l’indifferenza di fronte alle sofferenze dei suoi soldati. Però su Caporetto Pieri è implacabile inchiodando Cadorna a responsabilità precise e documentate. Si vedano in particolare le pagine 160-162 nelle quali Pieri mette in evidenza una serie impressionante di analogie tra gli errori di Cadorna a Caporetto e gli errori precedenti del generalissimo al tempo della “spedizione punitiva”
5) Di tutti i responsabili di Caporetto Badoglio sarà il solo che riuscirà a cavarsela a buon mercato diventando sottocapo di Stato Maggiore di Diaz. Addirittura nel 1918, a conclusione dei lavori della Commissione d’inchiesta, le tredici pagine che riguardavano Badoglio furono misteriosamente stralciate azzerando la sua condotta in quei giorni. Cadorna, Cavaciocchi e Capello più altri alti generali compariranno invece di fronte alla Commissione d’inchiesta con tutto il peso delle proprie responsabilità uscendone distrutti. Finita la guerra Badoglio si avviò a una brillante carriera militare divenendo rapidamente una figura di primo piano della politica espansionistica dello Stato fascista. Il suo nome è legato alle tristi vicende dell’8 settembre, per certi versi simili alla tragedia di Caporetto. Tra le memorie più dure nei confronti di Badoglio ricordiamo “Un anno al comando del IV corpo d’armata” del generale Alberto Cavaciocchi (Gaspari, 2006), un testo che Mussolini vietò al suo apparire nel ‘25
6) “Dunque, ci saranno anche i tedeschi. Niente paura. Gliele daremo. Così avremo anche le loro mostrine nei nostri campi di concentramento di prigionieri”, in Silvio Bertoldi, “Come si vince o si perde una guerra mondiale”, Rizzoli, 2005, p. 138. Da notare che il generale cecoslovacco quattro giorni prima aveva consegnato agli italiani una copia dell’intero piano offensivo con tutte le indicazioni, compreso il settore d’attacco e l’ora d’inizio dei bombardamenti.
7) Così dichiarò Cadorna a Luigi Gasparotto il 7 novembre del 17 a Treviso, nuovo Quartier Generale dopo l’abbandono di Udine; in “Rapsodie (diario di un fante)”, op. cit., p. 174. Anche nei giorni successivi Cadorna continuò ad essere convinto che la rotta non era assolutamente una responsabilità da addebitare a lui. Potremmo dire, senza esagerare, che fino alla morte l’ex generalissimo continuò ad addebitare ad altri le colpe di Caporetto
8) Curzio Malaparte, “La rivolta dei santi maledetti”. In questo momento una gran folla di civili in fuga si accalca per attraversare un ponte sul Piave. Le testimonianze su Caporetto riguardano alcuni del libri più belli scritti sulla Grande Guerra, per esempio “Le scarpe al sole” di Paolo Monelli; “La ritirata dal Friuli” (1934) di Ardengo Soffici; “Il castello di Udine” (1955) di Carlo Emilio Gadda; “Diario di un imboscato” (1921) di Attilio Frescura; “In guerra con gli alpini” (1935) di Alberto Garaventa; “Giorni di guerra” (1960) di Giovanni Comisso; “Addio alle armi” di Ernest Hemingway (1946); ”Tappe della disfatta” (1965) di Fritz Weber; “Epistolario 1911-1926. Da Luigi Alberini” (1968) di Oreste Rizzini; “Gli ultimi di Caporetto” (1931) di Cesco Tomaselli. Tra gli ultimi contributi segnalo il romanzo di Alessandro Baricco, “Questa storia” (2006), che contiene una sessantina di pagine dedicate alla rotta del ’17 e “Il movimento del volo” della giovane scrittrice Antonella Sbuelz (2007) la quale racconta storie di donne travolte dalla storia, tra cui Ada che fugge incinta nel momento della rotta di Caporetto e Rachele il cui marito è ufficiale in una trincea del Carso e perde il bambino appena nato. Per la tragedia dei profughi friulani segnaliamo il recente “Gli esuli da Caporetto, i profughi in Italia durante la grande guerra” di Daniele Ceschin, Laterza, 2006.
9) Angelo Del Boca, “Italiani, brava gente?”, op. cit., pp. 141/142 e Rochat e Massobrio, “Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943”, p. 120. Caso unico tra le nazioni in lotta, il governo italiano rifiutò qualunque aiuto alle decine di migliaia di soldati finiti prigionieri in Austria. Il risultato furono circa 100.000 decessi per fame e malattie collegate alla denutrizione. Anche l’opera della Croce Rossa fu ostacolata. Per il governo italiano i prigionieri erano “imboscati d’oltralpe”, secondo l’infamante espressione di D’Annunzio. Per questo capitolo, che sicuramente getta una luce fosca sulla classe dirigente italiana, si veda soprattutto di Giovanna Procacci, “Soldati e prigionieri nella grande guerra”, Bollati e Boringhieri”, 2000 e il recente “Arnaldo Fraccaroli – Corrispondenze da Caporetto”, “Fondazione Corriere della Sera”, 2007
10) Curzio Malaparte, “La rivolta dei santi maledetti”, p. 121
11) Mario Isnenghi, “Breve storia dell’Italia unita a uso dei perplessi”, Rizzoli, 1998, p. 109
12) “Quando i tedeschi, grazie anche alle scarse capacità degli alti comandi italiani, sfondarono il fronte a Caporetto nell’ottobre del ’17, 294.000 soldati contadini si arresero senza grande vergogna. Ma altre unità italiane, liberate dall’influenza nefasta dell’alto comando dai rapidi spostamenti e dalla conseguente crisi dei collegamenti, prima rallentarono e poi arrestarono l’avanzata delle truppe tedesche quasi alle porte di Verona e Venezia grazie a una difesa flessibile e coriacea”, MacGregor Knox, “Destino comune”, op. cit., p. 37
Cadorna
Il generale Cadorna ha perso l’intelletto
chiamà il ’99 che fa ancor pipì nel letto
Il generale Cadorna ‘l mangia ‘l beve ‘l dorma
e il povero soldato va in guerra e non ritorna.
Bom bom bom
al rombo del cannon
Maledetto sia Cadorna
prepotente come d’un cane
vuol tenere la terra degli altri
che i tedeschi sono i padron.
E i vigliacchi di quei signori
che la credevano una passeggiata
quando sentirono la loro chiamata
corse a Roma e s’imboscò.
E quei pochi che ci resteranno
quando poi verranno a casa
impugneranno la loro spada
contro i vigliacchi di quei padroni.
O vile Italia, come la pensi
del tuo popolo così innocente
che non ti ha mai fatto niente
e tu, vigliacca, lo vuoi tradir?”
E anche al mi’ marito
… e a te, Cadorna, ‘un mancan l’accidenti
ché a Caporetto n’hai ammazzati tanti;
noi si patisce tutti questi pianti
e te, nato d’un cane, non li senti.
E’ un me ne ‘mporta della tu’ vittoria,
perché ci sputo sopra alla bandiera;
sputo sopra l’Italia tutta ’ntera
e vado ‘n culo al re con la su’ boria.
E quando si farà rivoluzione
ti voglio ammazzà io, nato d’un cane,
e a’ generali figli di puttane
gli voglio sparà a tutti cor cannone
Canzone popolare toscana composta dopo la disfatta di Caporetto.
Una moglie canta la tragedia della guerra.
Il brano risente, come il precedente, della propaganda rivoluzionaria socialista